Monte Bianco senza cima. Di Mattia Salvi

Il racconto di Mattia Salvi del tentativo di salire in cima al Monte Bianco. Sempre una grande esperienza, al di là della vetta.
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La cima del Monte Bianco: dove non siamo arrivati
Alessandro Albicini
Zerozero, zerozero?
Si, zerozero, zerozero. Mezzanotte insomma.
Non ho mai messo una sveglia a mezzanotte
Non sei neppure mai stato sul Bianco.

Siamo arrivati al Grand Mulets presto stamattina, non erano neppure le undici, al rifugio c'eravamo solo noi e dal terrazzo a sbalzo sui seracchi abbiamo visto più di una cinquantina di sciatori scendere dalla vetta in una giornata di sole terso, senza vento. Una giornata che nessun sito meteo aveva preventivato nell'ultima settimana. Noi la salita la tentiamo domani, stanotte. Danno miglioramento dopo una lieve perturbazione nel tardo pomeriggio di oggi.

In nome dell'acclimatamento e della preparazione cambiamo i nostri piani appena giunti in terra francese. Guardando la cartina c'è un evidente tratto rosso che sfiora il traforo e con meno di 1000 metri di dislivello arriva a Plan de l'Aiguille, così decidiamo di farla senza funivia e di passare la prima notte ai duemiladuecento metri del Refuge du Plan anziché ai mille di Chamonix. Su degli zaini stracolmi di vestiario e materiale carichiamo anche sci e scarponi, poi, pantaloni e maniche lunghe, cominciamo a salire tra escursionisti dall'equipaggiamento molto più leggero.

La salita è molto bella: un sentiero ben segnato in un bosco pulito dall'estetica più dolomitica che valdostana. Incontriamo la prima neve negli ultimi cento metri di dislivello, la aggiriamo procedendo per roccette sotto gli ultimi piloni della funivia. Mentre le ultime cabine della sera ci passano sulla testa, guardiamo accendersi le luci di Chamonix a picco sotto di noi e, sopra di noi, l'Aiguille du Midi, il Dome du Gouter e La Vetta che ancora si godono l'ultimo sole. Le gambe e il fiato non sembrano volerci far pesare di aver evitato la funivia, dopodomani non dovrebbero vendicarsi.

Nonostante non ci fosse fretta, mettiamo la sveglia del secondo giorno alle cinque con l'intento di passare il maggior tempo possibile ai tremila metri del Grand Mulets e di cominciare ad abituarci alla levataccia imposta da quello che chiamiamo “il fuso orario del Bianco”.

La giornata è estremamente limpida, l'aria fredda, senza fretta e con gli sci ai piedi ci avviamo verso il Grand Mulets, il dislivello è poco, circa 700 metri, lo sviluppo considerevole. Il versante nord del Monte Bianco è diverso da quello a cui siamo abituati noi. Grandi seraccate, ghiacciai tormentati che arrivano molto in basso a mostrarsi in valle, la fila delle guglie, tutte ordinate e impettite a guardare Chamonix. Passiamo sotto l'Aiguille du Midi, passiamo sopra la stazione della vecchia funivia, osserviamo la disposizione delle residue lingue di neve sotto di noi cercando di capire quale, al ritorno, potrebbe portarci più vicino al traforo e quindi alla nostra macchina.

La jonction è uno spettacolo: l'incontro di due ghiacciai crea una disordinata e imponente assemblea di seracchi, crepacci ed enormi blocchi di ghiaccio, il blu e il bianco si alternano nel complesso compito di disegnare confini e contorni così frastagliati. Sembra impenetrabile. Solo avvicinandosi, metro dopo metro, ci mostra dove lei, la jonction, è disposta a lasciarci passare. Le dimensioni, la quantità, gli strati delle varie stagioni danno a questi blocchi un'aura di eterna immutabilità, ma le tracce dei giorni prima che si interrompono su ponti di neve crollati, sostituite da nuove tracce che le affiancano, spesso interrotte anch'esse, ci ricordano il continuo scorrimento verso valle dei ghiacciai, come fiumi lenti ma impetuosi. Rapide di svariate tonnellate per canoisti con pagaie affilate come piccozze.

Passata la jonction è un breve ed ampio pendio a separarci dalla rocca su cui già si intravede il rifugio. Il pendio è al sole già da qualche ora ma la neve non ha mollato dopo il rigelo notturno, ci sleghiamo e lo saliamo con calma: è molto presto e domani, stanotte, ci serviranno gambe e fiato freschi.

La giornata in rifugio trascorre lenta mentre si incrocia chi sale da Plan de l'Aiguille con chi scende dalla vetta, stanchezza e soddisfazione su ogni volto. Voi da dove salite? Che strada fate? In italiano, inglese o in uno stentato francese il discorso più comune in tutto il rifugio è questo, le opzioni sono due: la Voie Royale, più lunga di circa un'ora e più ripida, dopo un primo lungo zig zag con gli sci richiede di calzare i ramponi e passare sul ghiaccio della crestina che risale la spalla del Dome e piega poi in piano verso sinistra il Col du Dome. Oppure la via tradizionale che sale dolcemente sotto la nord senza deviazioni per poi piegare a destra e raggiungere, comunque, il Col du Dome. Quest'ultima, più corta e percorribile, è spesso trascurata perché passa per un lungo tratto sotto il tiro di un'ampia seraccata, viene invece normalmente percorsa in discesa con gli sci, diminuendo sensibilmente il tempo che si trascorre in quel tratto.

Nonostante la possibilità di percorrerla interamente con gli sci e la durata di un'ora inferiore, non cambiamo i nostri piani e restiamo dell'idea di salire la via più lunga. Dato che abbiamo fornelletto e colazione decidiamo di anticipare la partenza di un'ora rispetto agli altri, mettiamo la sveglia alle zerozero, zerozero. Mezzanotte, insomma.

Partiamo quindi presto, procediamo al buio, la neve ha rigelato nonostante la perturbazione prevista sia lì a velare il cielo, saliamo bene. Poco più di un'ora per i primi 400 metri, ed è proprio dopo un'ora che vediamo la processione di frontali uscire dal rifugio ed allungarsi sul ghiacciaio per poi dividersi: metà sulle nostre tracce, metà sulla via tradizionale. Ed è proprio dopo un'ora che il debole nevischio che ci ha accompagnato finora diventa una vera nevicata. Rapido consulto: tanto col buio non possiamo sciare, diamo fiducia alle previsioni, almeno fino alla luce, saliamo.

Ancora un'oretta di zig zag con le pelli sotto la neve, il fondo si fa sempre più duro, un po' di ghiaccio affiora a tratti, sci nello zaino e prendiamo piccozza e ramponi. Le peste dei giorni precedenti sono parzialmente coperte dalla nevicata, si intuisce la traccia ma la progressione si fa faticosa. Decidiamo di proteggere con qualche vite un tratto di ghiaccio affiorante, tiriamo fuori la corda e ci prepariamo a fare il tiro proprio mentre ci raggiunge e supera a doppia velocità una coppia di alpinisti che ha solo un attimo di tentennamento di fronte alle chiazze di ghiaccio nero.

Mentre migliora il meteo e l’est si fa rosa, calziamo si nuovo gli sci e continuiamo a salire la spalla del Dome. Dopo qualche togli e metti giungiamo al colle dove, con un socio, ci prendiamo una mezz'oretta di tempo per raggiungere la vetta del Dome (4300m) e diamo appuntamento al terzo compagno alla Capanna Vallot.

Mentre riscendiamo al colle iniziano i problemi: un vento fortissimo e costante da sud spazza il pianoro e l’Arête des Bosses rendendo il suolo duro e riottoso alla tenuta delle pelli, levo gli sci e coi soli scarponi cerco di coprire i 50 metri di dislivello che ci separano dalla Vallot. La progressione è difficoltosa anche a piedi, il vento non dà tregua e fa impazzire, nei traversi verso destra, a prenderlo in faccia, si rivela anche freddo e pungente. Nonostante i guanti le mani cominciano a perdere sensibilità, gli sci sullo zaino si comportano come una vela al vento di scirocco e minano l'equilibrio. A testa bassa raggiungiamo la capanna dove si stanno rifugiando svariate cordate. Ci ho messo mezz'ora a fare quei 50 metri, in queste condizioni, altri 500 non li salgo. Entriamo nella capanna in attesa di vedere come evolve la situazione e per recuperare un'adeguata circolazione agli arti.

La Vallot è un rifugio d'emergenza, pensato per chi scende dopo aver percorso le dure vie del versante italiano. Un punto d'appoggio durante la discesa, alpinisti esausti vi abbandonano comprensibilmente l'abbandonabile e la capanna è invasa di spazzatura e coperte termiche usate per una notte, sedotte e abbandonate. Sentendosi probabilmente autorizzati, vedo molti alpinisti fare lo stesso senza avere la stanchezza e la spossatezza di chi ha raggiunto al vetta, gli stessi che al Grand Mulets tenevano da conto i propri rifiuti per riportarli a valle. Cerchiamo di tenerceli ben puliti questi posti, sono lì per noi e il loro stato dipende in gran parte da noi. Non facciamo nostre né la maleducazione né le motivazioni di chi ci ha preceduto.

Mentre ragiono sulle quantità di plastica e divoro qualche barretta, Pietro continua a fare fuori e dentro per valutare la situazione. Il vento non accenna a placarsi, poche cordate, due o tre, hanno proseguito e punteggiano ora l’Arête des Bosses, hanno tutte lasciato gli sci alla capanna. Troppo faticoso continuare a tenerli sullo zaino. Il nostro intento era portarli in vetta e poi sciare giù lungo la nord per poi ricongiungerci con la tradizionale via di salita. La nord non è in condizioni sciabili, costantemente spazzata dal vento che crea accumuli, affioramenti di ghiaccio e croste. Aspettiamo ancora mezz'oretta mentre i nostri compagni di capanna già ripiegano verso il basso. Decidiamo di scendere anche noi. Le condizioni della salita, il paesaggio meraviglioso, i due giorni trascorsi in montagna, la vetta del Dome comunque raggiunta rendono la rinuncia affatto dolorosa.

Scendiamo rapidamente con gli sci e vediamo da sotto la nostra via di salita e l'imponente seraccata, un passo veloce al rifugio a recuperare quanto lasciato e poi ci accodiamo alla fila di rinunciatari. La jonction è già diversa da ieri, un paio di passaggi sono crollati e ne sono stati tracciati di nuovi, fa piacere esser legati.

Da lì in poi la colonna di alpinisti percorre un lungo traverso verso destra con svariati saliscendi, noi, per fortuna lo abbandoniamo a metà per seguire la lingua di neve battezzata il giorno prima. Stupenda neve primaverile che ci regala curve da classica gita scialpinistica e ci permette di scendere fino a 1800 metri, da lì un'oretta di sentiero ci ha riportati alla macchina.

di Mattia Salvi


DI MATTIA SALVI
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