Aspettare. Di Giovanni Spitale
Sono uno che con l’attesa ci sa fare; si potrebbe dire che aspettare è una delle mie qualità migliori, sviluppata a forza, controvoglia e tramite un sacco di stratagemmi.
Mi chiamo Giovanni Spitale, e dal 2009, a causa di una malattia degenerativa del midollo osseo sono in attesa di un trapianto che mi salvi la vita. Sei anni fa un medico, guardandomi attraverso i suoi spessi occhiali posati sul naso, mi ha informato che il mio midollo osseo aveva smesso di funzionare per via di una malattia che si chiama aplasia midollare idiopatica. Probabilità di decesso in sei mesi: ottanta per cento. Il primo passo sarebbe stato ricoverarmi e spezzare il mio corpo con una chemioterapia basata su biofarmaci, sperando che il poco midollo osseo rimasto si fosse degnato di ripartire. Sarebbe stata una soluzione temporanea: senza un trapianto la mia aspettativa di vita era stimata in dieci anni; quindi trovare un donatore compatibile era il solo sistema per arrivare almeno all’età di Cristo, traguardo modesto ma ragionevole. Il problema è che il midollo osseo, tessuto liquido annidato nelle ossa lunghe e nelle ossa piatte (da non confondere con il midollo spinale) è qualcosa di estremamente personale, quasi come le impronte digitali: le probabilità che due persone siano compatibili sono all’incirca una su centomila. Dal 2009 ad oggi non è stato possibile trovare un donatore compatibile, ed io continuo ad attendere, contando i giorni.
Oggi è il 21 maggio, e dopo un incontro ravvicinato con determinate idee di Kary Mullis (inventore della PCR e premio nobel per la chimica) a proposito del tempo, so che sono 10.030 giorni che mi sveglio alla mattina.
Ho passato gli ultimi tre confinato in poco più di trenta metri quadri assieme a Matteo, che in questo momento è disteso a dormire sulla cassapanca dove io vorrei appoggiare i piedi; siamo senza telefoni ed altri mezzi di comunicazione, e pertanto le nostre interazioni con il mondo umano risultano decisamente decurtate, rispetto al solito.
Anche Matteo ne sa qualcosa, di attese: il giorno in cui ho saputo della mia malattia si è immediatamente tipizzato, diventando un potenziale donatore di midollo osseo. Non solo per me: per chiunque nel mondo avesse bisogno di lui. Una cosa così importante si può fare solo incondizionatamente, a beneficio di chiunque nel mondo, uomo, donna, bambino, bianco, nero, giallo, religioso, ateo, eterosessuale, omosessuale o quant’altro. Il dono della vita e della salvezza che rappresenta il trapianto di midollo osseo è qualcosa di troppo prezioso per subordinarlo a meschine logiche “di clan”, ragion per cui è rigorosamente anonimo, oltre che assolutamente gratuito. Matteo non è compatibile con me, non può salvarmi la vita, nonostante sia uno dei miei più cari amici e la persona con cui preferisco in assoluto legarmi in cordata. Dal 2009 anche Matteo aspetta, aspetta di essere chiamato per salvare la vita di qualcun altro: se capitasse, se ce la facesse, sarebbe un po’ come se avesse salvato la mia.
Come sa chiunque si sia trovato ad attendere qualcosa di assolutamente imprevedibile, focalizzare la propria attenzione sull’obiettivo è la scelta peggiore. Il tempo non passa mai, ogni secondo diventa un secolo e la mente vaga, perdendosi tra domande a cui nessuno può rispondere: sarà domani? Sarà tra un mese? Succederà davvero, prima o poi? Molto meglio tenere la testa impegnata, concentrarsi su altro; poi, quando ciò che si aspetta arriva, basta raccoglierlo con gratitudine e meraviglia. Sono le basi dell’antica arte nota ai più come “ingannare l’attesa”.
Da qualche giorno la vita con noi ha alzato la posta, in termini di pazienza: io mi sono laureato da poco in bioetica, e nonostante abbia ottenuto il massimo dei voti, la prosecuzione della mia carriera accademica è legata all’ottenimento di una borsa di dottorato che per ora non vuole arrivare.
Per Matteo è diverso, più importante: è arrivata una telefonata, gli hanno detto che probabilmente il suo midollo osseo è compatibile con quello di una persona in attesa di trapianto. Si è sottoposto ad un altro esame del sangue per avere la conferma di ciò, e deve aspettare i risultati: ci vorranno circa due mesi.
Abbiamo entrambi bisogno di ingannare l’attesa, di fregare il tempo: è il momento di andare in montagna. Matteo ha per le mani una possibilità interessante: un suo amico, gestore di un rifugio nel Lagorai occidentale, è disposto a prestargli le chiavi. Potremmo salire per qualche giorno, avendo una base comoda per lunghe camminate ed un po’ di arrampicata, presumibilmente a Cima Trento, sopra il lago di Costa Brunella. Dopo una scorsa alle mappe e qualche consultazione con Manolo, un’autorità per quanto riguarda l’arrampicata su queste montagne, carichiamo la macchina con tutto il necessario per la nostra avventura e partiamo.
Arriviamo al rifugio sul filo della sera, carichi come muli, sotto un cielo che minuto dopo minuto si fa più nero e meno amichevole. Appena scaricate le nostre cose facciamo una buona provvista di legna, per non rischiare di rimanere al freddo: la primavera, da queste parti, può riservare gelide sorprese. Non abbiamo idea di cosa dicano le previsioni del tempo: non è un caso, una distrazione, ma una scelta deliberata; abbiamo un tetto sopra la testa, non siamo in pericolo. Staremo quassù, qualunque cosa il tempo decida di fare.
La vita, a volte, ha un discutibile senso dell’umorismo: ne ho fatto esperienza, la prima volta, proprio con la scoperta della mia malattia. La diagnosi non è stata casuale, e nemmeno legata a specifici sintomi. L’ho scoperta perché, ironia, avevo deciso di diventare donatore di midollo osseo.
Questa volta lo humour è meno crudele, ma dà comunque da pensare: siamo saliti quassù per ingannare l’attesa, per tenerci occupati pensando ad altro e facendo altro, ma il tempo ha opinioni differenti. Facciamo in tempo a portare la legna al coperto ed inizia a piovere, gocce freddissime e grosse un dito.
Poco male, pensiamo. Domani sarà meglio, domani ci alzeremo presto, all’alba. Faremo gli zaini ed andremo a scalare, e se Dio vuole torneremo abbronzati. Organizziamo lo spazio in cui vivremo i prossimi giorni, scoprendo un domino, alcuni mazzi di carte, una scacchiera. Non si potrebbe chiedere di meglio, in una fredda notte di pioggia: un posto caldo, un buon amico, qualche passatempo.
Il giorno dopo piove ancora a dirotto. La sola differenza rispetto alla serata precedente è che si sta alzando la bruma, che durante tutta la giornata nasconde ogni cosa sia più lontana di quattro metri dalla porta di quella che per ora stiamo chiamando casa. Se non fossimo dei professionisti dell’attesa sarebbe un casino. Dopo colazione racimoliamo il coraggio necessario ad uscire; raccogliamo un po’ di erbe spontanee con cui arrabattare il pasto. Il tempo finalmente inizia a cambiare: non più nebbia e pioggia, ma grandine. Una gioia.
Il pomeriggio decidiamo di uscire per quattro passi, approfittando di una momentanea schiarita. Scendiamo verso il fondovalle, perché ormai è tardi per qualunque progetto alpinistico. Speriamo che il tempo tenga per almeno un paio d’ore, ma va diversamente: torniamo al rifugio infreddoliti e bagnati, sotto una pioggia battente che sta diventando grandine.
Si fa buio. Imprevedibilmente non stiamo maledicendo il tempo, girando in tondo come bestie in gabbia. Mi stupisco di noi stessi, così tranquilli nonostante l’ennesima occasione mancata. Ceniamo assieme ad alcuni amici, saliti a trovarci all’imbrunire: una visita inaspettata quanto la nostra reazione all’attesa coatta. Prima di andare a dormire, presto per risparmiare legna e candele, intravvediamo quello che ci sembra uno spiraglio di luna. Forse per domani c’è da sperare.
Mattina. Usciamo infreddoliti dai sacchi a pelo, accendiamo il fuoco, mettiamo due moke sul fuoco per preparare il caffè. Fuori non piove. Nevica. I nostri amici ci salutano, dirigendosi verso casa. Noi no, resistiamo. C’è qualcosa che tanto io quanto Matteo stiamo iniziando a capire, e non vogliamo farcelo scappare. Abbiamo bisogno di stare qui, in silenzio, ad aspettare, a riflettere su ciò che vuol dire attendere: non solo che passi il maltempo, incubo di ogni alpinista, ma sul significato generale dell’attesa in quanto tale, in quanto tempo vuoto tra un evento ed il successivo.
Matteo dorme sulla cassapanca dove vorrei appoggiare i piedi; io invece scrivo, accompagnato dallo schioccare della legna nella stufa. Antica abitudine: scrivo per vedere i pensieri da fuori, per considerarli in maniera oggettiva, per forgiarli in forme migliori. Pensare dà significato alle cose, che altrimenti scivolano via, come tutto ciò che non significa nulla, che non è posto in relazione con l’esperienza della vita che abbiamo noi esseri umani. Ci vuole tempo, per pensare.
Siamo qui da tre giorni ed ho imparato che tutti quelli che ci rimangono (qui ed in senso generale) non saranno più giorni d’attesa. Non nel senso convenzionale del termine, per lo meno. Non come spazio vuoto tra un evento ed il successivo, un tempo sospeso da rifuggire, pieni di quell’orrore per il vuoto figlio delle nostre routine schizofreniche. Qui, da soli, nel pessimo e fantastico tempo del Lagorai abbiamo imparato che l’attesa è il tempo più importante, quello senza il quale tutta la nostra vita sfumerebbe nel nonsenso: il tempo per l’immaginazione, il desiderio, il giudizio. Il tempo della consapevolezza. L’attesa è respiro.
PS: andare per montagne mi piace, e mi piacerebbe continuare a farlo a lungo. Tu che leggi, per uno strano caso della vita, potresti avere un midollo osseo compatibile con il mio, o quello di chiunque altro sia in attesa di trapianto. Fatti un regalo: informati sulla donazione di midollo osseo. Potresti salvare una vita e, con questa consapevolezza, migliorare incredibilmente la tua. Potresti partire da qui: www.climbforlife.it
Foto di Matteo Mocellin – testo di Giovanni Spitale
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