Pilone Centrale del Frêney One Push di Denis Trento e Filip Babicz
Il lockdown è stata l’occasione per leggere alcuni libri di alpinismo classico, epoca che tra l’altro non mi aveva mai appassionato più di tanto a livello narrativo per la troppa retorica di conquista e al quale ho sempre preferito i racconti di epoca moderna. Ma visto che in quello strano periodo ci si è dovuti arrangiare con quello che si aveva in casa, mi sono finalmente deciso a prendere in mano libri di Chabod, Bonatti, Maraini che, potendo scegliere, avevo lasciato a prendere polvere negli anni. Oltre ad essere stati, al pari di qualsiasi cosa, una valida alternativa alle letture catastrofistiche del momento più buio del ventunesimo secolo, i racconti in questione si sono dimostrati sorprendentemente appassionanti e quantomai moderni.
Partire e tornare nel fondovalle, portare con sé solo il minimo del minimo del materiale e del cibo indispensabile, o più spesso nemmeno quello, scalare in libera proteggendo solo dove strettamente indispensabile e/o possibile, nella prima metà del XX secolo non era una scelta dettata dall’etica, ma l’unica opzione possibile. Non stiamo parlando dell’unica opzione per ripetere comode vie attrezzate e relazionate, ma la sola modalità esistente per lanciarsi verso l’ignoto, aprendo vie che ancora oggi intimoriscono la gran parte degli alpinisti. E il tutto senza radio, telefoni, soccorsi e nemmeno bollettini meteo che fossero più affidabili di un oroscopo. Niente da dire, erano veramente dei bei mattacchioni…
Imporsi di ripetere una delle vie dell’epoca, dove oggi troviamo chiodi, soste e ogni tipo di informazione necessaria, partendo e tornando dal fondovalle è dunque ben lontano dallo scoprire qualcosa di nuovo. Portare con se il minimo del materiale nemmeno, sopratutto considerando la differenza di performance tra ciò che possiamo fare stare oggi in uno zainetto da 30 litri e il dover progredire con la corda legata in vita, assicurandosi a 4 chiodi in croce, piantati con parsimonia estrema e solo dove possibile.
Essere consapevoli di non fare nulla di particolarmente importante e voler comunque imporsi di salire il Pilone Centrale del Frêney, partendo e tornando dal fondovalle in una sola soluzione, infliggendosi uno sforzo che presto o tardi diventerà brutale, è dunque un atto gratuito di masochismo alpinistico al suo massimo. Ma ha comunque un fascino al quale io e Filip, forte collega della Sezione Militare di Alta Montagna, fresco di salita solitaria dell’integratissima di Peuterey non possiamo resistere.
Questo stile di salita perfetto, per modo di dire, per lo sci ripido e l’alpinismo su vie scorrevoli di media difficoltà, come speroni o creste, mal si adatta al terreno difficile, dove la ferramenta necessaria è ben lontana dalla normale dotazione alpinistica. La progressione è resa poco fluida dalla necessità di salire a tiri, con la conseguente dilatazione dei tempi, che una volta esaurite le poche scorte idriche e caloriche a disposizione, prende una piega tendente all’esponenziale.
La mia consapevolezza di tutto ciò era ben lontana dalla mera teoria, avendo già provato sulla mia pelle quanto sopra elencato salendo dal fondovalle la Bonatti al Pilastro Rosso, con relativa uscita in cima al Bianco via Brouillard e eterna discesa a valle dal versante del rifugio Gonella, inserendomi nella cordata Carrara-Farina che ne stava effettuando il concatenamento in due giorni con la sud della Noire. Ma nonostante ciò, condizioni e pressione atmosferica erano troppo buone per cincischiare oltre.
Per riassumere in poche righe 22 ore non-stop di fatiche, bisogna giocoforza limitarsi ai fatti salienti, privilegiando purtroppo gli orari alle sensazioni. Siamo partiti alle 11 circa dall’imbocco del sentiero per il rifugio Monzino, 11 meno 5 spaccate come sottolineerebbe il cronometro vivente Filip. A mezzanotte e un quarto eravamo seduti a tavola del primo rifugio gestito da mio suocero Armando, a consumare la colazione che il grande Mauro ci aveva preparato con la sua consueta cura.
Verso le 3 incrociavamo sulla nostra strada il primo dei bivacchi Eccles, luogo dal quale normalmente il secondo giorno si parte alla volta del Pilone. In poco più di un’ora, grazie alle ottime condizioni di questa stagione, eravamo già alla base del Pilone Centrale. O meglio, alla base di quello che ci sembrava la base del Pilone. Essendo infatti molto in anticipo rispetto all’arrivo preventivato verso le 5, abbiamo perso una buona mezz’ora, o forse più, girovagando sopra la terminale in cerca di qualche segno evidente sul dove attaccare. Travolti dai dubbi e in preda ad un po' di nervosismo, dovuto forse anche ad un primo accenno di stanchezza, attaccheremo un canale diedro verso sinistra, convinti di trovarci già sulla destra rispetto all’attacco della via.
Dopo essere saliti per un centinaio di metri, la primissima luce mi ha fatto percepire l’incombere della Chandelle completamente a destra rispetto alla nostra posizione. Immediatamente ho realizzato che avevamo attaccato nel canale che costeggia il Pilier Sud, cosa nemmeno troppo originale quest’anno... Fortunatamente, a differenza di alcuni amici che erano incappati nello stesso errore settimane prima, eravamo ancora in tempo per rimediare, attraversando per qualche tiro verso destra.
All’alba eravamo nuovamente in asse e la salita poteva fortunatamente continuare in modo spedito fino alla Chandelle. Nei due tiri di artificiale, tra uno sbuffo e un ringraziamento al signore, non potevamo non pensare a Leo Gheza, che ci aveva preceduto tutto soletto il giorno prima. Da scalatore solitario scarso che sono stato, non posso che fargli dei sinceri complimenti per essersi sobbarcato tutto quel lavoro.
Nonostante le preghiere, nemmeno la Chandelle ci ha trattenuto più di tanto, concedendoci la vista dell’apparentemente vicino Monte Bianco di Courmayeur già alle 13, cioè 14 ore circa dopo la nostra partenza notturna. In una salita normale, a quel punto il più è fatto e non resta che arrivare pian piano, con le dovute pause, al primo punto utile per riposare una notte, Vallot, Gouter o Cosmique che sia e chiudere in 3 giorni la pratica Pilone. Una lunga ultima parte di salita ed una lunghissima discesa era invece li ad attendere noi e dopo ore e ore di arrampicata non-stop, unita a disidratazione e calo di zuccheri, la crisi poteva iniziare ad ogni passo.
E infatti per me è cominciata pochi passi oltre la cresta del Brouillard. Da lì fino al Gonnella i ricordi sono pochi e un po' confusi, l’unica sensazione che ben ricordo è quella di avere un sonno allucinante e di avere grossi dubbi sul fatto di poter scendere fino a valle in quello stato pietoso. Ma il corpo è abituato ad assorbire molto bene le calorie quando sono ore che non vede né cibo né liquidi. E così sono bastati gli zuccheri di una coca al rifugio per proiettarci di nuovo verso il basso.
Una volta esaurito lo slancio dovuto alla forza di gravità, per lunghi momenti ho temuto di non uscire mai più dalla morena del Miage, ma dopo aver dato calci a un milione di sassi, il momento di saltare fuori è arrivato anche questa volta. La fine delle fatiche era comunque ancora distante diversi chilometri. Qualche minuto prima delle 21 transitavamo a distanza di quasi 22 ore sotto il Rifugio Monzino, questa volta in direzione del parcheggio poco distante, godendo della vista dell’ultima luce sul nostro Pilone.
I giorni seguenti alla salita mi sono trovato incredibilmente a posto fisicamente, ma stranamente svuotato psicologicamente. Sarà stata colpa del jet-lag accumulato oppure del brutto incidente accaduto ad una giovane promessa dell’alpinismo, ma ho iniziato a chiedermi con insistenza se una salita del genere poteva avere un qualche valore, oppure era semplicemente un aggiungere un po' di endurance gratuita in cambio di dare un po' di visibilità ad ascensioni che chiunque può fare nel 2020. Per Ueli Steck la velocità era innanzitutto il mezzo per fare il passo successivo sugli ottomila. Quel passo che ha poi fatto sull’Annapurna e che ha purtroppo tentato di allungare ancora sul Nuptse.
Per il sottoscritto la velocità non è parte di un progetto di ampio respiro, ma è piuttosto una personale evoluzione naturale nel muoversi in montagna, frutto di un percorso durato 18 anni, iniziato con lo sci alpinismo agonistico di alto livello e poi andato alla deriva molto lontano dai percorsi segnati con le bandierine verdi e rosse. E poi, per uno che è padre di tre figli, questa modalità rappresenta più che altro l’unico modo di conciliare l’alpinismo con la gestione famigliare. E questo è già un passo molto grande.
di Denis Trento
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