La foto, i ricordi e la condivisione che dà senso all'alpinismo

Manuel Lugli, ripensando ad Hayden Kennedy e a quei compagni di avventura come Oskar Piazza, Mihai Cioroianu, Ugur Uluocak, Jay Sieger che non ci sono più, cerca il senso di un alpinismo che non si può comprendere se non condividendone i sogni, le fatiche, la passione.
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Da sinistra a destra: Angelo Giovanetti, Ugur Uluocak, Oskar Piazza, Jay Sieger, Manuel Lugli, Mihai Cioroianu
Manuel Lugli

Certe giornate invernali qua in pianura, possono essere davvero brutte: grigie, fredde e piovose, con la mattina che sembra subito scivolare verso il crepuscolo. Giornate che tolgono la voglia di fare anche la più semplice delle attività, anche la più breve sgambata. E’ in queste giornate, allora, che si mette mano alle cose in sospeso, ai lavori sempre rimandati per fare altro. Si prendono in mano cartoni pieni di vecchie riviste, documenti, depliant, oggetti, libri e foto, e si prova a buttare via qualcosa. Nel mio caso con scarsissimi risultati, avendo l’inestinguibile tendenza a conservare ogni cosa, soprattutto se si tratta dei ricordi di qualche viaggio.

E’ così che trovo quella foto, scattata nel lontano 1999 sulla soglia di un hotel di Islamabad. Siamo in sei, in una luce abbacinante, pronti a lasciare la capitale pakistana per dirigerci a nord, verso le montagne del Karakorum, verso il K2. Sei figure piene di aspettative, di sogni, di pensieri e “speranze di bere un vino buono per l’estate”, per dirla con Fossati.

Di quei sei, siamo rimasti in due. Solo in due. Gli altri andati avanti a scoprire cosa c’è o non c’è oltre il gran salto. Tutti volati via in montagna.

E mi viene in mente Hayden Kennedy e la sua storia, penso ai quattro volti mostrati sulla pagina di eveningsends.com, alle sue parole, scritte in quell’articolo per i suoi amici scomparsi. Penso che anche il suo volto si è aggiunto a quello dei compagni scomparsi in montagna, anche se la sua morte è resa, se possibile, ancora più tragica perchè scelta coscientemente per fermare un dolore intollerabile: la perdita della sua stessa compagna di vita e di avventure.

Le sue riflessioni in quell’articolo non forniscono risposte definitive, com’è naturale che sia per un tema così profondo che va ben oltre l’oggettività dei fatti e attinge sempre alle proprie personali esperienze e convinzioni, intellettuali, morali e spirituali. Le sue parole suggeriscono solamente una possibilità per leggere le esperienze in montagna - e raccontarle - oltre la superfice dell’ ”impresa”: un tentativo di renderle qualcosa di più profondo. Un modo per “riportare indietro ciò che è passato, perso o andato”. E, possibilmente, accettarlo.

Hayden era giovane, 27 anni, ed egli stesso nell’articolo, si diceva ancora in cerca di una via per gestire le luci e le ombre della sua vita di climber professionista. Una via che ha purtroppo perso definitivamente con la scomparsa della sua compagna.

Continuo a guardare la foto e ripenso a questi amici scomparsi. Anche le loro sono tutte storie di una passione inesauribile, troncate solo dalla fatalità. Mihai Cioroianu, rumeno, forte e appassionato, alla continua ricerca di fondi per le sue spedizioni, rimane sui pendii del K2 in quello stesso 1999. Ugur Uluocak, alpinista turco, colto e cocciuto, scompare sulle montagne degli Altai nel 2003. Jay Sieger, alaskano solitario, muore qualche anno dopo scendendo dal Makalu, suo primo ottomila. E infine Oskar Piazza, amico fraterno, se ne va sotto il terremoto nel suo amato Langtang.

Le amicizie che nascono in montagna, nelle condizioni difficili e rischiose di una salita, nel freddo di una tenda o nel calore secco di una pietraia d’alta quota, hanno una forza particolare, sono come incise dentro di noi a fuoco da quegli elementi così forti e restano intatte, a dispetto delle distanze e del tempo.

La foto. E’ stato difficile accettare la loro mancanza, non ricevere più le loro telefonate o i messaggi. Non cercarli per una nuova avventura. Per i tanti che non condividono la passione della montagna e dell’avventura nella natura più pura, può essere molto difficile capire: manca una spiegazione a questa ricerca spasmodica di vita – perchè di questo si tratta – così come manca un senso alla perdita di uomini e donne nel pieno della loro vita, compagni, fratelli, sorelle, padri. Per chi invece sa cosa significa vivere le emozioni di una salita in alta quota, della discesa ripida di un canale, di una traversata nel deserto o in una grande foresta, per tutti noi una chiave di lettura c’è.

Ma ecco, forse, pensandoci bene, si può trovare anche una chiave universale, un grimaldello che apra la mente: la condivisione ma forse anche solo la comprensione di una visione della vita, può aprire le porte non solo dell’accettazione, ma anche della compassione, intesa nel senso letterale latino di “soffrire insieme”- che è sentimento tipico anche della filosofia e della pratica buddhista. Non si tratta di pietà: è un sentimento orizzontale, una compassione nobile che partecipa del dolore altrui facendolo proprio e portando a un’unità profonda con l’altro. Un gesto che non chiede nulla in cambio. E attraverso questo canale, la comunione può diventare molto altro: può divenire condivisione non solo della sofferenza, ma anche dei momenti di felicità, degli attimi di pura vita. La compassione così intesa richiede sforzo e dedizione: abbandonarsi al dolore è paradossalmente più facile. Essa esige che si rimettano in gioco giudizi e pregiudizi, che ci si apra alla vita degli altri e ci si sforzi di comprenderla senza giudicarla. In ogni aspetto, anche in quelli più distanti dal proprio sentire.

I volti dei miei compagni assenti continuano a fissarmi sorridendo da quell’hotel lontano nel tempo e nello spazio. La nostalgia della loro presenza non è diminuita, nè lo farà mai. Ma nemmeno si perderà il calore e la bellezza di quei lunghi giorni condivisi in montagna a cercare e condividere un senso diverso dal semplice sopravvivere la propria quotidianità, a cercare, in fondo, di lasciare un piccolo segno del proprio passaggio.

Manuel Lugli


Mihai Cioroianu, Bucarest, Romania
Un alpinista forte, come tanti uomini dell’Est. Un uomo comunicativo e solare. Mihai lascia la sua vita dura di rumeno sui pendii nevosi tra il campo 1 ed il 2 dello Sperone Abruzzi. Vita scomoda quella di Mihai, elettricista tuttofare per tre anni in Germania prima, consulente part-time di un negozio di attrezzatura da montagna in quel di Bucarest poi. Tutto questo per scalare le montagne del mondo. Gioco con sua figlia Oana nella sua casa di Bucarest, ed Helena, sua moglie mi chiede di lui, delle sue ultime ore, mentre ceniamo in un piccolo ristorante della capitale. Ci facciamo pellegrini tra le sue montagne, i Carpazi, dove gli amici hanno posto una targa semplice, commovente: “Qui Galliani (suo misterioso soprannome) ha mosso i suoi primi passi di alpinista.” Montagne belle e selvagge i Carpazi. Per forza Mihai era forte. Era forte di salite dure e bellezza.

Oskar Piazza, Mori, Rovereto, Italia.
Considero Oskar un grande amico. Un amico in salita, di quelli faticosi da raggiungere, ma che sono poi quelli che ti danno più soddisfazione. Ha un carattere difficile, ombroso e spesso iracondo. La prima volta che lo incontri hai la netta sensazione che sia già incazzato con te per un qualche motivo ancestrale ed insondabile. Poi capisci che è tutta difesa: un imbrago piscologico per non volare giù. Ha silenzi e sofferenze solo sue, ma quando parla capisci la sensibilità e l’umana fragilità. Vive, ha vissuto ritmi pazzeschi, diviso tra il lavoro di dirigente tecnico del soccorso alpino e tester per aziende di attrezzature di montagna, ambienti in cui suddivide equamente le sue relazioni sociali tra chi lo odia cordialmente e chi lo stima totalmente. Quando ci sentiamo o vediamo, parliamo di tutto, molto di cinema, di cui Oskar è voracemente appassionato. Sto anche molti mesi senza sentirlo - risponde poco e malvolentieri al telefono – ma quando accade, ridiamo sempre parecchio, cosa che a Oskar non accade spesso. Credo sia stato per anni un uomo molto tormentato, in cerca di molte risposte, forse troppe per una vita sola. Recentemente abbiamo viaggiato insieme, col consueto piacere, anche se entrambi, per motivi diversi, cambiati. Più tranquilli e pacificati con la vita. Potenza della vita o dell’Himalaya?

Jay Sieger, Kenai, Alaska, USA.
E’ stato il più grande tentatore di ottomila che io abbia conosciuto. Li ha tentati praticamente tutti, da diversi versanti, alcuni più volte. Ha dell’incredibile la tenacia, la terribile cocciutaggine di Jay. Viveva nel lungo inverno alaskano e poi rincorreva l’estate dell’Asia lungo i suoi ghiacciai. Nella sua casa di Kenai, dove l’estate dura poche settimane, suonava la sua Fender Stratocaster a volume nove. Lavorava per mesi sulle piattafrome petrolifere al largo delle coste dell’Alaska, mettendo da parte i soldi che gli consentivano di restare in Himalaya o Karakorum per mesi. Poi si licenziava e partiva. Da anni. Era un uomo solo, Jay. Aveva rinunciato ad avere una famiglia per andare in montagna. Suo padre è morto mentre lui era sul K2. Era solo anche quando scalava, anche quando era con i team a cui si aggregava per salire. Era un lone wolf anche quando si aggirava per i campi base chiacchierando con alpinisti e portatori. Jay è stato uno degli uomini che meglio rappresentano la solitudine della frontiera americana che io abbia conosciuto. E’ volato via nel 2004 scendendo dal Makalu, dopo aver salito il primo ottomila della sua vita.

Ugur Uluocak, Istanbul, Turchia.
Parlare di Ugur al passato è un nonsense, così vivida ed intensa è la sua personalità. Dunque preferisco il presente. La prima volta che incontro Ugur Uluocak è al campo base del K2 nell’estate 1998, membro di una spedizione internazionale al K2. E’ un uomo entusiasta, con una passione terribilmente seria per la montagna e la natura. Giornalista, fotografo, docente universitario, Ugur ha quell’attitudine che ti aspetteresti di trovare in un viaggiatore inglese di inizio secolo: curioso, profondamente colto, con una mente eccezionalmente aperta e laica, capace di trovare motivi di interesse anche nelle cose più semplici e apparentemente piccole. In una parola, un signore. Anche per lui il K2 è “La” montagna. Che per due volte lo respinge. K2-Ugur 0, scrive come titolo di un suo reportage per la rivista turca Atlas. Abbiamo passato settimane assieme in Dolomiti, vagabondando tra pareti e bottiglie di Teroldego come dei Whymper moderni e senz’altro meno nobili. Ma non per questo meno appassionati. Per ore abbiamo parlato di montagna, politica, libri, musica, persone: il suo talento per le lingue lo rende un cittadino del mondo. Mi mancano da morire le sue telefonate, i suoi discorsi splendidi in un pittoresco grammeleau franco-italo-turco. Ha lasciato la Terra il 2 luglio 2003 in Kyrgyzstan. Mehraba, dostum.


ritratti da "Alpinisti Sottoaceto" di Manuel Lugli (Versante Sud / Montura Editing)




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