Kirghizistan 2016 - Mille papaveri rossi e l'alpinismo nel Pamir Alai

Il report di Gianni Ghiglione della spedizione alpinistica nella Valle di Kara Su in Kirghizistan dove, insieme a Marina Giordano, Roberto Romano e Gianfranco Patrucco è stata aperta 'Mille papaveri rossi'. La nuova via d'arrampicata sale la parete ovest della Small Asan e si collega dopo 380m alla via 'Italian corner', la via aperta nel 2015 da Giovanni Pagnoncelli, Pier Luigi Maschietto e Edoardo Polo.
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Small Asan Mille papaveri rossi: sul settimo tiro, 7b
archivio Gianni Ghiglione

Il Kirghizistan si chiama anche Kyrgyzstan. Come la maggior parte dei suoi vicini, questo paese dell'Asia centrale è un'antica repubblica sovietica. Ottenne l'indipendenza nel 1991. La popolazione khirghiza, tradizionalmente nomade, è costituita da molte minoranze: russi, uzbeki, ucraini. Tutto questo piccolo mondo si evolve in un clima variabile, dalle temperature capricciose. I tre quarti del territorio si trovano a 1.500 metri di altitudine, metri che diventano 7.439 sul Picco Pobieda.

I kirghizi sono sempre stati nomadi. Per tale motivo si costruiscono ancora le yurte, tende in feltro o in pelle. In materia di musica, sono soliti recitare il poema melodico improvvisato e l'epopea accompagnati da un komuz, strumento a tre corde. La bandiera del Kirghizistan simboleggia l’apertura posta sulla sommità delle yurte (tende a cupola), e raffigura un sole giallo con 40 raggi, che rappresentano le 40 tribù kirghise. L’Asia Centrale, luogo di passaggio dell’antica Via della Seta, conserva in certi suoi angoli i caratteri affascinanti e misteriosi del lontano Oriente.

Lasciamo Osh (circa 200 mila abitanti), situata nella parte a Sud del paese si scoprono paesaggi maestosi e con uno spostamento di circa 230 chilometri arriviamo a Batken, vicino ai confini con il Tagikistan. Qui dominano i grandi spazi selvaggi, un tempo invasi dalle orde dei guerrieri di Gengis Khan, vette che raggiungono, come già affermato, i settemila metri e valli incontaminate.
L’occhio occidentale scruta con interesse e curiosità le insolite immagini, osservando scene di vita ed i volti dei personaggi che si incontrano lungo l’itinerario: volti fieri, segnati dalla miseria di una terra abbandonata per troppo tempo a sé stessa.

Batken non aiuta a sognare, anche i pensieri sembrano venire catturati, ordinati e strutturati in modo freddo e impassibile. Il programma di spersonalizzazione progettato dal Capitalismo di Stato di Stalin qui è fin troppo palpabile. Ai bazar la gente mercanteggia con abilità antica i prodotti della terra: frutta e verdura colorano le bancarelle, rendendo l’ambiente variopinto e più vivo. La nostra presenza incuriosisce e la gente è ben disposta a vendere i loro prodotti che ci serviranno al Campo Base e a farsi fotografare.

Nel tardo pomeriggio ci spostiamo lungo un dissestato greto di un fiume senza acqua per circa 20 chilometri e raggiungiamo un alpeggio molto isolato, punto di partenza verso le Valli Ak Su e Kara Su. Il giorno successivo partiamo accompagnati da otto asini carichi del nostro complesso materiale. Il percorso è lo stesso che utilizzano i pastori Kirghizi per salire con i loro greggi, nel periodo estivo, agli alti pascoli della zona. Impieghiamo tre giorni per giungere sul luogo del Campo Base: un percorso complesso e rischioso, anche perché l’inclemenza di una primavera molto piovosa ha fatto franare alcune parti del sentiero, costringendoci a costruire due ponti con dei tronchi di fortuna per consentire il passaggio del materiale al di là dell’impetuoso fiume che discende dai sovrastanti ghiacciai. Nella parte alta delle Valli il verde rigoglioso dei pascoli ricorda le nostre Alpi; poi finalmente le nostre pareti si mostrano improvvisamente, quasi nascoste, non appena raggiungiamo la sommità della valle Kara Su.

Siamo subito sorpresi da questo paesaggio che ci appare molto diverso da come l'avevamo immaginato e stentiamo a credere che sia proprio composto da una così ampia moltitudine di immense pareti e che sarà poi una di queste che scaleremo. Tutte hanno sembianze austere, quasi inavvicinabili. Montiamo il Campo base e sistemiamo il numeroso materiale.

Un giorno è sufficiente per riposarci, ambientarci e organizzare tutto il necessario per la partenza verso la ricognizioni alle impressionanti pareti granitiche che scorgiamo sopra di noi. Al momento le condizioni meteorologiche sono ottime, siamo fiduciosi e fortemente concentrati sui nostri obiettivi. Come non immaginare un’altra vita attraversando questi maestosi spazi vuoti? Rinascere qui, uomo, cavallo, animale. Vivere la terra, seguire i ritmi della natura, riappropriarsi di sé stessi, non conoscere condizionamenti. Sperimentare da zero i propri sensi. Come sono oggi non saprei vivere questi luoghi, li osservo e li sogno.

L'avvicinamento
Con Marina e Roberto (Gianfranco è indisposto), dopo aver eseguito una tirolese per attraversare il fiume impetuoso, risaliamo la sinistra orografica della Valle; in questo ambiente così selvaggio e pieno di tranquillità, nel totale silenzio, siamo permeati da una grande motivazione interiore. Più avanti la vegetazione lascia il posto alla morena glaciale. Da questa visuale individuiamo sulla sinistra e al di là della vallata una splendida parete a forma piramidale, lo Small Asan, sulla cui parete ovest i nostri occhi e la nostra fantasia creativa individuano un enorme e perfetto diedro su cui, da subito, decidiamo di porre un nostro tentativo di apertura.

Stimolati ulteriormente dalla scoperta, percorriamo quasi tutta la valle su un terreno divenuto sconnesso da grossi massi erratici e lingue di ghiaccio, dove la progressione diviene più disagevole sino ad impattare contro la gigantesca mole del Piramidalny Peak (5500 metri). Si fa tardi e quindi decidiamo di rientrare al Campo base. La panoramica verso le pareti più imponenti della nostra è meravigliosa e ci soffermiamo ancora a lungo a scrutare la nostra montagna, individuando l’attacco della via lungo una serie di placche grigie lisce; il morale di tutti è alle stelle. Quando la ovest del Monte Asan comincia a tingersi di particolari colori con i raggi dorati del tramonto, completiamo il rientro intonando strimpellate canzoni.

L’apertura della via
L’indomani saliamo faticosamente verso l’attacco carichi come i nostri asini lungo il ripido pendio d’attacco e con alcuni delicati passaggi. Ancora il silenzio domina attorno a noi e ognuno, immerso in sé stesso, pensa alla salita, all’impegno; affiorano timori, in questi attimi si respirano maggiormente le preoccupazioni che separano l’attesa dall’azione. All’attacco però, quando l’attività arrampicatoria si impone, i pensieri si dissolvono lasciando posto al gesto della danza verticale. Le corde scorrono su liscio e difficile piano verticale idealizzato dal fondo della valle. Il nostro gruppo è molto affiatato e ben allenato e la prima parte della via viene velocemente aperta, anche sui tratti di impegno estremo; la qualità della roccia permette di superare il primo tratto di salita in arrampicata libera.

Dopo quattro giorni dal nostro arrivo però le condizioni del tempo mutano.. L’alta pressione manifesta un considerevole abbassamento e la nostra apertura rallenta.. Ogni giorno siamo costretti a ridiscendere nel primo pomeriggio, mentre le difficoltà aumentano e il procedere è sempre più stentato: al decimo giorno riusciamo ad arrivare al nono tiro su difficoltà intorno al 7b e forse oltre. Sopra le nostre teste una enorme barriera di strapiombi: decidiamo di strutturare la decima lunghezza piegando decisamente verso destra, sino a raggiungere lo spigolo di un profondo diedro: la nebbia è impenetrabile e si sta consolidando un deciso cambiamento: intuiamo che con una corda doppia di venti-trenta metri si ci può un collegare, sulla destra, alla via “Italian corner” aperta lo scorso anno dall’Accademico Giovanni Pagnoncelli e da Maschietto e Polo. Con tale collegamento la via risulta avere uno sviluppo di circa 530 metri. I futuri ripetitori potranno arrivare in vetta seguendo questa soluzione.

Dobbiamo scendere per evitare di essere colti da una vera e propria tempesta. Rapido abbassamento verso la base utilizzando le corde fisse da noi posizionate nei giorni precedenti. Ora inizia una violenta grandinata che ci accompagnerà fino al campo Base... L'indomani non possiamo fare altro che togliere il materiale dalla parete; la partenza verso Valle è fissata per il giorno dopo. La via da noi aperta l’abbiamo chiamata Mille papaveri rossi, dalla famosa canzone di Fabrizio De Andrè e che descrive l’orrore delle guerre. La via risulta chiodata a fix, ma occorre integrare con friend medi. Solo nell’ultimo tiro da noi effettuato, rimasto sguarnito da protezioni fisse, abbiamo utilizzato friend grandi n°4-5 B.D.).

Il ritorno
Per noi alpinisti la discesa è un distacco, un momento di tristezza per l’allontanamento dalla parete costata tanto impegno e sacrificio: ma siamo totalmente consapevoli che la vera vittoria coincide sempre col ritorno a valle. Smontiamo il Campo Base la mattina del 16 agosto, mentre sugli elevati bastioni del Piramidalny Peak, a 5550 metri, si vanno ora espandendo gli strati nuvolosi che in un primo tempo parevano innocui. Poi improvvisamente ricomincia a piovere e a nevicare. Per fortuna i pastori Kirghisi collaborano notevolmente allo smantellamento delle tende e del materiale.

A valle ora è scesa una luce scialba e un po’ sinistra, ma pur sempre affascinante per quel senso di mistero che porta con sé. E’ quasi un’ora che vaghiamo con gli occhi e con la mente, qui al CB, con tanto entusiasmo da pensare che non esista al mondo appagamento più grande né montagne più belle di queste. Ma è stato così altre volte. Ora dovremo scendere a valle, verso la cosiddetta normalità, vale a dire nella realtà della vita in cui ci si consuma a rincorrersi. Senza capirci niente. Le nebbie e la pioggia scrosciante indurrebbero ad affrettarsi, ma ancora non ci decidiamo a prendere la via del ritorno.

Siamo come soggiogati da questi luoghi possenti da cui emana il simbolo antico, la suggestione delle cose che vengono da lontano e che il tempo sfiora senza mai intaccare. Imponenti fiumi di acqua scendono lungo l’immensa parete di 1000 Years of Christianity. Dobbiamo proprio andarcene. Dal CB perdiamo quota rapidamente, ricalcando le vecchie orme che ora cedono sotto i nostri passi.
Squarci sempre più frequenti nel cielo turbolento finiscono per liberare il paesaggio e con due impegnativi giorni di trekking perveniamo all’alpeggio teatro della nostra partenza. Siamo ora curiosi di raccogliere testimonianze sulla vita locale. I Kirghizi, discendenti dei pastori di origine turco-mongola che viaggiarono con Gengis Khan, sono stati per secoli un popolo nomade, dedito all’allevamento, continuamente alla ricerca di pascoli e terre fertili. Oggi il nomadismo è praticamente scomparso e le famiglie salgono dai villaggi alla montagna solamente nel periodo estivo. Entrando gradualmente in rapporto con questi pastori si ha il piacere di scoprire la loro grande generosità.

Lasciamo il 18 agosto questo angolo di mondo, questi oramai nostri amici per far ritorno a casa. Qui abbandoniamo un pezzo del nostro cuore e della nostra vita, con la speranza di ritrovare ancora intatto questo ambiente meraviglioso e ancora incontaminato.

di Gianni Ghiglione

Componenti: Gianni Ghiglione (Sezione C.A.A.I.), Marina Giordano Sezione di Novi Ligure, Roberto Romano Sezione di Novi Ligure, Gianfranco Patrucco Sezione di Novi Ligure
Montagna: Small Asan (3900 m)
Parete: Ovest
Via aperta (dal basso): “Mille papaveri rossi”
Sviluppo: 380 m +150 m (eventuali)
Difficoltà: 7b
Chiodatura: fix + protezioni veloci
Periodo: 30 luglio – 20 agosto


Note: Le montagne del Pamir Kirghiso non rappresentano ancora una meta frequente di spedizioni alpinistiche, almeno europee. L’ambiente quindi si presenta ancora molto selvaggio ed impervio, caratterizzato da imponenti pareti.



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