Everest, 60 anni tra mito e business

Il 29 maggio di 60 anni fa Tenzing Norgay ed Edmund Hillary raggiunsero per la prima volta il tetto del mondo. Da allora l'Everest ha continuato ad essere un simbolo tra mito e “consumismo”. Di Erminio Ferrari.
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Everest visto dal nord.
Francesco Tremolada
29 maggio 1953. “Avanzavamo lentamente, regolarmente. And then we were there. Hillary davanti, io dietro di lui”. Dopo esservi arrivato vicinissimo nel 1952 con lo svizzero Raymond Lambert, Tenzing Norgay toccò infine la vetta dell’Everest, la più alta montagna della Terra, in cordata con Edmund Hillary. Il sogno di una vita per il giovane sherpa; e un’occasione d’oro per l’apicoltore neozelandese, a sua volta già esperto di Himalaya.

Né l’uno né l’altro erano inglesi. Ma una accorta regia fece sì che la notizia impiegasse cinque giorni per arrivare a Londra, in tempo dunque per concorrere alla gloria della cerimonia di incoronazione di Elisabetta II: la “vittoria“ della spedizione britannica sul tetto del mondo risuonava sui resti dell’impero come una marcia sinfonica di Elgar o un ghirigoro barocco di Händel.

A sessant’anni di distanza e dopo che oltre cinquemila alpinisti hanno toccato i suoi 8848 metri, l’Everest oggi occupa spazi che esulano dalla cronaca alpinistica in senso stretto. Ancora resistono la grande valenza simbolica del “tetto del mondo”, (è pur sempre Chomolungma, in tibetano la “Dea madre del mondo”, o Sagarmatha, in nepali “Dio del cielo”); la retorica di quell’“inutile” che gli alpinisti si dannano a voler conquistare; una insindacabile, stupenda e talvolta ossessiva partita con se stessi, che è pur sempre all’origine di ogni avventura (o supposta tale). Ma la “gloria” – quella che John Hunt, capospedizione del 1953, volle dividere con gli svizzeri che un anno prima “avevano aperto la via” –, la gloria non è di questi tempi.

Dopo essere stato teatro di salite che hanno fatto storia (le prime senza ossigeno o solitarie, entrambe di Reinhold Messner; le invernali, i polacchi; le traversate, le creste, le pareti), l’Everest ha ospitato sui suoi fianchi le corse alla salita più veloce, a quella del più giovane, del più vecchio, alla prima telefonata dalla cima, il primo collegamento televisivo in diretta, alla prima discesa con gli sci o con il parapendio (beh gli svizzeri Loretan e Troillet scesero da nord scivolando sul didietro, ma solo perché avevano una gran fretta); al tipo che partì da casa (in Svezia) in bicicletta, arrivò in vetta, a piedi, e tornò a casa pedalando; a quello che con la bicicletta voleva proprio salire. E infine la prima saudita, senza velo ma con la maschera dell’ossigeno. Fino a essere oggi perlopiù disputato da centinaia di danarosi turisti d’alta quota (la definizione è di Messner) che si incolonnano aggrappati alle corde fisse, affidandosi ad agenzie specializzate per avere l’assistenza di guide, le fatiche di portatori, supporto logistico, materiale, bombole d’ossigeno, e – se va bene –un quarto d’ora di notorietà al ritorno a casa. Quando va male, sono congelamenti, edemi, e talvolta la morte.

Una morte che non è più la stessa: non si muore più per la Storia ma per la cronaca. E poi neppure per quella: morti anonime, da arteria di grande traffico, da civiltà di massa, come hanno mostrato le fotografie dei cadaveri insepolti se non dalle nevicate, dei morenti lasciati a se stessi, scavalcati dalle cordate a cui la forza bastava appena per avanzare, figuriamoci fermarsi a prestare soccorso. A meno che si muoia in grandi numeri, e che vi sia nei paraggi un magistrale giornalista, come Jon Krakauer, che in Aria sottile narrò con grande penna, grandi pregiudizi e qualche imprecisione la tragedia del 1996.

Business, semmai, altro che gloria. E non si può certo rimproverare al buon Tenzing di non averlo previsto, o, peggio, di averlo usato come argomento per convincere gli sherpa riluttanti: “Siete voi a non capire, – ricorda di aver detto ai suoi connazionali, nella propria autobiografia dettata a James Ramsey Ullman, il maggior storico di quella montagna –. Se l’Everest verrà salito, l’Himalaya diverrà famoso in tutto il mondo. Vi saranno più spedizioni e più lavoro di quanti ve ne sono mai stati”. Il senno di oggi ci dice che le vie del disastro sono lastricate delle migliori intenzioni. Ma allora...

Oggi gli sherpa sono il motore di una macchina lucrosissima che si chiama salita al tetto del mondo. Il loro mondo stesso è cambiato, nelle valli che conducono all’Everest e tanto più sulla montagna stessa. L’aggressione (a 7000 metri!) avvenuta ai danni di Simone Moro, Ueli Steck e Jonathan Griffith alla fine dello scorso aprile (“colpevoli” di avere superato in salita le squadre di sherpa che stavano fissando le corde per le ascensioni delle spedizioni commerciali) lo ha dimostrato nella maniera meno accomodante e più traumatica.

Facendo detonare, in una situazione “estrema” e perciò non gestibile, le contraddizioni del rapporto tra alpinisti e “locali”, più grandi delle responsabilità o della buonafede individuali; e demolendo un’accomodante oleografia, buona per le campagne dell’ufficio del turismo nepalese e per la buona coscienza degli occidentali di ritorno in patria.

Il mite sherpa è diventato un cattivo, il buon alpinista uno sfruttatore. E il mito della cacciata dall’Eden è di nuovo servito. Non senza un costo, beninteso: “prima” dell’aggressione a Moro e compagni, uno sherpa è morto attrezzando la via di salita lungo la seraccata dell’Ice Fall; “dopo”, un altro sherpa è morto per un edema, dopo aver trasportato ai campi alti tende e viveri per gli alpinisti che nei giorni successivi avrebbero tentato la vetta.

di Erminio Ferrari

25/05/2013 - Storia dell'Everest, la montagna più alta: il Chomolungma, la Dea madre del mondo



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