Riflessioni sull'avventura verticale... a Londra!
Federico Picinali, residente a Londra ormai da alcuni anni, racconta come un amante dell'arrampicata 'sopravvive' in questa grande metropoli in Inghilterra.
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La Manica... corta a Swanage
Federico Picinali
Non sono un alpinista. Forse vorrei esserlo. Son semplicemente un grande appassionato di arrampicata – anche se la mia passione, a dire il vero, è tutt’altro che ‘semplice’! Ne pratico diverse discipline come meglio riesco, cioè male. Guardo video e film di arrampicata a ripetizione; leggo articoli che spaziano da racconti di ascensioni a consigli sull’allenamento; leggo (auto)biografie di scalatori, libri che raccontano la storia di luoghi importanti del mondo verticale, resoconti di spedizioni, etc. In generale, mi attrae l’avventura verticale, quella ‘asciutta’ più di quella ghiacciata.
Vivo a Londra da ormai quasi quattro anni. Prima ho vissuto un anno e mezzo a Trento e due anni e mezzo negli Stati Uniti, spezzettati in vari periodi e passati in diverse città. Ma la gran parte della mia vita l'ho trascorsa a Milano, la mia città natale. Lì c’è ancora un pezzo della mia famiglia e ci sono ancora alcuni dei miei amici più cari. Ma questa non vuol essere una noiosa storia dei miei pellegrinaggi; solo un breve racconto su come sopravvive un appassionato di arrampicata a Londra.
Come noto, Milano è in un'ottima posizione per chi ama arrampicare. Non solo è più o meno centrale rispetto all'arco alpino, ma è molto vicina ad un gran numero di falesie e pareti. In 45 minuti di macchina si arriva a Lecco e lì si apre un mondo di roccia. E per chi ha meno tempo e non disdegna luoghi un pò lugubri, c'è anche qualcosa più vicino. Di Trento non c'è neanche bisogno di menzionare la praticità: in falesia o a far boulder ci si va in bicicletta. E Londra? Che cosa offrono i suoi dintorni?
In realtà ben poco. L'area d'arrampicata più vicina è a un'ora e mezza circa, nel Sussex. È la zona generalmente chiamata Southern Sandstone. Per carità, è una zona ricca di storia, dove si son misurati da Dawes a Moon, con tante vie dure e ipertecniche. Ma...è zona di toprope (i.e., si scala in moulinette). La roccia è troppo morbida per piantare spit o usare protezioni veloci. Quindi o sei un pazzo free soloer o ti devi accontentare ad avere la corda dall'alto. E quest’ultima opzione non è certo il massimo come avventura verticale. Si, c'è del boulder, peraltro in continua evoluzione – non tanto per via di nuove aperture ma perchè i morbidi appigli di arenaria cambiano forma col tempo! Ma....forse questo non è abbastanza per convincermi a viaggi frequenti. Tutto il resto (ad eccezione di falesie trad minori) è ad almeno due ore e mezza di macchina da casa mia: a sud-ovest ci sono le magnifiche scogliere di Swanage e Portland, a ovest c’è la Cheddar Gorge e a nord, ovviamente, il Peak District. Piu distanti sono le bellissime falesie del Devon, del Galles, del Lake District...
Nonostante le molte ore di viaggio, l'uscita in giornata è cosa piuttosto normale per l'arrampicatore londinese motivato. Certo, ci vuole una macchina, ci vuole una sveglia da ascensione scialpinistica e – l'ingrediente più importante – ci vogliono buoni compagni di viaggio. Arrivato a Londra quattro anni fa la macchina non l'avevo. La voglia della sveglia scialpinistica me la facevo venire. Fortunatamente i compagni di viaggio li ho trovati molto in fretta, nella palestra dove mi allenavo. Compagni di viaggio d'eccezione: Mike R., John e Mike P. Tutti più grandi di me e scalatori trad esperti con salite impegnative e piuttosto spaventose – almeno ai miei occhi di timido arrampicatore sportivo – alle spalle. E così abbiamo iniziato una routine abbastanza intensa di uscite nel finesettimana. Spesso si andava a Swanage e nel Peak District. Insomma, prevalentente trad…con qualche raro sprazzo di arrampicata sportiva.
Due avvenimenti hanno interrotto il ritmo. Il primo, l'incontro con Jules; il secondo la malattia di uno dei miei compagni. Jules vive e lavora a Nottingham – sì, la città dello sceriffo… o lo sceriffo della città…va beh – che si trova a due ore di treno a nord di Londra. La fortuna vuole – ma, in fondo, non è fortuna: è un ingrediente, seppur non fondamentale, della nostra relazione – che a Jules piaccia molto l’arrampicata. Scalava da poco prima che ci conoscessimo. È forte e tenace e continua a migliorare – a un passo molto più veloce del mio! Le relazioni a distanza presentano qualche pro e molti contro. Tra questi ultimi c’è la necessità di viaggiare per incontrarsi appena il lavoro lo permette. Siamo entrambi accademici e quindi godiamo di una certa flessibilità. Salvo le ore di insegnamento e i meeting con studenti e colleghi, possiamo lavorare più o meno dove vogliamo. Così, ogni weekend uno dei due si muove per incontrare l’altra/o. Ma se il weekend diventa l’occasione per me e Jules di incontrarci, vuol dire che non può più essere l’occasione per scalare con i miei compagni londinesi. Solo in rari casi siamo riusciti a scalare tutti insieme. E comunque, il tempo e le energie che il viaggio spesso toglie al lavoro, comportano qualche rinuncia sul fronte dell’arrampicata. La plastica è in fondo il modo migliore per arrampicare senza restare indietro con gli impegni lavorativi. Quindi, anche se il Peak District è poco più a nord di Nottingham, Jules e io siamo spesso costretti a rimandare uscite nel finesettimana per stare al passo col lavoro. Questo vale almeno nei mesi dei corsi (ovvero il term time), in cui le scadenze sono tante e i ritmi sono particolarmente elevati. In ogni caso, nonostante i miei viaggi a Nottingham e le visite di Jules a Londra, avrei sicuramente fatto più sforzi per scalare con Mike R., John e Mike P. se non fosse che anche loro hanno iniziato a scalare sempre meno insieme. Appunto, a causa di una malattia…
Ecco spiegato il perchè in questo periodo spendo molte più ore a tirare prese di plastica o legno che non prese di roccia…e, dato questo stato di cose, non posso non chiedermi come possa mantenersi ed essere alimentata la mia passione per l’avventura. È possibile conciliare questo disequilibrio tra ore indoor e ore outdoor con la mia passione, senza essere perennemente frustrato? Direi di sì. Senz’altro riesco a evitare la frustrazione. Resta però una continua tensione tra ciò che faccio (in soldoni, plastica) e ciò che vorrei fare (in soldoni, roccia). Ma questa tensione, in fondo, non è affatto negativa: è un positivo, se non vitale stimolo all’azione. Ciò che faccio lo faccio in vista di ciò che vorrei fare. E, perciò, ciò che faccio diventa esso stesso ciò che vorrei fare. È uno po’ uno scioglilingua, me ne rendo conto. In altre parole, credo di riuscire ad appagare almeno in parte il mio desiderio di avventura nell’allenamento. Ma perchè questo avvenga è necessario creare la prospettiva di mettere in pratica ciò che imparo. Ecco la tensione. Le due fondamentali dimensioni della mia avventura sono, dunque, l’allenamento e la prospettiva. La prospettiva consiste nel pianificare viaggi o uscite – con Jules, col mio caro amico Paolo, con i miei compagni londinesi… – che abbiano come tema centrale l’avventura sulla montagna ‘asciutta’. Ma come faccio ad appagare il desiderio di avventura nell’allenamento? In buona parte proprio attraverso la pura e semplice prospettiva a breve, medio o lungo termine. Ad esempio, pensando che una buona sessione di boulder mi permetterà di chiudere qualche boulder o tiro su roccia in un imminente viaggio. In aggiunta, ho trovato un modo tutto mio di vivere l’avventura nell’allenamento, un modo che non prescinde dalla prospettiva, ma in qualche modo la anticipa, la rende presente. Da qualche mese ho un piccolo muro di arrampicata a casa – uno stravizio, lo so! È in una stanza relativamente piccola, con una grande finestra che dà sul giardino. Ho messo in questa stanza una libreria che ho riempito con tutti i miei libri e riviste di montagna. Alle pareti ho appeso due piccoli poster del Film Festival di Trento, una gigantografia dell’Aig. Noire regalatami da Jules – montagna che ho salito con (anche se sarebbe più corretto scrivere ‘montagna su cui mi ha portato’) Paolo – e una vecchia copertina della Domenica del Corriere, con un disegno che raffigura Walter Bonatti mentre scala il Petit Dru – la chiamo il Bonatti shrine, ovvero l’ ‘altarino di Bonatti’, pur pensando che probabilmente Bonatti non avrebbe apprezzato un’idolatria della sua persona. C’è poi un tavolino con un leggio sul quale tengo aperto un grosso libro su Cassin oppure – se invece che avere nostalgia di casa mi sento a casa dove già sono – il libro Peak Rock, un entusiasmante volume sulla storia dell’arrampicata nel Peak District dall’Ottocento fino ai giorni nostri. E così, dopo essermi accanito su un boulder di mia invenzione al suono dei Rage against the machine o dei Foo fighters, riprendo fiato leggendo, ad esempio, della salita di Cassin al Badile, o di quella di Whillans sul Pilone Centrale, o di Boardman e Tasker sul Changabang, o guardando le foto di un nuovo sito di boulder in Turchia o qualche video di arrampicata (e.g., il video-musicale di Rustam Gelmanov, per me un capolavoro). Attraverso questi media l’immaginazione spazia…direi ‘ove per poco il cor non si spaura’. Non solo i libri, le riviste, i video sono un’ispirazione per viaggi (magari viaggi che mai realizzerò, ma basta che io creda nella loro possibilità) e dunque rafforzano la progettualità. Questi media – insieme all’ambiente ‘montano’ della mia stanzetta – producono anche l’impressione (davvero vivida talvolta) di essere tra le ‘mie montagne’. ‘Mie’ non significa certo che credo che alcuna montagna mi appartenga. Si tratta di un’ovvia citazione bonattiana e, per me, vuol dire proprio l’opposto. Sento che sono io ad appartenere alle montagne; forse non a tutte, ma ad alcune senz’altro. Quando sento di appartenere a loro – magari mentre spazzolo qualche presa o mollo un urlaccio nel tentativo di trattenerla dopo un bel lancio – sento di essere lì dove loro stanno, sento di poterle percorrere, di potermi avventurare sui loro versanti ‘asciutti’.
Dunque, in questo periodo della mia vita l’avventura – questo ‘casalingo’ senso di appartenenza alla montagna insieme all’esaltante attesa di, e preparazione per, un viaggio futuro – sembra essere più nella mia testa che non nella relazione fisica tra il mio corpo e questo mondo. Ma, in fondo, credo sia così anche quando mi grattugio le mani nel Peak District o mi lascio perdere su qualche sentiero in Apuane. Non sono certo il primo a credere che l’avventura sia prima di tutto in noi stessi, nel modo in cui percepiamo e costruiamo ciò che siamo in, e con, ciò che ci circonda. E in, e con, chi ci circonda, ovviamente…
di Federico Picinali
Info: primoappiglio.wordpress.com
Vivo a Londra da ormai quasi quattro anni. Prima ho vissuto un anno e mezzo a Trento e due anni e mezzo negli Stati Uniti, spezzettati in vari periodi e passati in diverse città. Ma la gran parte della mia vita l'ho trascorsa a Milano, la mia città natale. Lì c’è ancora un pezzo della mia famiglia e ci sono ancora alcuni dei miei amici più cari. Ma questa non vuol essere una noiosa storia dei miei pellegrinaggi; solo un breve racconto su come sopravvive un appassionato di arrampicata a Londra.
Come noto, Milano è in un'ottima posizione per chi ama arrampicare. Non solo è più o meno centrale rispetto all'arco alpino, ma è molto vicina ad un gran numero di falesie e pareti. In 45 minuti di macchina si arriva a Lecco e lì si apre un mondo di roccia. E per chi ha meno tempo e non disdegna luoghi un pò lugubri, c'è anche qualcosa più vicino. Di Trento non c'è neanche bisogno di menzionare la praticità: in falesia o a far boulder ci si va in bicicletta. E Londra? Che cosa offrono i suoi dintorni?
In realtà ben poco. L'area d'arrampicata più vicina è a un'ora e mezza circa, nel Sussex. È la zona generalmente chiamata Southern Sandstone. Per carità, è una zona ricca di storia, dove si son misurati da Dawes a Moon, con tante vie dure e ipertecniche. Ma...è zona di toprope (i.e., si scala in moulinette). La roccia è troppo morbida per piantare spit o usare protezioni veloci. Quindi o sei un pazzo free soloer o ti devi accontentare ad avere la corda dall'alto. E quest’ultima opzione non è certo il massimo come avventura verticale. Si, c'è del boulder, peraltro in continua evoluzione – non tanto per via di nuove aperture ma perchè i morbidi appigli di arenaria cambiano forma col tempo! Ma....forse questo non è abbastanza per convincermi a viaggi frequenti. Tutto il resto (ad eccezione di falesie trad minori) è ad almeno due ore e mezza di macchina da casa mia: a sud-ovest ci sono le magnifiche scogliere di Swanage e Portland, a ovest c’è la Cheddar Gorge e a nord, ovviamente, il Peak District. Piu distanti sono le bellissime falesie del Devon, del Galles, del Lake District...
Nonostante le molte ore di viaggio, l'uscita in giornata è cosa piuttosto normale per l'arrampicatore londinese motivato. Certo, ci vuole una macchina, ci vuole una sveglia da ascensione scialpinistica e – l'ingrediente più importante – ci vogliono buoni compagni di viaggio. Arrivato a Londra quattro anni fa la macchina non l'avevo. La voglia della sveglia scialpinistica me la facevo venire. Fortunatamente i compagni di viaggio li ho trovati molto in fretta, nella palestra dove mi allenavo. Compagni di viaggio d'eccezione: Mike R., John e Mike P. Tutti più grandi di me e scalatori trad esperti con salite impegnative e piuttosto spaventose – almeno ai miei occhi di timido arrampicatore sportivo – alle spalle. E così abbiamo iniziato una routine abbastanza intensa di uscite nel finesettimana. Spesso si andava a Swanage e nel Peak District. Insomma, prevalentente trad…con qualche raro sprazzo di arrampicata sportiva.
Due avvenimenti hanno interrotto il ritmo. Il primo, l'incontro con Jules; il secondo la malattia di uno dei miei compagni. Jules vive e lavora a Nottingham – sì, la città dello sceriffo… o lo sceriffo della città…va beh – che si trova a due ore di treno a nord di Londra. La fortuna vuole – ma, in fondo, non è fortuna: è un ingrediente, seppur non fondamentale, della nostra relazione – che a Jules piaccia molto l’arrampicata. Scalava da poco prima che ci conoscessimo. È forte e tenace e continua a migliorare – a un passo molto più veloce del mio! Le relazioni a distanza presentano qualche pro e molti contro. Tra questi ultimi c’è la necessità di viaggiare per incontrarsi appena il lavoro lo permette. Siamo entrambi accademici e quindi godiamo di una certa flessibilità. Salvo le ore di insegnamento e i meeting con studenti e colleghi, possiamo lavorare più o meno dove vogliamo. Così, ogni weekend uno dei due si muove per incontrare l’altra/o. Ma se il weekend diventa l’occasione per me e Jules di incontrarci, vuol dire che non può più essere l’occasione per scalare con i miei compagni londinesi. Solo in rari casi siamo riusciti a scalare tutti insieme. E comunque, il tempo e le energie che il viaggio spesso toglie al lavoro, comportano qualche rinuncia sul fronte dell’arrampicata. La plastica è in fondo il modo migliore per arrampicare senza restare indietro con gli impegni lavorativi. Quindi, anche se il Peak District è poco più a nord di Nottingham, Jules e io siamo spesso costretti a rimandare uscite nel finesettimana per stare al passo col lavoro. Questo vale almeno nei mesi dei corsi (ovvero il term time), in cui le scadenze sono tante e i ritmi sono particolarmente elevati. In ogni caso, nonostante i miei viaggi a Nottingham e le visite di Jules a Londra, avrei sicuramente fatto più sforzi per scalare con Mike R., John e Mike P. se non fosse che anche loro hanno iniziato a scalare sempre meno insieme. Appunto, a causa di una malattia…
Ecco spiegato il perchè in questo periodo spendo molte più ore a tirare prese di plastica o legno che non prese di roccia…e, dato questo stato di cose, non posso non chiedermi come possa mantenersi ed essere alimentata la mia passione per l’avventura. È possibile conciliare questo disequilibrio tra ore indoor e ore outdoor con la mia passione, senza essere perennemente frustrato? Direi di sì. Senz’altro riesco a evitare la frustrazione. Resta però una continua tensione tra ciò che faccio (in soldoni, plastica) e ciò che vorrei fare (in soldoni, roccia). Ma questa tensione, in fondo, non è affatto negativa: è un positivo, se non vitale stimolo all’azione. Ciò che faccio lo faccio in vista di ciò che vorrei fare. E, perciò, ciò che faccio diventa esso stesso ciò che vorrei fare. È uno po’ uno scioglilingua, me ne rendo conto. In altre parole, credo di riuscire ad appagare almeno in parte il mio desiderio di avventura nell’allenamento. Ma perchè questo avvenga è necessario creare la prospettiva di mettere in pratica ciò che imparo. Ecco la tensione. Le due fondamentali dimensioni della mia avventura sono, dunque, l’allenamento e la prospettiva. La prospettiva consiste nel pianificare viaggi o uscite – con Jules, col mio caro amico Paolo, con i miei compagni londinesi… – che abbiano come tema centrale l’avventura sulla montagna ‘asciutta’. Ma come faccio ad appagare il desiderio di avventura nell’allenamento? In buona parte proprio attraverso la pura e semplice prospettiva a breve, medio o lungo termine. Ad esempio, pensando che una buona sessione di boulder mi permetterà di chiudere qualche boulder o tiro su roccia in un imminente viaggio. In aggiunta, ho trovato un modo tutto mio di vivere l’avventura nell’allenamento, un modo che non prescinde dalla prospettiva, ma in qualche modo la anticipa, la rende presente. Da qualche mese ho un piccolo muro di arrampicata a casa – uno stravizio, lo so! È in una stanza relativamente piccola, con una grande finestra che dà sul giardino. Ho messo in questa stanza una libreria che ho riempito con tutti i miei libri e riviste di montagna. Alle pareti ho appeso due piccoli poster del Film Festival di Trento, una gigantografia dell’Aig. Noire regalatami da Jules – montagna che ho salito con (anche se sarebbe più corretto scrivere ‘montagna su cui mi ha portato’) Paolo – e una vecchia copertina della Domenica del Corriere, con un disegno che raffigura Walter Bonatti mentre scala il Petit Dru – la chiamo il Bonatti shrine, ovvero l’ ‘altarino di Bonatti’, pur pensando che probabilmente Bonatti non avrebbe apprezzato un’idolatria della sua persona. C’è poi un tavolino con un leggio sul quale tengo aperto un grosso libro su Cassin oppure – se invece che avere nostalgia di casa mi sento a casa dove già sono – il libro Peak Rock, un entusiasmante volume sulla storia dell’arrampicata nel Peak District dall’Ottocento fino ai giorni nostri. E così, dopo essermi accanito su un boulder di mia invenzione al suono dei Rage against the machine o dei Foo fighters, riprendo fiato leggendo, ad esempio, della salita di Cassin al Badile, o di quella di Whillans sul Pilone Centrale, o di Boardman e Tasker sul Changabang, o guardando le foto di un nuovo sito di boulder in Turchia o qualche video di arrampicata (e.g., il video-musicale di Rustam Gelmanov, per me un capolavoro). Attraverso questi media l’immaginazione spazia…direi ‘ove per poco il cor non si spaura’. Non solo i libri, le riviste, i video sono un’ispirazione per viaggi (magari viaggi che mai realizzerò, ma basta che io creda nella loro possibilità) e dunque rafforzano la progettualità. Questi media – insieme all’ambiente ‘montano’ della mia stanzetta – producono anche l’impressione (davvero vivida talvolta) di essere tra le ‘mie montagne’. ‘Mie’ non significa certo che credo che alcuna montagna mi appartenga. Si tratta di un’ovvia citazione bonattiana e, per me, vuol dire proprio l’opposto. Sento che sono io ad appartenere alle montagne; forse non a tutte, ma ad alcune senz’altro. Quando sento di appartenere a loro – magari mentre spazzolo qualche presa o mollo un urlaccio nel tentativo di trattenerla dopo un bel lancio – sento di essere lì dove loro stanno, sento di poterle percorrere, di potermi avventurare sui loro versanti ‘asciutti’.
Dunque, in questo periodo della mia vita l’avventura – questo ‘casalingo’ senso di appartenenza alla montagna insieme all’esaltante attesa di, e preparazione per, un viaggio futuro – sembra essere più nella mia testa che non nella relazione fisica tra il mio corpo e questo mondo. Ma, in fondo, credo sia così anche quando mi grattugio le mani nel Peak District o mi lascio perdere su qualche sentiero in Apuane. Non sono certo il primo a credere che l’avventura sia prima di tutto in noi stessi, nel modo in cui percepiamo e costruiamo ciò che siamo in, e con, ciò che ci circonda. E in, e con, chi ci circonda, ovviamente…
di Federico Picinali
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