Silvestro Franchini e il Lhotse one push. Niente vetta, ma l'esperienza è uguale.
Niente vetta del Lhotse per Silvestro Franchini. In compenso un'esperienza forte, difficile, rocambolesca e bella che sicuramente lascerà il segno. A metà aprile la guida alpina 37enne di Madonna di Campiglio si era recata in Nepal insieme a Mario Casanova per tentare il Lhotse, con i suo 8516 metri la quarta montagna più alta della terra. I due alpinisti avevano in programma una salita leale, senza l'aiuto di sherpa in alta quota e senza ossigeno supplementare; Casanova ci è riuscito il 20 maggio.
Durante la delicata fase di acclimatamento tutto è filato abbastanza liscio ma persino Franchini, che da sempre predilige uno stile leggero e veloce, ha dovuto abbassare il ritmo. Ha raccontato "mi sembra di salire al rallentatore, qualche volta addirittura con il tasto pause premuto, mi guardo in giro ed è così anche per gli altri, anzi si muovono quasi tutti più lenti di me. Questo non mi piace, è un po' frustrante, sono abituato a muovermi con efficienza e a queste quote non sono capace."
Una sfida importante insomma, non soltanto perché per Franchini si trattava della prima esperienza nell'aria rarefatta degli 8000, ma perché il tentativo è arrivato dopo il gravissimo infortunio nel 2020. Da quel coma farmacologico, da quelle contusioni a fegato e reni, nove costole rotte e terza vertebra lombare frantumata, sono passati 4 anni. 1500 giorni in cui uno dei pensieri principali di Franchini è "che bello essere sani." E anche "che bello andare in montagna." A prescindere della vetta raggiunta oppure no. Ecco il suo report, sincero e avvincente.
LHOTSE ONE PUSH - LE COSE SEMPLICI E CLASSICHE NON MI SONO MAI PIACIUTE di Silvestro Franchini
Partire direttamente dal campo base per il mio primo 8000 e per la quarta montagna più alta della Terra non era proprio quello che avevo pianificato di fare. E, per di più, scegliere di farlo proprio di venerdì 17 forse non è stata una grande idea, ma si sa le cose difficilmente vanno come ci si aspetta.
Il mio programma era quello di dormire al Campo 2 con Mario Casanova e poi al Campo 3, ma quando sono arrivato al Campo 2 in forma e riposato, lo zaino - che avevo lasciato lì qualche giorno prima - era stato svuotato e il sacco a pelo che mi era stato prestato da Massimiliano Gasperetti non c'era più.
Mentre aspettavo che anche Mario arrivasse al Campo 2 ho pensato al da farsi: di scendere subito non se ne parlava; fermarsi al Campo 3 - dove avevo lasciato la tuta di piuma - avrebbe significato soffrire il freddo tutta la notte; e, quindi, non restava che proseguire.
Decido, quindi, di continuare a salire, chiedo a Mario se vuole fare lo stesso, ma risponde che non se la sente. Nel frattempo al Campo 2 arriva anche Matteo Bonalumi che, però, mi sconsiglia di salire. Dice testualmente che non salirebbe neanche se gli dessero euro 100.000. In cuor mio sono contento, ho sempre sognato di fare una salita del genere, ma, forse, non avrei mai avuto il coraggio di lanciarmi.
Salgo al Campo 3 senza fatica. Libero la tenda dalla neve e mi rendo conto che qualcuno l'ha usata. Per fortuna trovo la tuta che mi ha prestato Silvio Mondinelli, ma ahimè manca il fornello (strumento indispensabile se si vuole bere in quota). Per fortuna ho portato con me 2 litri di acqua che, quindi, dovranno bastarmi per tutta la scalata.
Mangio il formaggio di cavallo dei miei amici Kazaki che, però, è diventato duro come il marmo e qualche biscotto. Bevo mezzo litro di acqua, l'altro mezzo lo berrò prima di ripartire. Le borracce devo tenerle nella tuta altrimenti congelano.
Nonostante questo brutto imprevisto sono sereno. Sto facendo la salita in stileminimaleanimale che ho sempre sognato e, anche se so di avere poche probabilità di riuscita, ci provo.
Alle 23:30 parto dal Campo 3. Ho subito caldo poi, piano piano, inizio a stare bene. La fatica si fa sentire al Campo 4. Sono stanco e ho voglia di tornare indietro. Non c'è nessuno con me. Mi vengono in mente i Cileni, gli unici due che - senza sherpa e senza ossigeno- qualche giorno fa, dopo essere arrivati sino a qui, si sono ritirati e ora sono a Katmandu dove, a causa del freddo che hanno patito, rischiano l'amputazione delle dita dei piedi.
Ogni tanto mi viene da dormire, ma mi sforzo di stare sveglio. Salgo piano piano. Mi dico di fare un pezzo alla volta. Supero gli 8000 metri e sono contento. Vedo il canale finale: c'è un po' di nebbia e la cima mi sembra brutta. Sono stufo di fare fatica. So che la discesa sarà lunga e ho voglia di tornare a casa e vedere le mie bambine. Faccio dietrofront, arrivo al Campo 2 stanco. Non so dove sia Mario e non so nemmeno come abbiamo fatto a non incontrarci.
Scendo al Campo Base, poi a Namche e, adesso sono già a Lukla. Sono un po' deluso perché non mi sono spinto al limite. E però, sono contento perché sono sano e perché presto sarò con Anna e le bambine.
Oggi mi sento uno smidollato perché se avessi ritentato penso che avrei avuto buone possibilità di riuscita. Nel secondo tentativo avrei potuto portare con me il sacco a pelo - che in questi giorni ho usato al Campo Base - e il fornello che avevo di scorta.
Allo stesso tempo ho una gran voglia di ritornare a casa. Già mi sento in colpa per essere partito. Spostare il volo per ritentare mi sembra davvero troppo.
Sono contento perché nonostante l'insuccesso ho affrontato la montagna con uno stile impeccabile e ho visto com'è veramente l'Everest. Un’esperienza bellissima e potente. Affrontato con l'ossigeno è alla portata di tutti. E' come fare il passo dello Stelvio con la bici elettrica. Con l'aiuto degli sherpa è come avere dietro l'ammiraglia che ti cambia la ruota se buchi e ti dà la borraccia quando hai sete.
Nei prossimi anni sogno di fare la Guida qui. Viaggiare è fantastico e questi posti sono bellissimi. Ormai qui ho buoni contatti dappertutto e quindi non vedo l'ora di organizzare presto qualcosa di interessante.
Silvestro Franchini, Lukla, 20 maggio 2024