Daniele Nardi, il Nanga Parbat d'inverno e l'alpinismo

Daniele Nardi e il suo quarto tentativo invernale al Nanga Parbat (8125 metri, Pakistan). Intervista di Valentina d'Angella.
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Nanga Parbat (8126m) Karakorum
Daniele Nardi
Daniele Nardi è partito per il Pakistan il 24 dicembre scorso. L'obiettivo è a salita invernale del Nanga Parbat, l'unico dei 14 Ottomila, insieme al K2, che ancora non è stato scalato nella stagione più fredda, quella più difficile. E' il quarto anno di seguito che l'alpinista di Sezze tenta questa salita. Quasi un'ossessione verrebbe da dire e, allo stesso tempo, una grande storia, con il Nanga Parbat simile a Moby Dick. Non a caso sulla stessa montagna ad inseguire la prima invernale ci sono altre quattro spedizioni. Quella degli italiani Simone Moro e Tamara Lunger, che hanno in progetto di percorrere la via Messner aperta nel 2000 sul versante Diamir. Quella dei polacchi Adam Bielecki e Jacek Czech che punta alla via Kinshofer (versante Diamir). Quindi quella di Elisabeth Revol (Fra), Tomek Mackiewicz (Pol) e Arslan Ahmed Ansari (Pak) che tenterà anch'essa la via Messner 2000 (Diamir). Infine la spedizione composta da 7 alpinisti polacchi e due pachistani, guidata da Marek Klonowski, che hanno in programma di salire la via Schell sul versante Rupal. Dal canto suo Daniele Nardi tenterà anche lui, insieme a Alex Txikon (Spa) e Ali Sadpara (Pak), di arrivare in vetta dal versante Diamir lungo la "classica" via Kinshofer. E' chiaro che questi sono solo i programmi. Molto, infatti, dipenderà dalle condizioni della montagna ma anche (magari) se e come i team, specialmente quelli impegnati sulla stessa salita, decideranno di collaborare. Daniele Nardi l'inverno scorso, lungo lo Sperome Mummery, sempre con Alex Txikon e Ali Sadpara, aveva raggiunto i 7830 metri. E' la quota più alta raggiunta sul Nanga in invernale, alla vetta mancavano solo 300m... Ma, si sa, il Nanga Parbat, come la balena bianca, è un mito (forse) inafferrabile. Poi oltre la vetta e l'ossessione, come sembra dirci Daniele Nardi in questa intervista a Valentina d'Angella, c'è dell'altro...

Daniele, di nuovo al Nanga Parbat d’inverno, è un’ossessione?
Direi di no. Anzi quest’anno non volevo partire, sono stato molto indeciso. Poi però ho cambiato idea per due motivi. Il primo motivo è la volontà di non lasciare le cose a metà: sono 3 anni che ci provo e, sebbene l’anno scorso siamo arrivati davvero vicini alla vetta, di fatto rimane una salita incompleta. Il secondo motivo è legato ad Alex, con cui dall’anno scorso siamo diventati molto amici: ci teneva molto a tornare e mi ha chiesto di ritentare assieme. Le due cose mi hanno convinto a tornare al Nanga Parbat: non si tratta di dimostrare niente a nessuno, torniamo per noi, torno per me, non per arrivare in cima a tutti i costi per primo.

Che bilancio fai delle spedizioni passate: 3 sconfitte?
La vera sconfitta è non essere riuscito a trovare la squadra giusta per completare la salita allo Sperone Mummery, una squadra ragionevole che condividesse il mio sogno. Questo è il mio grande cruccio perché continuo a pensare che sia una scalata fattibile e meno rischiosa di quanto si pensi. In questi anni ho potuto studiare tutti i canali di salita e discesa molto bene e so che si può fare, da soli però oltre i 6000 metri raggiunti l’anno scorso è veramente dura. Per il resto direi che è un bilancio positivo. L’anno scorso siamo arrivati a 7830 metri e poi ridiscesi: abbiamo portato a casa la soddisfazione e l’orgoglio che si provano quando sai di aver fatto la scelta giusta, siamo stati in grado di capire che Ali stava male e di ridiscendere con lui, abbiamo scelto la vita e non la vetta. E poi considero tutte e 3 le spedizioni un grande bagaglio di esperienza, perché prima non avevo idea di come funzionassero le spedizioni sugli 8000 d’inverno: andarci mi è servito a imparare e a capire.

Quale sarà la tua strategia quest’anno?
Quest’anno torno sul versante Diamir e sulla via Kinshofer con Alex Txikon e Ali Sadpara. Niente Sperone Mummery. La salita dello Sperone in stile alpino è qualcosa di innovativo e l’innovazione fa paura e al contempo implica molti imprevisti, che soprattutto d’inverno riducono davvero tanto le possibilità di successo. La via Kinshofer invece la conosciamo già, e questo significa potersi concentrare su un buon piano di salita. Sarà una spedizione classica con l’uso di corde fisse che in caso di necessità permettono un rientro al campo base veloce.

L’anno scorso hai avuto problemi con Elisabeth Revol e Tomek Mackiewicz, quest’anno Janusz Golab e Ferran Latorre hanno rinunciato. È un tasto dolente quello dei compagni di spedizione?
Purtroppo quello che l’anno scorso è successo a me, quest’anno è capitato ad Alex ed indirettamente ancora a me visto che siamo nella stessa spedizione. Januzs Golab e Ferran Latorre, sono amici di Alex, ci facevamo affidamento, ma all’ultimo momento hanno deciso di non partire più, il primo non ce l’ha neanche comunicato, Ferran invece ha collaborato molto per aiutarci a sistemare le cose. La cosa ha creato problemi perché fare a meno di due persone d’inverno può mettere in difficoltà il resto del gruppo. Non è facile costruire una squadra, sono tante le variabili e soprattutto con una salita difficile si rischia la vita. Trovare persone che volessero venire con me allo Sperone Mummery è sempre stato un problema e l’anno scorso ho vissuto un momento molto difficile. Con Elisabeth avevamo già scalato nell’inverno del 2013, era per me la compagna di cordata ideale, quell’anno avevamo veramente spinto al limite lo stile alpino arrivando a 6400 metri. Poi ci siamo preparati di nuovo insieme scalando 3 pareti nord nell’arco di una settimana sugli Ecrins, ci eravamo allenati per completare la salita dello Sperone. L’anno scorso c’era anche Roberto Delle Monache di supporto, mentre Tomek era venuto con noi al campo base con la libertà poi di scegliere se andare da solo o unirsi a noi. Mai mi sarei aspettato che avrebbero preso accordi fra di loro una volta al base e se ne sarebbero andati da un’altra parte. Rispetto il fatto che si possa aver paura o si possa cambiare idea, succede tantissime volte sulle Alpi figuriamoci in Himalaya. Per cui quando Elisabeth ha rinunciato, non ho potuto fare altro che prenderne atto, perché alpinismo vuol dire rischio e quindi nessuno può decidere per gli altri. Detto questo è chiaro che la cosa mi ha fatto incazzare perché mi sono trovato di punto in bianco da solo, ed organizzare la spedizione mi era costato tanto sia in termini economici che di tempo. Quello che più mi è dispiaciuto è stata la mancanza di onestà. All’improvviso una ricognizione in alta quota è diventata un tentativo e sono scomparsi per 12 giorni senza nessuna comunicazione con il campo base. Questo mi ha messo veramente in difficoltà, non potevo continuare a scalare sereno in attesa di loro notizie. Dopo un po’ di giorni credo sia normale cominciare a preoccuparsi, in inverno poi, e sul Nanga Parbat: al base eravamo tutti in agitazione senza notizie. Credo che trovare i compagni giusti sia la cosa più difficile nelle spedizioni.

Chi è per te un alpinista e tu che alpinista sei?
Provengo da una zona in cui andare in montagna non è scontato, anzi è scomodo. Molto bello per l’arrampicata sportiva ma per la montagna vera e propria devi andarti a cercare dei luoghi particolari. Allo stesso tempo questa condizione mi ha avvicinato all’alpinismo in maniera diversa ed è questo che mi fa sentire un alpinista particolare, forse un “Appenninista”. La montagna me la sono sempre dovuta andare a cercare e fortunatamente non sono stato neanche vittima delle culture locali perché al mio paese, poco a sud di Roma, di cultura di montagna intesa nel senso alpinistico ce n’è veramente poca. Mi sono dedicato a montagne spesso sconosciute, di 2000 metri, su cui scalare vie tecniche che mi hanno preparato alle Alpi. E più facevo vie in Appennino più mi rendevo conto che alcune vie sulle Alpi mi restavano facili, perché se le pareti appenniniche non le prendi per il verso giusto possono essere molto pericolose. Attraverso i libri, le esperienze sulle mie montagne e in Himalaya mi sono sentito libero di scegliere e di vivere la montagna senza condizionamenti. Chi sono per me in generale gli alpinisti? Tutti coloro che usano mani e piedi per scalare una montagna.

Tu sei sempre stato molto mediatico. È una tua attitudine o una necessità del mondo di oggi?
Non penso che il mondo ci imponga di essere mediatici. Voglio dire, sarebbe così se il ritorno economico che deriva dalla comunicazione fosse significativo. Lo è per un calciatore, per un cestista, e per altri, ma questi sport non sono paragonabili all’alpinismo. Parlando del largo pubblico e facendo un paragone con le altre attività sportive, né le aziende, né la maggior parte delle persone sta lì attaccato al televisore ad aspettare la comunicazione dell’alpinista. L’alpinismo non è ancora così mediatico da essere la comunicazione un bisogno esterno. Secondo me è invece un bisogno dell’alpinista. Sono io che voglio comunicare perché mi piacere far conoscere ciò che faccio, la mia passione, l’alpinismo in generale. Non per forza la grande impresa, ma anche una piccola storia per far vivere agli altri l’avventura e le emozioni che vivo in montagna. Questo vale in generale poi ci sono le eccezioni, dove magari un po’ di business c’è davvero anche nell’alpinismo. Per fortuna di gente e di aziende che seguono gli alpinisti ce n’è sempre di più.

Comunicherai durante la spedizione?
Si, comunicherò durante la spedizione e quello che non mostrerò durante la spedizione andrà nel film a cui stiamo lavorando. Racconta dal mio punto di vista quello che io ho vissuto in questi anni di tentativi in invernale al Nanga Parbat. Il film è appena stato ultimato, mancano solo gli ultimi 6 minuti di ripresa dalla vetta che spero di portare a casa quest’anno.

Pakistan: tu ci sei stato anche l’anno dell’attentato. Come vivi il rapporto con il Paese?
In Pakistan ho vissuto le mie più grandi avventure in montagna e tra le mie più belle esperienze di vita, è un rapporto speciale. L’inverno dell’anno dell’attentato al Nanga ho deciso di andare ugualmente ma non è stato facile ottenere i permessi. Volevo che passasse il messaggio che la paura e il terrorismo non deve fermare la volontà e le persone, neanche nell’alpinismo. Mi sono preso la mia responsabilità di ambasciatore dei Diritti Umani, ho corso il rischio e ho affrontato la paura, a quel tempo ero l’unico straniero al campo base. La mia scelta e il lavoro del mio gruppo che ha tenuto un dialogo diretto con il Gilgit Baltistan e il Ministero del Turismo hanno sbloccato la situazione poi anche alle altre spedizioni.

Sei ambasciatore dei Diritti Umani per i giovani. Secondo te l’alpinismo è sensibile ai diritti umani?
Negli anni ho imparato che gli alpinisti sono veramente molto incentrati su loro stessi, e quando va bene sulla loro squadra. Apprezzo molto le spedizioni che uniscono allo scopo alpinistico uno scopo umanitario, con progetti di solidarietà nei luoghi in cui si svolgono. Questo perché quelle montagne non sono a nostro uso e consumo, ma sono delle popolazioni che le abitano. E generalmente si trovano anche in zone veramente povere: l’attenzione a quelle popolazioni è il minimo che si possa fare, una questione di rispetto per altri esseri umani. Quando mi è stato proposto di essere ambasciatore nel mondo della campagna “Gioventù internazionale per i Diritti Umani” ho detto subito di sì. Poi è nata l’alta bandiera dei Diritti Umani. Ogni giorno è una battaglia, perché mi sono reso conto che far sì che i 30 Diritti umani scritti nella “Dichiarazione Universale” non restino solo sulla carta, ma siano anche applicati concretamente è difficile e richiede impegno. L’alpinismo può essere molto utile se riesce ad essere d’esempio. Ho sempre pensato che in montagna di bandiere non se ne dovrebbero portare, per lasciare le vette libere da qualsiasi ideologia, ma l’Alta Bandiera dei Diritti umani per me è troppo importante. Ho capito nel tempo che i Diritti Umani sono “le fondamenta su cui costruire tutto il resto”. Quando ho compreso fino in fondo questa frase mi sono illuminato, spero che accada anche ad altre persone e che decidano di sostenere la campagna.

intervista di Valentina d'Angella

www.danielenardi.org



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