A volte ritornano, nuova via alla Punta Phuc del Monte Castello

Andrea Giorda presenta A volte ritornano una nuova via d'arrampicata alla Punta Phuc del Monte Castello nel vallone di Noaschetta, Gruppo del Gran Paradiso, aperta insieme a Mario Ogliengo, Michele Amadio, Filippo Ghilardini e Martina Mastria.
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A volte ritornano, Cima Monte Castello Punta Phuc: Filippo Ghilardini prova il primo tiro
archivio Andrea Giorda

Cos’è? Una via di grande respiro, nata e realizzata per il puro piacere di scalare, senza particolari ingaggi psicologici in un luogo di grande bellezza.

Dove?
Sulla punta Phuc del Monte Castello, nel mitico vallone di Noaschetta nel gruppo del Gran Paradiso. Un luogo selvaggio, un tempio della natura alpina. La punta Phuc, evidente ed importante, non era mai stata salita e la sua parete principale era completamente vergine. Ricorda molto lo Scoglio di Mroz, ma alto più del doppio e più verticale. Il versante Sud e la bassa quota, intorno ai 2000 metri, la rendono fruibile da maggio ad ottobre.

Dov’è la punta Phuc? In effetti punta Phuc è un nome dato da me, perché il Monte Castello come montagna non è identificabile, è un nome generico dato ad una imponente bastionata rocciosa con diverse punte a sé, che da fondo valle, sul lato orografico destro, arriva fino all’Alpe la Bruna. Phuc in vietnamita vuol dire fortunato, buona sorte e si legge Fuc.

Perché questa via? Una passione personale e un atto di amore per queste montagne, per avvicinare chi vorrebbe conoscere questi posti ma è intimorito dall’ingaggio medio alto delle vie esistenti. Tolto le dovute eccezioni, i ragazzi vengono dalla plastica e da vie imballate di spit e non per colpa loro sono meno disposti ad accettare disagi e protezioni precarie. Una volte non vi erano alternative. Ma anche per chi è in astinenza da granito questa via è una valida alternativa ai Satelliti del Bianco. Qui l’ambiente è rilassato, non si ha la salivazione azzerata dalla quota e si salva il portafoglio.

Com’è la via? Sono 12 tiri per circa 400 metri di sviluppo. Lo stile è molto vario, diedri, fessure, muri a tacche, Dulfer e anche uno strano tafone tipo Corsica. Un vero campionario della scalata su granito. Una chicca per gli appassionati del genere, da non perdere anche da un punto di vista estetico. Tutti i tiri, tranne uno di trasferimento, necessitano di un buon livello medio. Soste comode.

Cosa non è? Non è una alpinata come suggerirebbe l’età degli apritori, vecchie cariatidi. Non ci interessano le operazioni nostalgia, o almeno non ancora. Ci interessa sperimentare cose nuove, è dunque una via curata nei dettagli su una grande parete, in un’ottica moderna.

E l’avvicinamento?
Noaschetta è nell’immaginario un luogo di grandi c.. Sfatiamo anche questo luogo comune. Per raggiungere l’attacco della punta Phuc, anche il falesista nato stanco ci mette poco più di un’ora dal rifugio di Noaschetta, che si raggiunge in tre quarti d’ora dalle macchine. Per darvi un metro di paragone, per andare al magnifico Becco della Tribolazione in Piantonetto e scalare però quattro tiri buoni, dal rifugio ci vogliono due ore mezza e lo zoccolo insidioso. Qui per farne 12 di tiri, di cui 11 buoni, basta un’ora e un quarto dal rifugio, o due dalle auto, in parte fuori sentiero ma agevole.

Da chi è stata aperta? Da Andrea Giorda e diversi compagni, in primis Mario Ogliengo, storico socio di apertura nel 1982 sul Nautilus al Sergent e su Aldebaran al Monte Castello. Speriamo che la nuova nata mantenga la fiducia e goda dello stesso successo, ci teniamo alla reputazione. Inoltre hanno partecipato il fortissimo Michele Amadio e due giovani e promettenti leve della Scuola Gervasutti, Filippo Ghilardini e Martina Mastria.

Come è stata aperta? Dal basso ovviamente, ma i tiri e il tracciato sono stati in seguito rivisti per aumentare la bellezza dell’arrampicata, contenere l’ingaggio psicologico e l’obbligatorio. Abbiamo evitato di far portare più di una serie di friend e misure sopra il 3 BD. Ovviamente ognuno sarà libero di portare il materiale che vuole, questa è la nostra stima per uno scalatore medio.

Cosa serve? Tanta voglia di scalare e divertirsi, due corde da 60 metri, 12 rinvii e una serie di friend fino al 3 BD. La via è attrezzata a spit, ma occorre integrare dove le fessure sono evidenti e facili da proteggere.

Cosa manca? I cioccolatini alle soste e la macchina del caffè, ce ne scusiamo ma spero non sia un deterrente per non andare una buona volta a scalare a Noaschetta!

Se volete saperne di più, questo è il racconto:
Oggi 31 luglio 2016 sono al supermercato a spingere il carrello con la moglie, il 29 e il 30 mi sono giocato due buoni famiglia extra sulla punta Phuc, strappati con un’ardua negoziazione. Non posso manifestare troppo la mia felicità, occhi bassi sui detersivi, ma la mia mente ripercorre le immagini di queste due estati a tribolare come un dannato sulle pareti di Noaschetta e ora sono arrivato finalmente al termine.

Il Vallone di Noaschetta parte dai 1000 metri di Noasca e si insinua nel massiccio del Gran Paradiso per 3000 metri di dislivello fino ai 4026 metri del Roc. Un luogo di struggente bellezza, selvaggio, dove la natura alpina si manifesta in tutta la sua diversità, dai boschi di fondovalle all’altipiano di Goi dove le distese di sabbia, l’erba rada e gli acquitrini ricordano i remoti altopiani asiatici.

La storia alpinistica recente del Vallone di Noaschetta inizia nel 1971, con una via sulle remote Torri del BlancGiuir“ La via dell’esplorazione”.
Il grande esploratore è Gian Carlo Grassi, insieme a Vareno Boreatti, si proprio quel simpatico Vareno che ancora oggi, anziano e un po’ sovrappeso, con vari mezzi scala in artificiale le vie a spit delle falesie torinesi e le commenta su Gulliver!

Ma il grande assalto alle pareti di Noaschetta si ebbe alla fine degli anni 70, il gruppo di apritori che avevano fatto la fortuna della valle dell’Orco si trasferisce in massa in questo vallone vergine e per tre, quattro anni apre vie a ripetizione in una competizione sottile e mai dichiarata.
Grassi, Manera, Meneghin sfornano novità senza sosta fino alla recondita e bellissima Cresta di Prosces, sopra all’altopiano di Goi, ad oltre cinque ore almeno dal fondovalle.

In questa competizione ci infiliamo anche io e Mario Ogliengo, ignari delle pareti e dei luoghi, una mattina partiamo da Lessolo vicino a Ivrea. Prendiamo in rassegna tutte le pareti che scorrono salendo e poco prima dell’Alpe la Bruna veniamo attirati da un diedro Yosemitico.

Senza sapere nulla degli altri, decidiamo che la nostra via passerà da lì. Attacchiamo che è già tardi, placche inchiodabili attorniate da erba ci sbarrano la strada, ma con fatica e passaggi infidi su teppe erbose, raggiungiamo dopo cento metri le fessure, stupende fessure per altri 350 metri.

Quando siamo vicini alla vetta, ormai è notte e proseguiamo, ma Mario, che già allora nella vista non aveva il suo forte, si dà una tremenda martellata su una mano e casca con fragore di ferraglia nel buio. Decidiamo di fermarci su una cengia e bivaccare, non abbiamo nulla per coprirci, fa molto freddo e al mattino raggiungiamo intirizziti la vetta del Monte Castello, quella vera, e scendiamo a piedi.

Ma il bello venne in seguito, Grassi,che su Monti e Valli rivista del CAI Torino redigeva la recensione delle vie, scrisse quasi a schernirci, che i due hanno anche bivaccato (!)
In realtà Aldebaran era una via per i tempi assai audace, perché in un’epoca in cui i friend non esistevano o erano una rarità sconosciuta, avevamo scalato centinaia di metri di fessure in libera, con pochi excentric, grossi esagoni di alluminio che avevano la caratteristica di uscire appena ti alzavi un po’ e finire in fondo alla corda. Andammo oltre il settimo grado come si diceva allora (6b). Per di più eravamo partiti tardi, in giornata e il sentiero attaccava da Noasca, non da Balmarossa come ora.
Chiesi un giorno a Gian Carlo il motivo di quella severa recensione, e lui un po’ imbarazzato mi disse, Andrea non ce l’ho con te. Come a dire che era arrabbiato con Mario che aveva l’unica colpa di mettere chiodi in valle di Susa, dove Gian Carlo riteneva suo il campo di azione.

Gli screzi tra Mario e Gian Carlo sono esilaranti, Mario mi ha raccontato che una volta, attraverso Gian Piero Motti gli fece riavere dei chiodi che aveva messo su una parete. Robe passate, Grassi fu un grandissimo esploratore e una carissima persona, ma era molto geloso delle sue scoperte.

Aldebaran, per molti anni finì nell’oblio come tutte le vie di Noaschetta, fino a che nel 2005 Adriano Trombetta chiodò a spit le placche dello zoccolo. Oggi qualcuno si lamenta che sullo zoccolo Trombetta gli spit sono pochi, ma ci si dimentica che io e Mario siamo passati sui covoni d’erba in parete, provare per credere.

La chiodatura dello zoccolo, l’attrezzatura delle soste e l’aggiunta di pochi spit dove c’erano i chiodi diedero un grande slancio ad Aldebaran, ed oggi è una via di successo, la via più frequentata di Noaschetta .

Le relazioni ora consigliano due serie di friend! Averli avuti! Forse già allora era la via più moderna, privilegiando l’arrampicata libera su terreno aperto di parete. Il tempo sembra essere stato dalla nostra parte.

Insieme ad Imago aperta da Caneparo nel 1999, sono le uniche due vie che hanno frequenti ripetizioni. Altro discorso per le vie di Adriano Trombetta aperte intorno al 2005, hanno un ingaggio decisamente superiore e meriterebbero sicuramente più attenzione per bellezza e impegno.

Ci sono mille manuali in circolazione per farsi venire due braccia da panettiere, ma neanche uno che ti spieghi come non fartela addosso a due metri da uno spit su un passo obbligatorio. Da noi questo stile ha poco successo e non viene apprezzato se non da pochi locals.

Mi è successo di ripetere a tiri alterni con Adriano la sua Lui, Lei e L’altra, che nel nome spiega i suoi intrecci amorosi durante l’apertura…. Una via bellissima, su roccia stupenda, ripetuta anche recentemente dalla guida Matteo Giglio. Oggettivamente….in alcuni punti, dove il testosterone picchiava duro, i chiodi si fanno distanti ed è meglio non cadere.

La via più impegnativa di Noaschetta, sulla Sud del Castello, la Nona Sinfonia, aperta da Amadio e Trombetta aspetta da anni la prima ripetizione, eppure c’è gente che avrebbe il livello per ripeterla tranquilla e dominare l’ingaggio. A dire degli apritori alto ma non estremo.
Come fai a biasimare uno che ti dice se caschi ti fai male, è vero, ma da sempre l’arrampicata non è solo sudore ma anche testa, un gioco pericoloso al limite del razionale.

In questo quadro, nel 2015, quando ormai pensavo che mai sarei tornato ad aprire su quelle pareti, negli ozi da pensionato mi torna in mente ossessivamente quella guglia a metà della bastionata, proprio sopra al rifugio, che non sfigurerebbe tra le aiguilles del Monte Bianco.

Sono 35 anni che le passo sotto e mi chiedo com’è da vicino. L’unico che l’ha tentata è un altro grande esploratore, Ugo Manera che si fermò dopo due tiri, era troppo compatta per i chiodi, ho ritrovato ora il suo ancoraggio, un nut e un chiodo. In quel posto recondito era andato con un malcapitato allievo della Scuola Gervasutti!! Una terapia d’urto!

Ugo aveva già scalato con Meneghin la grande parete sulla sud più a valle, dove ora passa Imago, la via è una notevole prova di tenacia, che attraversa temibili tratti erbosi, in coppia erano un rullo compressore.

A volte ritornano, sì, per caso incrocio Mario Ogliengo che ora fa la guida a Chamonix, quando non traffica in case, e gli confesso timidamente il mio obiettivo. Non si fa pregare per niente e la premiata ditta come fosse ieri si ricostituisce. Il fuoco è lo stesso, la passione ci fa dimenticare che 20 anni non li abbiamo più e un giorno carichi da far paura cerchiamo di raggiungere la parete.

Andiamo quasi fino all’Arculà, ci infiliamo in un canale con neve ghiacciata di valanga, passiamo tra ghiaccio e rocce e poi traversiamo in alto e arriviamo all’attacco tardi e stremati. Vediamo subito da sotto che la parete è ostica e molto complessa, per nulla intuitiva.

Mettiamo su il primo tiro poi scendiamo, poco convinti, volevamo una via di 6a/b da far veloce, non è così. Cambiamo strategia, visto che sarà più difficile, su suggerimento di Mario decidiamo di impegnarci a fare una via poco ingaggiata, di quelle c’è n’è già tante, curando al massimo l’estetica e la logicità dei passaggi.

Tralascio le varie volte che siamo tornati e i tentativi sempre con sacchi disumani. Pian piano troviamo anche l’avvicinamento più veloce, grazie ad una miracolosa cengia dei camosci che collega i salti di roccia sottostanti, soprannominata the Thank God Ledge ….facendo il verso a quella sull’Half Dome del mio mito Royal Robbins.

La via procedeva molto faticosamente, non era per niente evidente come può apparire oggi con la linea tracciata e la roccia pulita. Abbiamo fatto anche grossi dietrofront, in particolare quando ho insistito per salire una lunga fessura che è finita su una placca liscia, senza ombra di una tacca, ci siamo dati la regola ovviamente di non fare A0 con gli spit, sarebbe stato un controsenso anche se bastavano due passi, di scavi neanche a parlarne. Siamo tornati indietro sconfortati e stanchi ma il rigore e la pazienza ci hanno poi ripagati.

Uno dei momenti più belli è stato arrivare sulla bellissima cengia in cima alla prima torre, uno spettacolo di fiori, gigli martagoni, dove abbiamo anche bivaccato per necessità ma anche per piacere.

Che dire, quest’anno Mario era spesso impegnato e mi son portato avanti grazie all’aiuto di Michele Amadio per riattrezzare tutta la via e arrivare in cima. Per due giorni abbiamo corso come dannati con i soliti sacchi pesantissimi. Ora si trattava di pulire e aggiustare la via provando a scalare i tiri.

Michele era occupato dal corso guide, i miei “buoni” famigliari scadevano a fine luglio ed ad Agosto era già stabilita la vacanza con il bambino. All’ultimo ho coinvolto due ragazzi della scuola Gervasutti, Filippo Ghilardini e Martina Mastria.

Si sono rivelati di grande tempra, per loro è stata anche una esperienza formativa, non è da tutti i giorni veder nascere una via, spero anche nel contagio della passione ovviamente. Con Filippo, ottimo compagno, abbiamo chiodato e liberato provandolo anche il tiro 10, decisamente il più duro, un muro di tacche ed equilibrio che già avevamo abbozzato con Michele. In ogni caso i passi duri si azzerano facilmente.

Bene, ora non resta che divertirvi, vediamo se ci siamo meritati la vostra fiducia, il tempo come sempre dirà se abbiamo fatto un buon lavoro, io intanto faccio finta di guardare i detersivi, mia moglie mi chiama alla cassa, sono ancora tutto rotto e domani per fare pace mi toccherà seguirla in una gitarella da 2500 metri di dislivello in giornata (!), bastasse portarla all’IKEA!

Andrea Giorda
CAAI

SCHEDA: A volte ritornano, Punta Phuc, Monte Castello




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