Gigi Mario, addio all’alpinista zen
Tra le varie linee di salita attrezzate per l’arrampicata sul magnifico calcare del Monte Pellegrino, a Palermo, ce n’è una che si chiama «La via del bonzo». Il «bonzo» era, all’anagrafe, Luigi Mario, universalmente conosciuto come Gigi nel mondo della montagna e dell’arrampicata, ma a cui nel giro più ristretto dei suoi allievi ci si rivolgeva usando il nome buddista di Engaku Taino, che aveva scelto dopo essere stato confermato monaco zen al termine del suo soggiorno in Giappone all’inizio degli anni Settanta. Gigi ci ha lasciato ieri all’età di 83 anni, al termine di un particolarissimo itinerario di vita che ne ha fatto una delle figure più singolari e atipiche, carismatiche e controverse, del piccolo universo dell’alpinismo e delle professionalità che intorno ad esso si sono costruite. Non era facile, circa mezzo secolo fa, definirsi insieme guida alpina comunista e buddista, ma Gigi ha saputo con grande onestà intellettuale e rigore personale tenere insieme queste identità, scontrandosi spesso e volentieri con le chiusure che da parte dei suoi mondi di appartenenza venivano opposte a quello che ai più appariva un ibrido innaturale.
Cresciuto alpinisticamente nell’ambiente borghese della sottosezione universitaria del Club Alpino di Roma, lui che non era né di famiglia borghese né studente, Gigi si è affermato rapidamente come uno degli esponenti di punta dell’alpinismo romano dell’epoca. Le vie nuove da lui tracciate al Gran Sasso tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta sono rimaste a lungo senza ripetizioni, segnando un punto di svolta rispetto agli standard del momento, più ancora per l’originalità della concezione e l’inventività dei mezzi tecnici utilizzati che per le difficoltà intrinseche. Era appena stato costruito il rifugio Franchetti, di fronte alla parete del Corno Piccolo, e per qualche anno Gigi ne prese la gestione, un passo nella direzione di fare dell’alpinismo e della montagna passione e professione insieme. Ma presto, in anticipo sui tempi nel modo di vivere la passione per la scalata, Gigi si rese conto che la concezione dominante della pratica dell’alpinismo gli stava stretta e non lo soddisfaceva; e mentre iniziava il percorso per conseguire il titolo di guida alpina elaborava una sua personale filosofia dell’andare per monti, una versione tutta sua di quella che, qualche anno più tardi, altri avrebbero sotto altre forme teorizzato, sostituendo alla «lotta con l’alpe» la «pace con l’alpe», o inventando i «nuovi mattini».
Gigi, intanto, già alla fine degli anni Sessanta aveva mollato gli ormeggi, la gestione del Franchetti e il lavoro da cameriere nei bar lussuosi di via Veneto, e se ne era andato in Giappone a campare facendo il maestro di sci e iniziando un percorso di crescita spirituale all’interno di un monastero zen. Tornò in Italia dopo qualche anno, avendo nel frattempo conseguito il diploma di guida alpina, e il nuovo nome di Engaku Taino al termine del percorso di formazione che ne aveva fatto un monaco buddista, nell’aprile del 1971.
Monaco buddista e comunista, due qualifiche non fatte per renderlo particolarmente ben visto negli ambienti più conservatori del mondo dei professionisti della montagna. Ma oltre che monaco buddista e comunista, Gigi Engaku Taino era indiscutibilmente bravo, e indiscutibilmente pieno di iniziativa e idee innovative.
E Così«Il Bonzo» si trovò a ricoprire negli anni Ottanta prima il ruolo di direttore dei corsi nazionali e della commissione tecnica dell’Agai, l’associazione delle guide alpine italiane, e in seguito di responsabile dell’arrampicata, in un’epoca in cui tutto stava cambiando nel mondo della montagna, con l’avvento dell’arrampicata sportiva e delle nuove domande di professionalità che essa richiedeva. Gigi si fece portatore convinto di queste istanze, organizzando quelli che avrebbero dovuto essere i primi corsi per la formazione di una nuova figura professionale, quella del «maestro di arrampicata», da affiancare a quella tradizionale della guida alpina, sull’esempio di quanto già in Francia era avvenuto con l’istituzione dei «moniteurs d’escalade». Alla fine, resistenze di varia natura vanificarono il suo progetto, e le aspirazioni di tanti che ci avevano creduto e vi avevano investito un pezzo del proprio futuro. E il fatto che ancora oggi, a oltre trent’anni da quelle vicende, in Italia siamo ancora lontani da una adeguata soluzione del problema la dice lunga, tanto sulla inerzia del nostro mondo alpinistico quanto sulla lungimiranza della visione di Gigi.
Intanto aveva messo su famiglia, e la casa diroccata di Scaramuccia, in Umbria, si era gradualmente trasformata in un autentico tempio buddista, in cui si trasmettevano, insieme agli allievi che la frequentavano, le nozioni di base dell’arrampicata e gli insegnamenti della pratica zen Rinzai. L’Unione Buddista Italiana ieri ha ricordato Engaku Taino come uno dei suoi Maestri fondatori; e, in un periodo in cui dirsi zen era diventato un abito diffuso quanto poco conosciuto, Gigi era un vero monaco zen, passato attraverso un lungo percorso di iniziazione e arrivato ad essere riconosciuto come un Maestro dai numerosi giovani (e non solo giovani) che sono passati per Scaramuccia.
Per i tantissimi che magari alla dimensione della pratica zen erano indifferenti, Gigi rimane affettuosamente «er bonzo», quello che a partire dalle pareti di Ferentillo ha saputo creare dal nulla in una valle dell’Umbria una realtà centrata intorno all’arrampicata; se non il primo in assoluto, certo uno dei primi, e tuttora rari, casi in cui la sinergia tra professionisti del verticale e amministrazioni locali sensibili ha funzionato efficacemente.
Pubblicato su Il Manifesto del 10 Novembre 2021
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