Sogni e tarme: chi sono i sognatori?
Ho visto pochi giorni fa una foto pubblicata da un’amica sul grande tazebao di Facebook: ritrae un murales che riporta la frase “I sogni nel cassetto se li mangiano le tarme”. Mi è sembrato che nell’oceano di tante frasi fatte e banalità lette sul tema dei sogni, queste poche parole avessero una loro ironica ma fulminea efficacia. E come a volte accade con gli aforismi, pur consapevole di non trovarmi davanti a una massima di Seneca o a uno dei geniali epigrammi di Flaiano – “Sognatore è un uomo con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”, giusto per restare in tema - leggerla ha innescato una cascata di riflessioni sulla forza dei sogni e sulla volontà che alcune persone hanno di inseguirli e (provare a) realizzarli.
Partendo dal sogno, mi è venuto quasi immediato pensare a Daniele Nardi. Ho conosciuto Daniele tanti anni fa, nel 2005, in occasione della sua spedizione allo Shisha Pangma, alla cui organizzazione avevo lavorato ai tempi. Era contagioso nella sua determinazione e nel suo entusiasmo così “mediterraneo”. Ho continuato a seguirlo successivamente nelle sue salite fino a incontrarlo di nuovo professionalmente nel 2011 per l’organizzazione della sua spedizione al Bhagirathi III con Roberto Delle Monache, una spedizione logisticamente complicata su una montagna splendida e difficile del Garwhal, che Daniele perseguiva con la sua solita ostinazione e passione. Ricordo che davanti a una serie di difficoltà logistiche e di permessi, avevo dovuto ricorrere a tutto il mio “mestiere” e ai contatti in India per riuscire a metter in fila le cose, fino a incontrare – grazie al mio corrispondente - un alto ufficiale dell’esercito indiano che avrebbe reso la richiesta del permesso di salita meno difficile. Insomma, Daniele non era uomo da arrendersi davanti ai problemi e non lo fece nemmeno su quella montagna, nonostante un meteo infernale e difficoltà tecniche molto elevate.
Non mi ha quindi affatto sorpreso l’ostinazione con cui ha inseguito il suo sogno, la sua magnifica ossessione: il Nanga Parbat. Per questa montagna Daniele ha messo in gioco tutto, anche molto prima dell’ultima, definitiva spedizione. Ha dedicato tempo, risorse, energie, consumandosi per lunghi mesi invernali sui pendii dell’ottomila pakistano. Criticato spesso da tanti colleghi dell’elite alpinistica per la scelta ostinata della stagione invernale e, infine, di una via così estrema, una via, per molti, non adatta a lui, in fondo. Perchè Daniele era sempre stato considerato da diversi himalaysti italiani, con buona dose di snob(alpin)ismo, un alpinista figlio di un dio minore; un po’ perchè di origini non alpine (peccato mortale) e un po’ per il suo carattere a volte un poco guascone e mediterraneo. Le polemiche nate durante e dopo il tentativo invernale 2015/16, senza voler entrare nel merito, sono un esempio del suo rapporto non facile col mondo alpinistico dell’alta quota. Anche se tutto questo, almeno apparentemente, non aveva mai smorzato la sua voglia di farsi conoscere e soprattutto riconoscere il merito, se non altro, di non voler seguire vie facili e già battute. E la forza del vero sognatore sta proprio qui: nella determinazione incrollabile che usa per rendere reale il suo sogno.
Quanti, come e anche più di Nardi, hanno attraversato con cocciutaggine i secoli dell’esplorazione geografica e alpinistica e dell’avventura con i loro progetti folli o semplicemente in grande anticipo sui tempi? Impossibile contarli. Molti di loro sono rimasti senz’altro sconosciuti o confinati ai loro ambiti specifici: le montagne, gli oceani, i fiumi o i cieli. Altri invece sono entrati, talvolta oltre le loro aspettative, di diritto nella leggenda, come Maurice Wilson e Alessandra David-Néel, clandestini in Tibet. O Bill Tilman, passato dalle vette himalayane agli oceani nel corso di un’unica, avventurosa vita. O come Amelia Earheart, che staccava l’ombra da terra, per citare una bella immagine di Del Giudice.
La vicenda di Maurice Wilson è ormai nota: classe ’98, reduce della prima guerra mondiale, spirito indomito e bizzarro, con tratti di misticismo che lo aiutano sicuramente a pensare “oltre”, Wilson, senza alcuna esperienza di alpinismo e di volo, decide che lo scopo della sua vita è tentare la salita dell’Everest. Dopo aver preso un brevetto di volo in fretta e furia, riesce miracolosamente - e dopo varie tappe complicate in cui rischia di essere rispedito in Inghilterra – a raggiungere l’India. Qui il suo biplano, l’Ever-Wrest (l’Indomabile) viene definitivamente confiscato dalle autorità, ma l’inglese non si rassegna e con stratagemmi degni di Indiana Jones, travestendosi da monaco buddhista, riesce ad attraversare il confine e a raggiungere Rongbuk. Da qui, con attrezzatura di ripiego e l’aiuto di due sherpa inizia i suoi disperati tentativi di salita lungo la via tentata (salita ?) nel 1924 da Mallory e Irvine, senza però riuscire a raggiungere nemmeno il Colle Nord. Abbandonato anche dagli sherpa, stremati dai tentativi infruttuosi, Wilson sale di nuovo verso l’alto il 29 maggio del 1934 per non ridiscendere più. Verrà ritrovato, assieme al suo diario, dalla spedizione di Eric Shipton l’anno successivo e sepolto in un crepaccio. “Fuori è di nuovo una splendida giornata”, è l’ultima nota sul suo diario.
La storia di Alexandra David-Néel attraversa ben centouno anni di vita coprendo un secolo tra i più complessi e agitati della storia: dal 1868 al 1969. A diciotto anni d’età, giusto per mettere le cose in chiaro in famiglia, lascia i genitori a Bruxelles e parte per un viaggio in bicicletta verso Spagna e Francia. Da quel momento la sua vita diventa una continua, instancabile esplorazione di culture, religioni e paesi. Vive e studia buddhismo e lingue orientali prima in Inghilterra e Francia, frequentando allo stesso tempo movimenti femministi e anarchici. Poi viaggia a lungo in India, iniziando subito dopo una brillante carriera di cantante lirica che la porterà a esibirsi in giro per il mondo e a diventare prima donna all’Opera di Hanoi e direttrice artistica del teatro di Tunisi. Ma è negli anni della prima guerra mondiale che compie il suo viaggio più incredibile: dopo due anni di eremitaggio in Sikkim dedicati alla pratica di esercizi spirituali tibetani assieme al monaco Aphur Yongden, che Alexandra poi adotterà come figlio, nel 1916 si reca in Giappone. Di qui, ispirata dal monaco giapponese Ekai Kawaguchi, si sposta a Pechino da dove, dopo varie peregrinazioni tra Corea e Mongolia, nel 1924, travestita da tibetana assieme a Yongden, attraversa la frontiera tibetana per raggiungere Lhasa, dove arriva dopo otto mesi di viaggio durissimo, per il clima e per la necessità di non farsi scoprire dalle autorità. Il resto della sua lunga vita si svolge tra Cina, Tibet e Provenza, dove torna dopo la guerra e rimane fino alla sua morte, avvenuta nel 1969. Solo l’anno prima, compiuti 100 anni, Alexandra David Néel rinnova il passaporto per un progetto di giro del mondo su una Renault 4 guidata dalla sua assistente.
Bill Tilman è senza ombra di dubbio uno dei più originali ed eclettici alpinisti/esploratori che siano vissuti in questo secolo. Come il coetaneo Wilson, anche Tilman, da buon britannico, possiede nel suo DNA tutti i geni dell’avventura più pura. E come Wilson vive gli anni terribili della prima guerra mondiale, uscendone altrettanto “sradicato”. Ma con più fortuna – e sicuramente più talento - scopre, in terra africana dove si è trasferito come colono, l’alpinismo, formando con Eric Shipton una delle coppie alpinistiche più forti e note degli anni trenta. Dopo le vette africane di Kenya, Kilimanjaro e Ruwenzori, i due inglesi iniziano una lunga serie di esplorazioni e salite in Himalaya, tra cui spicca nel 1936 la splendida scalata, assieme a Noel Odell, del Nanda Devi, 7.434 metri: forse la prima salita realizzata senza ossigeno in stile leggero e veloce. Dopo un tentativo come capo-spedizione all’Everest nel 1938, dove gli alpinisti raggiungono senza ossigeno la quota di 8.150 metri, Tilman torna a combattere da volontario nella seconda guerra mondiale, militando come partigiano tra il ‘44 e il ‘45 addirittura nella brigata Garibaldina Antonio Gramsci a Feltre.
Subito dopo la guerra Tilman rinuncia alle salite in quota, riconoscendo il declino delle sue capacità fisiche e preferendo dedicarsi all’esplorazione pura, con lunghi viaggi in Pakistan, Xinjiang, Kirghizstan, Tibet, Nepal e Karakorum. “L'avversione per i sentieri battuti è prova di un intelletto indipendente, anche se tale indipendenza può a volte rivelarsi molto cara”, commenta con humour tutto inglese nei suoi racconti di viaggio.
Ma la sua curiosità non trova soddisfazione e alla soglia dei sessant’anni, Tilman diventa uomo di mare, pur senza alcuna esperienza precedente. Con il “Mischief” (letteralmente marachella o monelleria), una vecchia barca in legno ultra-spartana acquistata per poche sterline, compie a partire dal 1958, una serie di incredibili esplorazioni in Patagonia, Antartide, Groenlandia (dove perde il Mischief che sostituirà negli anni con altre due barche), Svalbard, Baffin e intorno all’Africa. A quasi 80 anni Tilman viene invitato a partecipare a una spedizione in barca in Antartide e ovviamente accetta. Durante la traversata da Rio de Janeiro alle Isole Malvinas, la barca scompare senza lasciare traccia, consacrando definitivamente la leggenda di Bill Tilman.
Amelia Earheart si appassiona al volo a 23 anni e un anno dopo, prende il brevetto di volo. Col suo biplano Canary, acquistato con l’aiuto della madre, stabilisce solo un anno dopo il record femminile di altitudine. Nel 1928, dopo una serie di altri record di volo, la Earheart viene invitata a tentare una trasvolata atlantica con altri due membri di equipaggio, per diventare la prima donna ad attraversare l’Oceano in volo. Cosa che avviene con l’atterraggio in Galles 21 ore dopo il decollo dagli Stati Uniti. Nel maggio del 1932 ripete la trasvolata oceanica, ma finalmente in solitaria, da Terranova a Londonderry, in 14 ore e 56 minuti. Per l’impresa riceve la medaglia d’oro della National Geographic Society, accettata a nome di tutte le donne. La sua indipendenza e il rifiuto delle norme sociali e dei ruoli prettamente femminili la porta a diventare un personaggio molto popolare. Scrive libri e articoli, tiene conferenze e lavora a progetti educativi universitari in favore delle donne; ma il suo ambiente è l’aria e Amelia continua a battere record, diventando la prima donna ad attraversare gli Stati Uniti senza scalo e l’Oceano Pacifico da Oakland a Honolulu.
Nel 1937 il suo sogno più grande: il giro del mondo in volo sulla linea dell’Equatore: 47.000 chilometri. Assieme al suo secondo Fred Noonan, dopo un paio di false partenze per problemi tecnici, il 1° giugno decolla da Miami. Con alcuni scali intermedi atterra in Nuova Guinea il 29 giugno, dopo 35.000 chilometri: restano ora gli ultimi 11.000 sopra il Pacifico, i più critici. Il 2 luglio Amelia decolla e si lancia nel cielo sopra l’Oceano. Dopo alcuni faticosi contatti radio con un cutter della marina americana che incrocia sotto di lei per aiutarla nella navigazione verso l’isola di Howland, scalo per il rifornimento nel mezzo del nulla, del bimotore Lockheed Electra e dei suoi passeggeri si perde per sempre ogni traccia. Amelia Earheart scrive al marito prima di partire: “Sappi che sono consapevole dei rischi che corro, e se lo faccio è perché lo voglio. Le donne devono provare a fare ciò che fanno gli uomini e, quando falliscono, il loro insuccesso deve essere una sfida per gli altri.”
Ecco chi sono i sognatori: individui visionari, capaci di fare della propria vita un viaggio continuo di scoperta ed esplorazione, mossi dal motore potente e inarrestabile della curiosità, che è poi la base di tutto. Uomini e donne insofferenti ai vincoli della consuetudine e delle convenzioni, non a caso molto spesso flagellati da moralisti e giudici da poltrona di ogni epoca ed estrazione sociale, incapaci di capire quale sia la portata di un sogno o anche solo di provare minimamente a immaginare una vita diversa dalla propria, stereotipata e stanziale.
“Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto e insopportabile dopo due? Alcuni viaggiano per affari, ma io non ho nessuna ragione economica per muovermi e tutte le ragioni per star fermo. I miei moventi dunque sono materialmente irrazionali. Che cos’è questa irrequietezza nevrotica?” Se lo chiede Bruce Chatwin scavando nei meandri della sua anima e trovando nei viaggi quell’”alternativa nomade” svincolata dagli obblighi razionali della collettività, che tanto lo affascina.
“Diceva Ulisse, chi’mm’o ffa fa’, la strana idea che c’ho di libbertà”, cantano invece gli Avion Travel in una bella canzone di qualche anno fa. Può pure essere una strana idea di libertà quella di spingersi sui terreni più ignoti, rischiosi e lontani, ma sappiamo benissimo chi o cosa ce lo fa fare: il desiderio di togliere i sogni da sotto i denti delle tarme e renderli vita.
Manuel Lugli
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