L'alpinismo e la necessità del racconto. Di Enrico Camanni
Finalmente sono ritornato al Festival di Trento per guardare i film in concorso. Uno per uno, da bravo giornalista, come quando avevo vent’anni e da inviato della Rivista della Montagna mi sprofondavo per una settimana nei misteri e nelle magie dello schermo, scalando pareti vicine e lontane, sognando e soffrendo con i miei miti. A quel tempo ignoravo che non erano le imprese a far battere il mio cuore, ma i loro racconti.
La storia dell’alpinismo è una straordinaria narrazione, la ripetizione infinita di un racconto, più o meno come l’epopea del Far West o quei polizieschi in cui succedono sempre le stesse cose ma stai comunque inchiodato per vedere come va a finire. E ogni volta ci ricaschi perché è bello fingere che sia vero, che assomigli alla vita. Anche l’alpinismo è così: comincia sempre con un progetto e una sfida, poi vengono le difficoltà, gli imprevisti, a volte il dramma, e infine la liberazione. Con o senza vetta, poco conta.
Non è indispensabile arrivare in cima, ma bisogna assolutamente perdersi per ritrovarsi. Bisogna affrontare la parete, trovare lungo e tornare a casa. È proprio il ripetersi dello schema narrativo a farci emozionare, perché ricalca il gioco e lo schema del romanzo classico: si entra nei sogni e nelle storie dei protagonisti e ci si smarrisce nei loro guai, aspettando appassionatamente di salvarsi con loro.
L’alpinismo è narrazione, ripetizione e metafora di vita. Senza la narrazione esisterebbero le scalate, non i sentimenti. Le emozioni sarebbero riserva di pochi, dei pochi che le hanno vissute, e anche loro si sentirebbero mutilati, incompresi e soli. Per questo l’alpinismo è un immenso e ossessivo groviglio di racconti, come se la penna contasse più della piccozza. A dispetto di chi vorrebbe farne una disciplina quasi scientifica per «scoprire solo la verità», l’alpinismo è da sempre narrazione e finzione, fin dal giorno in cui è stato inventato. Individuata la sceneggiatura, ogni alpinista ripete con passione la medesima storia, che non è quella dell’ultima scalata ma quella della sua vita.
La letteratura alpinistica è autobiografica e appare come lo sforzo ininterrotto di liberare la scalata dalla forza di gravità, eliminare la fatica di salire e la paura di cadere, raggiungere la leggerezza dell’essere, dare un senso a ciò che non ne ha. Penna e piccozza non sono un binomio retorico, ma le due facce della stessa medaglia, i due termini con cui le montagne prendono spessore e memoria nella rielaborazione. Henri Beraldi, grande bibliofilo francese, sosteneva che un alpinista esiste veramente solo se scrive, oltre ad arrampicare. Nella provocazione c’è del vero, perché in assenza di regole e testimoni (l’alpinismo è un gioco fondato su regole non scritte, e continuamente mutevoli secondo la cultura del tempo) l’unica certificazione della scalata sta nel suo racconto.
Sylvain Jouty ha affrontato la questione in un articolo apparso su Passage, cahiers de l’alpinismo alla fine degli anni settanta del Novecento: «L’alpinismo - scriveva Jouty - riposa su una finzione, ma il saperlo non gli impedisce di funzionare... L’alpinismo nasce con la coscienza di conquistare e con la necessità di raccontare... In realtà il racconto alpinistico è parente stretto della pornografia: vi si trova, anche se in misura diversa, lo stesso desiderio di aderire alla realtà e la poca cura per lo stile e per l’opera. Che sia bene o mal scritto, il racconto ha lo stesso valore poiché il suo effetto non è propriamente letterario ma è prodotto dall’identificazione del lettore alla situazione descritta. La descrizione, iperrealista, funziona solo operando una scelta stretta, monotona e ripetitiva delle situazioni possibili».
Tornando finalmente a Trento a vedere i film ho trovato del cinema di ottima qualità dal punto di vista tecnico. Buoni film e buoni autori, anche se mancano come sempre le storie, difettano le sceneggiature, e il voyeurismo di Sylvain Jouty è accentuato dal fatto che ormai si arrampica in diretta con la GoPro sul casco e il drone sulla testa, quindi la finzione è più esplicita. Quasi oscena. Tutto è mostrato e si è sempre più nudi davanti alla videocamera. Si soffre e gioisce pubblicamente, si muore nudi e nudi ci si salva, tutti allo stesso modo, senza pudore. E’ l’ambigua democrazia del digitale.
Senza rimpiangere i brutti film di una volta, frutto di molti stereotipi e poca professionalità, ho pensato che la perfezione è pericolosa. Adesso che si può filmare come respirare il racconto è diventato più importante, e lo sarà sempre di più. Proprio perché possiamo vedere tutto, e tutto è svelato, abbiamo un bisogno quasi filiale di ritrovare il senso, la storia e la narrazione di quello che facciamo. Per sciogliere qualche mistero ci servono le ombre, i chiaroscuri, le pieghe nascoste e imperfette, perché troppa luce acceca e poi non si vede più niente.
di Enrico Camanni
Enrico Camanni (1957), torinese, è uno dei più noti intellettuali nel mondo della montagna. Dopo essere stato redattore capo della Rivista della Montagna e direttore di Alp, ha diretto la rivista internazionale di cultura alpina L’Alpe e collabora con La Stampa. Autore di diversi libri, tra cui i romanzi La guerra di Joseph (Premio ITAS e Premio Via Po 1999) e L’ultima camel blu, recentemente si è dedicato ai progetti espositivi, nel quadro della nuova museografia ("Museo delle Alpi" e "Alpi dei Ragazzi" al Forte di Bard, "Montagna in Movimento" al Forte di Vinadio, Museo della Montagna al Monte dei Cappuccini, Torino). È vicepresidente della giovane associazione "Dislivelli, ricerca e comunicazione sulla montagna".