Come fantasmi. Pensieri effimeri su una salita trad, la via Casarotto alla Roda di Vael, Dolomiti
Prima domenica d’agosto. Gruppo del Catinaccio. Lasciamo a Carezza gli amici Leonardo e Andrea. Loro prenderanno la seggiovia. Li aspetta una via con difficoltà che noi possiamo solo sognarci. Proseguiamo ancora er un paio di chilometri. Parcheggiamo e iniziamo a salire i 600 metri di sentiero che ci porteranno all'attacco della nostra via. Sotto a questo muro di roccia, lo sguardo non può che fermarsi sulle placche gialle della “parete rossa”. Tra i molti alpinisti che hanno lasciato un segno su questa parete quella che subito ci passa per la testa è la via di Maestri: arrampicata artificiale, 400 metri, 300 chiodi, 8 giorni.
Noi però di chiodi, oggi, non ne vedremo. O meglio, non li toccheremo. Stiamo andando a ripetere la Casarotto. La nostra vuole essere una ripetizione particolare, fatta con una certa etica. Ripercorrerla interamente a dadi, come fece Casarotto in apertura.
"Nel maggio del ‘78 aprii una via sulla Roda di Vael, nel Gruppo del Catinaccio, assicurandomi nei punti di sosta e di progressione esclusivamente con nut. Probabilmente era la prima volta che in Dolomiti, su difficoltà sostenute, veniva tracciata una via con l’impiego di dadi al posto dei chiodi".
Queste le poche parole di Renato riguardo questa linea. Aperta in una fredda giornata di maggio, insieme ai suoi due compagni, Giovanni Majori e Maurizio Zappa, che abbiamo interpellato per l’occasione. Alla base della parete c’era ancora neve. Gli apritori arrivarono all’attacco con i piedi fradici. Casarotto si era portato dietro il minimo indispensabile. Aveva lasciato a casa chiodi e martello. Anche le sue nuove EB, le scarpette a suola liscia, scoperte nel suo viaggio in Inghilterra nel 75.
Da sottolineare che Renato, grazie a queste scarpe, rivoluzionò il suo modo di arrampicare. Nello stesso anno, infatti, aprì con l’amico Pierino Radin la via del Gran Diedro sullo Spitz di Lagunaz, nelle Pale di San Lucano, pietra miliare dell’alpinismo dolomitico.
Quel giorno, dunque, sulla Roda di Vael, lasciò a casa anche loro. Le scarpette. Una volta in cima il tempo li sorprese con una forte nevicata. A tal punto che decisero di calarsi in doppia dalla parete appena salita, su clessidre o ciò che la roccia aveva di meglio da offrire. Un’impresa particolare a quei tempi.
Il giorno che scoprimmo che il grande alpinista vicentino aveva aperto una via con questo stile, ci colpì davvero molto. Fu un’esplosione per il nostro immaginario. Per questo abbiamo voluto fare la stessa cosa. Per rendere un elogio a questi alpinisti, a questo stile, usufruendo solamente dei mezzi che hanno usato a quel tempo. Forse per capire cosa avessero provato loro. Ripercorrere la strada di un nostro mito, al suo stesso modo, ci avrebbe fatto meglio comprendere quanto potessero essere forti e innovatori questi uomini, 41 anni fa.
Non ci aspettavamo un sforzo psicofisico così impegnativo. Di certo la testa ha dovuto combattere molto sugli sleghi, sulle soste a chiodi saltate, o su “quel dado”, messo più perché non si vedeva l'ultimo, che per la sua reale utilità.
Salire questi spettacolari diedri, cercando la fessura giusta, la misura adatta è stato molto faticoso. Non abbiamo mai avuto così male ai polpacci. A volte, l'equilibrio precario e il nut che non entrava, ci costringeva a rinunciare e cercare un'altra fessura, più in alto. Arrivati alla fine del tiro chiave, abbiamo saltato una bella sosta a chiodi - "chissà chi li ha messi", è stato il nostro primo pensiero - e iniziato ad allestire la nostra sosta. "La più bella che abbia mai realizzato" - ha esclamato Giacomo. Cinque dadi, di cui due tensionati con dei nodi a pacco. Con attenzione è stata messa in tensione, per iniziare a recuperare il compagno.
Una cosa che abbiamo imparato sin da piccoli è quella di guardarsi indietro, ripercorre i passi appena fatti. E soprattutto il paesaggio che ci circonda. Una volta che inizi ad arrampicare è automatico. Guardi il compagno che sale, i suoi movimenti e come affronta il passo. Poi lo sguardo si alza, per assaporare la visione che la montagna ti porge.
Quel giorno, però, sulla Roda, i nostri occhi sono stati straziati. Avremmo voluto tornare indietro a 40 anni fa. Non riuscivamo a trovare niente di bello. Le guglie del Latemar erano coperte da una coltre di nuvole. Alle sue pendici, sotto i ghiaioni, scorgevi il bosco. Un bosco rasato. Ma non è stato Vaia. Sono delle linee nette fatte dall'uomo per le piste da discesa. Intorno, invece, dei laghi d'acqua. O meglio, dei bacini artificiali. Alcuni già in funzione, altri in pieno cantiere. Tanto i boschi, gli alberi, sono appena stati abbattuti dalla tempesta! Cosa vuoi farci se non un raccoglitore d'acqua per i nostri cannoni sparaneve?
Con la via di Renato per un po’ ci siamo immersi nel passato, dove non esistevano funivie o spit. Forse per questo ci affascina questo tipo di alpinismo e di ripetizioni. Ci piace ripercorre silenziosi le tracce di vecchi alpinisti. Ci piace lasciare meno tracce possibili del nostro passaggio. Ci piace essere come fantasmi.
Nota storica. Sulla persona che è stata Renato ci sarebbe molto da dire. Ma tre anni fa, sempre in occasione della ripetizione dello stesso itinerario, è nato questo stupendo articolo di Alberto Peruffo, padre di Giacomo, che ha in qualche modo ispirato la salita, pubblicato per la prima volta su LE ALPI VENETE e poi ripreso da GognaBlog
Giacomo e Giulio, ottobre 2019