Henry Worsley e il bisogno di esplorare
Ricordando la vicenda di Henry Worsley, l'esploratore britannico che ha perso la vita nel tentativo di attraversare il continente antartico da costa a costa senza alcun tipo di aiuto logistico e di assistenza esterna, Marcello Rossi propone una riflessione sulla valenza e l'importanza dell'esplorazione nell'attuale contesto storico e sociale.
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L'esploratore britannico Henry Worsley e il tentativo di attraversare il continente antartico
Henry Worsley / Shackleton Solo
Benché implicitamente, la notizia della morte di Henry Worsley, giunta all’incirca tre settimane fa tramite un breve e toccante comunicato rilasciato dalla moglie, presta il fianco all’approfondimento di un dibattito di per sé mai domo: quello sull’effettiva utilità dell’esplorazione – ma più in generale, di tutte le attività ad alto rischio e per le quali non c’è nessuna ricompensa apparente – oggi che dopo secoli di spedizioni, misurazioni e campionamenti siamo in grado di muoverci in un ambiente di cui sappiamo pressoché tutto.
Da poco ritiratosi dopo trentasei anni di brillante carriera nell’esercito britannico, Worsley mirava a coniugare le sue due più grandi passioni, alle quali aveva dedicato tutta la vita – l’Antartide e l’esercito - in un unico, grande sforzo: attraversare il continente antartico da costa a costa senza alcun tipo di aiuto logistico e privo di assistenza esterna, con l’obiettivo ultimo di raccogliere 100,000 sterline tramite l’Endeavour Fund – un fondo di beneficenza gestito dalla Fondazione Reale del Duca e della Duchessa di Cambridge e del Principe Harry – da destinare ai veterani di guerra rimasti gravemente feriti durante il loro servizio.
Prima di lui, solo due persone avevano percorso con successo il tratto che collega le due estremità del continente più a sud della terra: l’esploratore norvegese Borge Ousland, nel 1996-97, utilizzando un kite per trainare la propria slitta, e la meteorologa britannica Felicity Ashton, che nel 2012 ha completato il tracciato potendo contare su due rifornimenti cibo paracadutati lungo la via.
Al momento della partenza, l’ex ufficiale poteva contare su un bagaglio di esperienza che in pochi al mondo avevano. Grazie alle sue abilità di condottiero e alla sua passione per la leggendaria figura di Sir Ernest Shackleton, Worsley si era guadagnato il rispetto del mondo dell’esplorazione polare guidando con successo due spedizioni commemorative nel 2008-09 e nel 2011. Viaggi che gli avevano permesso di diventare l’unico uomo al mondo ad aver completato con successo le rotte percorse da Shackleton, Amundsen, e Robert Falcon Scott, i tre personaggi che più di ogni altro hanno legato il proprio nome alla storia dell’epoca eroica dell’esplorazione antartica.
Ma l’Antartide resta un luogo ostile anche a chi lo conosce bene. Completamente isolato su una distesa di ghiaccio che si estende a perdita d’occhio, con solo un telefono satellitare a disposizione tramite il quale comunicare giornalmente le proprie condizioni e la propria posizione, il britannico ha tenuto duro per 70 giorni, sopravvivendo a temperature costantemente tra i -25 e i -45 e percorrendo la stragrande maggioranza del tragitto prefissato. Ma al giorno 71, con sole 30 miglia rimaste da percorrere, il cinquantacinquenne londinese ha dovuto desistere. Tramite un toccante dispaccio audio, Worsley ha dichiarato la sua resa a causa “dell’assoluta impossibilità di andare avanti”. Dopo essere stato evacuato e trasportato a Punta Arenas, Worsley è morto il giorno successivo a causa di una peritonite batterica che aveva irrimediabilmente compromesso il suo sistema organico.
Per quanto l’obiettivo manifesto della spedizione fosse quello di raccogliere fondi da destinare in beneficenza (ad oggi, la cifra raggiunta è di oltre 317,000 sterline), la vicenda di Worsley è stata oggetto, oltre che di grande solidarietà, anche di forti critiche da chi ritiene che tentativi come i suoi non abbiano nulla a che vedere l’esplorazione, essendo piuttosto una delle tante possibilità offerte dal mondo contemporaneo di mettere in risalto le doti eccezionali di un singolo.
Una delle riflessioni più interessanti è apparsa pochi giorni dopo la scomparsa di Worsley sul New York Times, che ha pubblicato un editoriale firmato da David Roberts, personaggio particolarmente noto nell’ambiente e autore di ventisei libri riguardanti alpinismo, esplorazione, avventura, storia occidentale e antropologia, in cui si leggeva:
“Oggi che il continente è stato completamente mappato, gli avventurieri si adoperano esclusivamente per diventare i “primi” a fare qualcosa – il primo a percorrere da A a B in quel tempo, il primo a portare a termine quella tratta senza aiuti esterni e così via. L’obiettivo non è quello della scoperta, ma bensì di far registrare un nuovo record […] La solitaria di Henry Worsley era senza dubbio ardua e rischiosa […] ma egli ha pur sempre seguito un percorso prestabilito in un territorio conosciuto. Niente di quello che ha trovato si è rivelato essere una novità. Questa corsa al record ha definitivamente preso il posto di quello che eravamo abituati a chiamare esplorazione.”
“Questi epici sforzi diretti verso la conquista di un qualsivoglia primato sembrano aver oscurato la vera esplorazione che sta avendo luogo nel mondo. Gli esploratori di caverne sono nel pieno della loro età dell’oro, mentre le più larghe e profonde grotte sotterranee sono ancora tutte da scoprire. Nel campo della speleologia, quella seria, non ci sono comunicazioni costanti tramite telefono satellitare, né la possibilità di salvataggi di emergenza. Non sorprende, pertanto, se i migliori esploratori di grotte e caverne non hanno alcun interesse nel far registrare record di velocità o dimostrare la loro resistenza. Sono troppo occupati a cercare di scoprire cosa c’è la sotto.”
Senza alcun dubbio, Roberts sa di cosa sta parlando e le sue ficcanti affermazioni sono in gran parte condivisibili. L’eccessiva importanza accordata al raggiungimento di nuovi e sempre più bizzarri primati, unitamente alla presenza ormai non più arginabile della tecnologia, ha permesso a molti di quelli che oggi si professano esploratori di utilizzare l’esplorazione come mezzo per mettere in risalto le loro maggiori doti atletiche, la loro sconfinata resistenza e la loro superiore capacità di sopportazione. Seguendo la falsariga del ragionamento di Roberts si finisce però per fare di tutta l’erba un fascio, e distinguere esclusivamente tra bianco e nero ha sempre portato a difese apologetiche ma raramente ad analisi approfondite e costruttive.
La visione di Roberts, secondo cui c’è solo un tipo di esplorazione genuina possibile al giorno d’oggi (quella degli angoli remoti dove nessuno ha mai messo piede), è viziata da una lettura sotto sotto romantica dell’esplorazione in quanto tale. Il concetto-architrave su cui poggia il pensiero di Roberts è quello secondo cui, non essendoci più la possibilità della scoperta in Antartide così come in tanti altri posti, l’unica esplorazione sensata e giustificabile è quella mossa da fini scientifici, e possibilmente dove non ci sia la possibilità di comunicare, nessuna possibilità di essere salvati in caso di emergenza e nessun interesse nello stabilire record. Effettivamente, per decadi l’esplorazione è stata anche questo, e la cifra di incognito che hanno dovuto accettare i primi esploratori era di certo maggiore se non nemmeno comparabile.
Tuttavia, Roberts sembra non considerare un aspetto fondamentale dell’esplorazione (e tutte le sue ramificazioni), immutato da secoli, ovvero che non si è mai trattato solo di una questione di scienza e scoperta. Credere che a muovere migliaia di persone sia stato solo un incontenibile desiderio di scoprire cosa c’era là fuori è semplicemente fuorviante. Come tutto del resto, anche l’esplorazione è sempre stata una delle tante facce della società che l’ha prodotta. Ecco perché se fino ai tempi delle grandi cime himalayane essa rispecchiava in pieno gli ultimi strascichi dell’epoca coloniale; oggi, considerato l’aumento delle possibilità, non può fare altro che riflettere i tratti di una società nichilistica e autoreferenziale che ha scelto arbitrariamente di essere totalmente limitless.
Le motivazioni personali non erano di certo più nobili un tempo. Nella prefazione di South!, il racconto ufficiale della spedizione Endurance, Shackleton scrisse: “Dopo la conquista del Polo Sud da parte di Amundsen che, per pochi giorni, aveva preceduto la spedizione britannica di Scott, restava una sola grande impresa dell'esplorazione antartica - l'attraversamento del continente bianco da mare a mare.” Dalle parole di Shackleton trapela la stessa spasmodica ricerca del primato di cui Roberts parla nel suo editoriale. Un primato, volendo, fine a sé stesso. Il polo sud era già stato conquistato e ciò che rimaneva da fare era esplorare quella che al tempo era nota come Terra Australis. Non c’era alcuna fretta, eppure chi conosce un minimo la storia di quell’epoca sa che la fretta – ovvero la volontà di arrivare prima di chiunque altro – è stata una componente fondamentale che ha richiesto anche il sacrificio di parecchi uomini.
Nel suo libro del 2007 Antarctic Destinies: Scott, Shackleton and the changing face of heroism, la storica britannica Stephanie Barczewski descriva Sir Shackleton come una persona ossessionatamente alla ricerca di vie rapide per raggiungere ricchezza e stabilità. Si potrebbe continuare all’infinito, ma sarebbe un puro esercizio di stile: cercare di paragonare l’esplorazione anche solo del dopoguerra a quella di oggi ha poco senso, in quanto non esiste nessun denominatore comune dal quale partire.
Il cambiamento radicale a cui il mondo è andato incontro negli ultimi vent’anni ha fatto sì che oggi alcune cose appaiano semplicemente insensate, e che vengano recepite come la mera volontà di mettere il proprio nome in cima ad una lista. Il che, sfortunatamente, è vero nella maggior parte dei casi.
* * *
A ben vedere, il perché è sempre stata una questione spinosa per tutti quelli che nel corso degli anni hanno deciso di imbarcarsi in imprese dove la possibilità di non tornare era almeno uguale a quella di farcela. Fino a qualche decade fa, ce la si poteva cavare con il fatto che era necessario andare dove nessuno era mai stato per scoprire cosa c’era. Una volta venuta meno questa possibilità, il perché è divenuto una sorta di enigma al quale sembra impossibile rispondere con efficacia.
Nel suo bellissimo Come le montagne conquistarono gli uomini, lo scrittore inglese Robert Macfarlane racconta di un incontro con una donna il cui cugino era rimasto ucciso l’anno prima mentre cercava di salire una parte rocciosa. La donna, ancora frastornata per l’accaduto, si rivolge a lui domandandogli: “Perché mai ha sentito il bisogno di andare in montagna […] Non avrebbe potuto andare a giocare a tennis, o a pescare?”
Allo stesso modo, anche Worsley, dopo aver lavorato una vita e godendo ancora di ottima salute avrebbe potuto spendere diversamente il suo tempo. Ma non l’ha fatto.
Quando gli fu chiesto perché stava per fare ciò, Worsley dichiarò fermamente: “Ciò che mi spinge e la volontà di raccogliere fondi per aiutare i miei colleghi che sono stati meno fortunati di me, persone che sono costrette ad affrontare una vita piena di avversità. Perciò, se questo è quello che posso fare, lo farò.”
La dedizione di Worsley è di certo ammirevole, e non è la prima volta che accade qualcosa del genere. Alan Arnette, l’alpinista nativo del Colorado salito agli onori della cronaca per essere divenuto nel 2014 l’americano più anziano ad essere arrivato in cima al K2 a 58 anni, da alcuni anni porta avanti un progetto che lo vede scalare le più alte vette del mondo nel tentativo di raccogliere fondi e aumentare la consapevolezza circa il morbo d’Alzheimer, malattia che gli ha strappato la madre nel 2009.
Pensandoci bene però, oggi che l’esplorazione si è liberata dei suoi fantasmi mitologici, fardelli inutili e poco autentici che non hanno più senso di esistere, e che sempre più spesso faccia leva sul crowfunding o sulla beneficienza per poterla mettere in atto, viene a galla un aspetto a lungo ignorato: l’esplorazione come necessità dell’uomo moderno. Un’attività che non dipende né dal fatto che di un luogo si sappia già tutto né dal fatto che qualcuno ci abbia già messo piede. D’altra parte, come un qualunque dizionario conferma, esplorazione identifica tanto l’investigazione di regioni sconosciute quanto l’atto o l’istanza di esplorare in sé e per sé.
Questo volto dell’esplorazione viene regolarmente occultato a causa dell’errore che commettiamo continuamente di catapultare tutto sulla sponda dell’ovvio, del controllato e controllabile, della scelta solo razionale e strategica. Vengono in mente le parole di Jon Krakauer, che nel suo arcinoto Nelle terre estreme scriveva: “Non c’è più alcuno spazio vuoto sulla mappa, da nessuna parte. Se è uno spazio vuoto ciò che si sta cercando, è la mappa stessa che occorre abbandonare.”
Vista da questa angolatura, l’esplorazione assume significati del tutto nuovi e contemporanei. Come noto, infatti, la schiacciante maggioranza delle persone trascorre il proprio tempo in ambienti a misura d’uomo gestiti da altri uomini. Osservando ossequiosamente modi, tempi e schemi ripetitivi prestabiliti, troppo spesso ci si dimentica che esistono territori che è impossibile subordinare alla volontà umana e che non rispondono alla pressione di un tasto o ad un ordine dall’altro.
Andare laddove ci sono forze che non possiamo né invocare né prevedere, e laddove i nostri confortevoli schemi non trovano riscontro alcuno, può aiutare a correggere la nostra eccessiva fiducia in ciò che umanamente è causato e controllato. Anche se qualcuno potrebbe obiettare che in questo modo un atto esplorativo può avere luogo persino all’interno di una metropoli da dieci milioni di abitanti, è altrettanto vero che sono le cosiddette wildernesses a mettere in crisi più di ogni altra cosa la nostra compiacente autoconvinzione che il mondo sia stato fatto dagli esseri umani per gli altri esseri umani.
L’esplorazione di questi luoghi inoltre può aiutare a ridisegnare la considerazione che abbiamo di noi stessi e i nostri scenari interni. Può essere un campo naturale di attività che ci permette, tramite l’abbandono volontario di tutto, anche delle sicurezze primarie e del tempo, di trovare un po’ di quella libertà della quale siamo febbrilmente alla ricerca e che ci è necessaria quanto il pane.
In definitiva, l’essere umano ha sempre voluto andare laddove il pensiero lo ha guidato. A sud, a oriente, sulla luna, nelle grotte, negli oceani, nei deserti, negli abissi e sulle cime. Ed è per questo che l’esplorazione non finisce con il mondo conosciuto, semplicemente perché oggi come duecento anni fa essa può ancora essere una libera scelta, dove ci si può sentire tremendamente soli anche se si è in gruppo, dove si è lontani da tutti anche se si ha la possibilità di chiamare a casa, dove si è sempre alla mercé di qualcos’altro. E soprattutto, dove solo tu, per una volta, puoi fare i conti con il peso della tua scelta, quella che in quel posto ti ha portato.
Questa pulsione non si muove in base a dinamiche di convenienza, utilità o calcolo del rischio. Anzi, è qualcosa che le trascende, ed è il motivo per cui nonostante tutto un giorno l’Antartide verrà attraversato in solitaria senza assistenza, il K2 e il Nanga Parbat verranno scalati d’inverno e i fiumi più innavigabili del mondo verranno discesi. Nessuno pensa o spera di cambiare il mondo in questo modo, ma cosa succederebbe se smettessimo di guardarci attorno nella convinzione di sapere già tutto di quello che circonda?
di Marcello Rossi
Marcello Rossi è un giornalista freelance appassionato di avventura e montagna che si occupa di politica, cultura e società. E’ stato reporter della sezione Mondo per il quotidiano online di base a New York International Business Times attualmente è contributing writer per Wired Italia. Il suo blog personale è www.marcellorossi.net
Da poco ritiratosi dopo trentasei anni di brillante carriera nell’esercito britannico, Worsley mirava a coniugare le sue due più grandi passioni, alle quali aveva dedicato tutta la vita – l’Antartide e l’esercito - in un unico, grande sforzo: attraversare il continente antartico da costa a costa senza alcun tipo di aiuto logistico e privo di assistenza esterna, con l’obiettivo ultimo di raccogliere 100,000 sterline tramite l’Endeavour Fund – un fondo di beneficenza gestito dalla Fondazione Reale del Duca e della Duchessa di Cambridge e del Principe Harry – da destinare ai veterani di guerra rimasti gravemente feriti durante il loro servizio.
Prima di lui, solo due persone avevano percorso con successo il tratto che collega le due estremità del continente più a sud della terra: l’esploratore norvegese Borge Ousland, nel 1996-97, utilizzando un kite per trainare la propria slitta, e la meteorologa britannica Felicity Ashton, che nel 2012 ha completato il tracciato potendo contare su due rifornimenti cibo paracadutati lungo la via.
Al momento della partenza, l’ex ufficiale poteva contare su un bagaglio di esperienza che in pochi al mondo avevano. Grazie alle sue abilità di condottiero e alla sua passione per la leggendaria figura di Sir Ernest Shackleton, Worsley si era guadagnato il rispetto del mondo dell’esplorazione polare guidando con successo due spedizioni commemorative nel 2008-09 e nel 2011. Viaggi che gli avevano permesso di diventare l’unico uomo al mondo ad aver completato con successo le rotte percorse da Shackleton, Amundsen, e Robert Falcon Scott, i tre personaggi che più di ogni altro hanno legato il proprio nome alla storia dell’epoca eroica dell’esplorazione antartica.
Ma l’Antartide resta un luogo ostile anche a chi lo conosce bene. Completamente isolato su una distesa di ghiaccio che si estende a perdita d’occhio, con solo un telefono satellitare a disposizione tramite il quale comunicare giornalmente le proprie condizioni e la propria posizione, il britannico ha tenuto duro per 70 giorni, sopravvivendo a temperature costantemente tra i -25 e i -45 e percorrendo la stragrande maggioranza del tragitto prefissato. Ma al giorno 71, con sole 30 miglia rimaste da percorrere, il cinquantacinquenne londinese ha dovuto desistere. Tramite un toccante dispaccio audio, Worsley ha dichiarato la sua resa a causa “dell’assoluta impossibilità di andare avanti”. Dopo essere stato evacuato e trasportato a Punta Arenas, Worsley è morto il giorno successivo a causa di una peritonite batterica che aveva irrimediabilmente compromesso il suo sistema organico.
Per quanto l’obiettivo manifesto della spedizione fosse quello di raccogliere fondi da destinare in beneficenza (ad oggi, la cifra raggiunta è di oltre 317,000 sterline), la vicenda di Worsley è stata oggetto, oltre che di grande solidarietà, anche di forti critiche da chi ritiene che tentativi come i suoi non abbiano nulla a che vedere l’esplorazione, essendo piuttosto una delle tante possibilità offerte dal mondo contemporaneo di mettere in risalto le doti eccezionali di un singolo.
Una delle riflessioni più interessanti è apparsa pochi giorni dopo la scomparsa di Worsley sul New York Times, che ha pubblicato un editoriale firmato da David Roberts, personaggio particolarmente noto nell’ambiente e autore di ventisei libri riguardanti alpinismo, esplorazione, avventura, storia occidentale e antropologia, in cui si leggeva:
“Oggi che il continente è stato completamente mappato, gli avventurieri si adoperano esclusivamente per diventare i “primi” a fare qualcosa – il primo a percorrere da A a B in quel tempo, il primo a portare a termine quella tratta senza aiuti esterni e così via. L’obiettivo non è quello della scoperta, ma bensì di far registrare un nuovo record […] La solitaria di Henry Worsley era senza dubbio ardua e rischiosa […] ma egli ha pur sempre seguito un percorso prestabilito in un territorio conosciuto. Niente di quello che ha trovato si è rivelato essere una novità. Questa corsa al record ha definitivamente preso il posto di quello che eravamo abituati a chiamare esplorazione.”
“Questi epici sforzi diretti verso la conquista di un qualsivoglia primato sembrano aver oscurato la vera esplorazione che sta avendo luogo nel mondo. Gli esploratori di caverne sono nel pieno della loro età dell’oro, mentre le più larghe e profonde grotte sotterranee sono ancora tutte da scoprire. Nel campo della speleologia, quella seria, non ci sono comunicazioni costanti tramite telefono satellitare, né la possibilità di salvataggi di emergenza. Non sorprende, pertanto, se i migliori esploratori di grotte e caverne non hanno alcun interesse nel far registrare record di velocità o dimostrare la loro resistenza. Sono troppo occupati a cercare di scoprire cosa c’è la sotto.”
Senza alcun dubbio, Roberts sa di cosa sta parlando e le sue ficcanti affermazioni sono in gran parte condivisibili. L’eccessiva importanza accordata al raggiungimento di nuovi e sempre più bizzarri primati, unitamente alla presenza ormai non più arginabile della tecnologia, ha permesso a molti di quelli che oggi si professano esploratori di utilizzare l’esplorazione come mezzo per mettere in risalto le loro maggiori doti atletiche, la loro sconfinata resistenza e la loro superiore capacità di sopportazione. Seguendo la falsariga del ragionamento di Roberts si finisce però per fare di tutta l’erba un fascio, e distinguere esclusivamente tra bianco e nero ha sempre portato a difese apologetiche ma raramente ad analisi approfondite e costruttive.
La visione di Roberts, secondo cui c’è solo un tipo di esplorazione genuina possibile al giorno d’oggi (quella degli angoli remoti dove nessuno ha mai messo piede), è viziata da una lettura sotto sotto romantica dell’esplorazione in quanto tale. Il concetto-architrave su cui poggia il pensiero di Roberts è quello secondo cui, non essendoci più la possibilità della scoperta in Antartide così come in tanti altri posti, l’unica esplorazione sensata e giustificabile è quella mossa da fini scientifici, e possibilmente dove non ci sia la possibilità di comunicare, nessuna possibilità di essere salvati in caso di emergenza e nessun interesse nello stabilire record. Effettivamente, per decadi l’esplorazione è stata anche questo, e la cifra di incognito che hanno dovuto accettare i primi esploratori era di certo maggiore se non nemmeno comparabile.
Tuttavia, Roberts sembra non considerare un aspetto fondamentale dell’esplorazione (e tutte le sue ramificazioni), immutato da secoli, ovvero che non si è mai trattato solo di una questione di scienza e scoperta. Credere che a muovere migliaia di persone sia stato solo un incontenibile desiderio di scoprire cosa c’era là fuori è semplicemente fuorviante. Come tutto del resto, anche l’esplorazione è sempre stata una delle tante facce della società che l’ha prodotta. Ecco perché se fino ai tempi delle grandi cime himalayane essa rispecchiava in pieno gli ultimi strascichi dell’epoca coloniale; oggi, considerato l’aumento delle possibilità, non può fare altro che riflettere i tratti di una società nichilistica e autoreferenziale che ha scelto arbitrariamente di essere totalmente limitless.
Le motivazioni personali non erano di certo più nobili un tempo. Nella prefazione di South!, il racconto ufficiale della spedizione Endurance, Shackleton scrisse: “Dopo la conquista del Polo Sud da parte di Amundsen che, per pochi giorni, aveva preceduto la spedizione britannica di Scott, restava una sola grande impresa dell'esplorazione antartica - l'attraversamento del continente bianco da mare a mare.” Dalle parole di Shackleton trapela la stessa spasmodica ricerca del primato di cui Roberts parla nel suo editoriale. Un primato, volendo, fine a sé stesso. Il polo sud era già stato conquistato e ciò che rimaneva da fare era esplorare quella che al tempo era nota come Terra Australis. Non c’era alcuna fretta, eppure chi conosce un minimo la storia di quell’epoca sa che la fretta – ovvero la volontà di arrivare prima di chiunque altro – è stata una componente fondamentale che ha richiesto anche il sacrificio di parecchi uomini.
Nel suo libro del 2007 Antarctic Destinies: Scott, Shackleton and the changing face of heroism, la storica britannica Stephanie Barczewski descriva Sir Shackleton come una persona ossessionatamente alla ricerca di vie rapide per raggiungere ricchezza e stabilità. Si potrebbe continuare all’infinito, ma sarebbe un puro esercizio di stile: cercare di paragonare l’esplorazione anche solo del dopoguerra a quella di oggi ha poco senso, in quanto non esiste nessun denominatore comune dal quale partire.
Il cambiamento radicale a cui il mondo è andato incontro negli ultimi vent’anni ha fatto sì che oggi alcune cose appaiano semplicemente insensate, e che vengano recepite come la mera volontà di mettere il proprio nome in cima ad una lista. Il che, sfortunatamente, è vero nella maggior parte dei casi.
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A ben vedere, il perché è sempre stata una questione spinosa per tutti quelli che nel corso degli anni hanno deciso di imbarcarsi in imprese dove la possibilità di non tornare era almeno uguale a quella di farcela. Fino a qualche decade fa, ce la si poteva cavare con il fatto che era necessario andare dove nessuno era mai stato per scoprire cosa c’era. Una volta venuta meno questa possibilità, il perché è divenuto una sorta di enigma al quale sembra impossibile rispondere con efficacia.
Nel suo bellissimo Come le montagne conquistarono gli uomini, lo scrittore inglese Robert Macfarlane racconta di un incontro con una donna il cui cugino era rimasto ucciso l’anno prima mentre cercava di salire una parte rocciosa. La donna, ancora frastornata per l’accaduto, si rivolge a lui domandandogli: “Perché mai ha sentito il bisogno di andare in montagna […] Non avrebbe potuto andare a giocare a tennis, o a pescare?”
Allo stesso modo, anche Worsley, dopo aver lavorato una vita e godendo ancora di ottima salute avrebbe potuto spendere diversamente il suo tempo. Ma non l’ha fatto.
Quando gli fu chiesto perché stava per fare ciò, Worsley dichiarò fermamente: “Ciò che mi spinge e la volontà di raccogliere fondi per aiutare i miei colleghi che sono stati meno fortunati di me, persone che sono costrette ad affrontare una vita piena di avversità. Perciò, se questo è quello che posso fare, lo farò.”
La dedizione di Worsley è di certo ammirevole, e non è la prima volta che accade qualcosa del genere. Alan Arnette, l’alpinista nativo del Colorado salito agli onori della cronaca per essere divenuto nel 2014 l’americano più anziano ad essere arrivato in cima al K2 a 58 anni, da alcuni anni porta avanti un progetto che lo vede scalare le più alte vette del mondo nel tentativo di raccogliere fondi e aumentare la consapevolezza circa il morbo d’Alzheimer, malattia che gli ha strappato la madre nel 2009.
Pensandoci bene però, oggi che l’esplorazione si è liberata dei suoi fantasmi mitologici, fardelli inutili e poco autentici che non hanno più senso di esistere, e che sempre più spesso faccia leva sul crowfunding o sulla beneficienza per poterla mettere in atto, viene a galla un aspetto a lungo ignorato: l’esplorazione come necessità dell’uomo moderno. Un’attività che non dipende né dal fatto che di un luogo si sappia già tutto né dal fatto che qualcuno ci abbia già messo piede. D’altra parte, come un qualunque dizionario conferma, esplorazione identifica tanto l’investigazione di regioni sconosciute quanto l’atto o l’istanza di esplorare in sé e per sé.
Questo volto dell’esplorazione viene regolarmente occultato a causa dell’errore che commettiamo continuamente di catapultare tutto sulla sponda dell’ovvio, del controllato e controllabile, della scelta solo razionale e strategica. Vengono in mente le parole di Jon Krakauer, che nel suo arcinoto Nelle terre estreme scriveva: “Non c’è più alcuno spazio vuoto sulla mappa, da nessuna parte. Se è uno spazio vuoto ciò che si sta cercando, è la mappa stessa che occorre abbandonare.”
Vista da questa angolatura, l’esplorazione assume significati del tutto nuovi e contemporanei. Come noto, infatti, la schiacciante maggioranza delle persone trascorre il proprio tempo in ambienti a misura d’uomo gestiti da altri uomini. Osservando ossequiosamente modi, tempi e schemi ripetitivi prestabiliti, troppo spesso ci si dimentica che esistono territori che è impossibile subordinare alla volontà umana e che non rispondono alla pressione di un tasto o ad un ordine dall’altro.
Andare laddove ci sono forze che non possiamo né invocare né prevedere, e laddove i nostri confortevoli schemi non trovano riscontro alcuno, può aiutare a correggere la nostra eccessiva fiducia in ciò che umanamente è causato e controllato. Anche se qualcuno potrebbe obiettare che in questo modo un atto esplorativo può avere luogo persino all’interno di una metropoli da dieci milioni di abitanti, è altrettanto vero che sono le cosiddette wildernesses a mettere in crisi più di ogni altra cosa la nostra compiacente autoconvinzione che il mondo sia stato fatto dagli esseri umani per gli altri esseri umani.
L’esplorazione di questi luoghi inoltre può aiutare a ridisegnare la considerazione che abbiamo di noi stessi e i nostri scenari interni. Può essere un campo naturale di attività che ci permette, tramite l’abbandono volontario di tutto, anche delle sicurezze primarie e del tempo, di trovare un po’ di quella libertà della quale siamo febbrilmente alla ricerca e che ci è necessaria quanto il pane.
In definitiva, l’essere umano ha sempre voluto andare laddove il pensiero lo ha guidato. A sud, a oriente, sulla luna, nelle grotte, negli oceani, nei deserti, negli abissi e sulle cime. Ed è per questo che l’esplorazione non finisce con il mondo conosciuto, semplicemente perché oggi come duecento anni fa essa può ancora essere una libera scelta, dove ci si può sentire tremendamente soli anche se si è in gruppo, dove si è lontani da tutti anche se si ha la possibilità di chiamare a casa, dove si è sempre alla mercé di qualcos’altro. E soprattutto, dove solo tu, per una volta, puoi fare i conti con il peso della tua scelta, quella che in quel posto ti ha portato.
Questa pulsione non si muove in base a dinamiche di convenienza, utilità o calcolo del rischio. Anzi, è qualcosa che le trascende, ed è il motivo per cui nonostante tutto un giorno l’Antartide verrà attraversato in solitaria senza assistenza, il K2 e il Nanga Parbat verranno scalati d’inverno e i fiumi più innavigabili del mondo verranno discesi. Nessuno pensa o spera di cambiare il mondo in questo modo, ma cosa succederebbe se smettessimo di guardarci attorno nella convinzione di sapere già tutto di quello che circonda?
di Marcello Rossi
Marcello Rossi è un giornalista freelance appassionato di avventura e montagna che si occupa di politica, cultura e società. E’ stato reporter della sezione Mondo per il quotidiano online di base a New York International Business Times attualmente è contributing writer per Wired Italia. Il suo blog personale è www.marcellorossi.net
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