Uluru, la montagna sacra d'Australia e il cammino nello straordinaria Outback. Di Nicolò Guarrera

Il racconto di Nicolò Guarrera che, dopo essere partito a piedi dall'Italia nel 2020 e aver camminato 12.000 chilometri esplorando Sud America, ora si trova in Australia. Anche sulle orme di Bonatti, alla 'ricerca di un contatto con la natura straordinaria e violenta che ancora oggi domina il centro del paese.'
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Uluru in Australia, anche conosciuta come Ayers Rock
Nicolò Guarrera

C’è poco da fare nelle brevi serate che precedono il sonno. Il sole tramonta alle sei e trenta, la luce scema velocemente e nell’arco di mezz’ora il mondo è buio. Le stelle impreziosiscono il cielo, alte e irraggiungibili, mentre la luce della luna proietta un’ombra davanti alla tenda. Ci si potrebbe persino avventurare in una passeggiata notturna. Il frontalino sarebbe superfluo. Ma in Australia, nel centro del deserto rosso chiamato Outback, un passo falso sarebbe fatale. Ci sono più animali velenosi che in ogni altra parte del mondo e le distanze dai centri abitati sono talmente grandi che anche un piccolo morso sarebbe fatale. In effetti, prima di scivolare nel sacco a pelo, devo ricordare di portare le scarpe dentro la tenda, altrimenti la mattina seguente rischierei di dover combattere con qualche ragno che ha preso residenza nel loro incavo. La cerniera dell’entrata scorre rumorosa elevando una protezione fisica e mentale contro le incognite dell’oscurità.

Sono ancora le sette e se prendessi sonno mi sveglierei alle tre del mattino, con il buio, ancora troppo presto per cominciare a camminare. Gioco il mio un asso nella manica. Prima della partenza per il deserto, un amico avveduto ha mandato un e-reader dall’Italia con il quale rischiarare le ultime ore della giornata, una benedizione per ingannare i tempi morti nella tenda. Accendo il dispositivo, un piccolo schermo retroilluminato protetto da una cover in ecopelle. Uno, due, tre, la luce fioca inonda l’abitacolo. Pigio sul touchscreen scegliendo dalla schermata principale il titolo che mi sta accompagnando da una settimana: In terre lontane. La magia della scrittura apre il sipario e Walter Bonatti mette in scena le sue avventure.

Dopo la stagione di arrampicate che lo consegnarono alla leggenda, Bonatti si dedicò all’esplorazione "orizzontale", spingendosi negli angoli remoti e inesplorati della terra. Nel 1969 era in Australia, alla ricerca di un contatto con la natura straordinaria e violenta che ancora oggi domina il centro del paese. Mi ci sono avventurato anche io, con mezzi e modalità differenti, e mentre leggo i suoi resoconti mi apro a un viaggio ulteriore, un pellegrinaggio nel passato per rivivere i suoi luoghi con tempi e occhi contemporanei.

Muovo verso nord, attraversando a piedi i tremila chilometri che separano Adelaide da Darwin, il porto affacciato sull’Oceano Indiano. Tra le due città si apre l’Outback, l’immensa distesa di nulla antropico che in estate tocca i cinquanta gradi. La vegetazione è scarsa e tenace e sopravvive grazie a riserve di acque sotterranee alimentate dalla stagione delle piogge nel nord del paese. Gli animali sono ancora più rari e fatta eccezione per qualche svolazzo dei galah e piccoli gibberbird, nulla si muove. Di canguri non c’è traccia. Qualche notte, in lontananza, l’ululato dei dingo echeggia lugubre nel silenzio altrimenti perfetto.

Un paio di volte li sento arrivare a pochi passi dalla tenda, forse incuriositi dalla mia insolita presenza. Protetto dalla tenda, libero la zip dell’entrata, separando le reti interna ed esterna in modo da poter sbirciare di fuori. La vicinanza con animali liberi, in un ambiente sconfinato e solitario come il deserto, regala una sensazione potente di immediatezza rispetto alla vita. Essi sono autentici, originari, in altre parole, veri. La concentrazione è intensa, i secondi rallentano e sembra che il mondo stesso stia trattenendo il respiro per assistere allo spettacolo. Disteso sulla pancia, immobile, osservo le ombre farsi solide e annusare circospette un oggetto a loro insolito: Ezio, il mio passeggino. Il contatto visivo e uditivo con i dingo, nella penombra della luna, restituisce un’impressione commovente. Questa è la forma più pura di meditazione: essere e vivere esclusivamente in un momento, immersi nella sua contemplazione.

ULURU, MONTAGNA SACRA
La maggioranza della sere, tuttavia, regala un’emozione diversa, contenuta. È quella del viaggio letterario, sulle orme del Bonatti che scopriva le meraviglie del Red Center muovendo da nord, in direzione opposta rispetto al mio senso di marcia. Incrociamo i nostri cammini a Uluru, il monolite rosso sacro agli Aborigeni australiani.

Per raggiungerlo compio una deviazione di settecento chilometri, posticipando di tre settimane l’arrivo al punto di rifornimento. Ma ne vale la pena, tutto il percorso in Australia ruota attorno a questo momento. Uluru è il cuore pulsante del deserto e il cammino avrebbe toccato il punto più profondo solamente alle sue pendici. Il suo fascino irresistibile venne descritto da Bonatti come "Senso di grandiosità che da lontano impressiona e da vicino sgomenta. È una bellezza uscita da un sogno e le sue proporzioni da incubo sono il riassunto di un infinito isolamento."

Uluru rappresenta il culmine del cammino. Attorno alla montagna, alta alcune centinaia di metri e larga tre chilometri, il deserto appiattisce l’orizzonte fin dove lo sguardo può spingersi. Solitarie e distanti si ergono maestose le "Magiche cupole" di Katatjuta, unica eccezione a una landa altrimenti priva di rilievi in cui il "Travolgente spazio rende impossibile valutare distanze e stabilire proporzioni".

Il monolite custodisce i miti degli Aborigeni da trentamila anni, ossia da quando gli Anangu, la popolazione che conosce e vive queste terre, vi stabilirono un contatto. Le storie incise nella pietra risalgono al Tjukurrpa, il tempo della creazione in cui gli Antenati formarono la terra e insegnarono agli uomini ciò che dovevano sapere per sopravvivere all’ambiente ostile dell’Outback. Gli Anangu popolarono le fenditure di dei zoomorfi: Kunyia, la donna pitone, e Lyru, l’uomo lucertola dalla natura menzognera, assieme a centinaia d’altri noti soltanto agli iniziati. I racconti delle loro vite e gesta formarono la morale sulla quale gli Aborigeni basano la loro esistenza individuale e i rapporti sociali, ben prima che qualsiasi civiltà strutturata o religione facessero la loro comparsa nella Storia.

Tuttavia, la montagna parla una lingua dalla quale siamo esclusi per nascita. Come un libro di cui possiamo apprezzare la copertina e la grafia elegante senza tuttavia poterne leggere le parole, così Uluru racconta leggende impossibili da comprendere, enigmi impenetrabili racchiusi in un uovo adamantino. Il suo sapore è quello del migliore tra i vini: immediatamente se ne apprezzano le note floreali, gli aromi strutturati e la sapidità. Di quali profumi o come si chiamino le corolle, non ci è tuttavia dato sapere. La montagna esercita il fascino della conoscenza ineffabile, scritta da battaglie di entità immortali in un alfabeto irriconoscibile.

Si rimane con il colpo d’occhio sul teatro di roccia viva, ove lingue oscure, indizio di piogge rare e violente, serpeggiano dall’orlo superiore giù fino al suolo. Domata dal tempo, l’acqua si allarga in anfratti sicuri e freschi che biancheggiano per i tronchi di eucalipto. Dita ossute si protendono sulle loro chiome, come a volerle ghermire; o si tratta forse delle vestigia dimenticate di un’era conclusa, nella quale Uluru tentò di ancorarsi al suolo e diventare sede sicura di uomini e miti? Rughe vecchie centinaia di milioni di anni increspano ciascuno dei volti sui quali mi soffermo a mano a mano che percorro la base del monolito. I solchi diventano scanalature che dividono lastroni imponenti; voragini aliene nascondono alveari di pietra e un marasma di onde, lamelle, grotte e crateri dalle forme bizzarre. Ciascuno di essi racconta una storia, ma anche se il libro è aperto e il vino stappato, la sete di conoscenza rimane insoddisfatta. Il sipario rimane chiuso, il palcoscenico muto. Alla fine, dopo averne ammirato l’architettura sublime, me ne vado pensoso, sapendo che l’opera non andrà mai in scena.

Dai tempi di Bonatti sono cambiate parecchie cose. L’esploratore annotava che "Attualmente, non un indigeno vive da queste parti". Oggi, seppur non si possa dire che l’integrazione con l’occidente sia compiuta, una comunità Anangu si è ristabilita nei pressi della loro Gerusalemme, a fianco del villaggio di Yulara, tappa obbligata per mettere in pausa le centinaia di chilometri che separano Uluru dal resto del mondo. L’esploratore, naturalmente, volle scalarlo; ora non è più possibile, a causa di alcuni decessi avvenuti per disidratazione e caduta durante l’ascesa. Uluru, infine, è una montagna sacra: salire la cima è una mancanza di rispetto per i nativi.

DENTRO IL KING’S CANYON
Ritorno sulle orme di Bonatti trecento chilometri dopo, nei pressi del King's Canyon. Si tratta della maggiore tra le gole della cordigliera McDonnel, la bassa catena montuosa che si allunga longitudinalmente rispetto ad Alice Springs, capitale del deserto e punto di approvvigionamento. Tra la gente locale, la tribù dei Matutjara, il luogo è conosciuto come Watarrka. Fu un altro esploratore, Ernest Giles, a ribattezzarlo per omaggiare il re dell’impero britannico.

Il canyon rappresenta un tesoro di inestimabile valore perché protegge piante risalenti al Miocene (da 20 a 5 milioni di anni fa), quando il centro dell’Australia albergava un mare interno. L’incanto di un eden scampato alla desertificazione è reso ancor più suggestivo da un trekking di venticinque chilometri che s’inerpica lungo il crinale meridionale della cordigliera. I pannelli informativi del Parco Nazionale raccontano che il sentiero ricalca il percorso seguito da Giles nel 1872, quando l’esploratore era alla disperata ricerca di acqua per proseguire il suo viaggio nel Red Center.

La traccia parte da Kathleen Spring, una polla d’acqua che raccoglie le scarse precipitazioni provenienti da nord. Le pietre che la sovrastano sono gonfie come i braccioli dei divani imbottiti - divani di giganti, s’intende - mentre la superficie è nera e liscia dove fluisce lo specchio liquido della cascata. Il crinale ha larghezza ridotta, dunque perdersi è impossibile; tuttavia, siccome si cammina sull’arenaria compatta, per orientarsi servono pazienza e buon occhio, prestando attenzione ai rami spezzati e ai cespugli calpestati da chi ci ha preceduto.

L’acqua è scarsa, non c’è segnale e le persone che si avventurano sul Giles Track - questo il nome del trekking - sono poche: non ho incontrato nessuno nei due giorni in cui sono andato. È fondamentale partire con tutto il necessario sulle spalle. Ci sono un paio di campeggi informali a metà percorso, letti di pietra situati in un avvallamento scavato da un corso d’acqua. Nella stagione invernale (maggio-settembre) il ruscello riprende a scorrere, assicurando una fonte di acqua pulita.

Il cammino offre sin da subito la suggestione di una natura unica e vengo catturato dal rosso sanguigno della Holly grevillea, un fiore boccoluto con le estremità dei petali incurvate a forma di goccia, d’un nero brillante dai riflessi luminosi. Sembrano il negativo degli occhi, con i colori di pupille e sclera invertiti in uno specchio. C’è un fiore che ricorda le nostre margherite: bianca la corolla, al centro un sole. Ma il disegno è estremamente complesso, pare che i petali siano stati lavorati a uncinetto e il cuore dorato è un prezioso ricamo in macramè dagli infiniti ghirigori. La trama si ispessisce verso l’interno e il disegno rotondo e frastagliato acquisisce spessore portandosi verso il centro. Ve ne sono altri dalle forme bizzarre, di cui ignoro il nome, che paiono spolverini per pipa.

LE CUPOLE
Un’altra meraviglia si manifesta all’alba del secondo giorno, quando si raggiungono le cupole tondeggianti che precedono il King’s Canyon. Si trovano alla destra del senso di marcia, come le prime luci del mattino; e l’aurora ne fa spettacolo.

Duomi, torri e bastioni di terracotta popolano le superfici del pianoro. Uno scalpello dalle dimensioni titaniche, invisibile, fatto di aria e acqua, ha scavato la terra per milioni di anni fino a estrarne templi vorticosi e sistemi di stupe. Per avvicinarsi bisogna camminare su scarpate violente e cenge strette, scavalcando crepe vertiginose e fiancheggiando lunghe grotte scavate con pazienza. Ci sono tutte le sfumature di giallo, arancio e marrone, e persino qualche rosso. Nero e verde sono indizi di acqua, dunque vita. V’è bianca sabbia, evanescente; altrove il colore si compatta nei tronchi degli alberi immobili, infissi nelle crepe delle rocce, e da lontano paiono sorgenti di acqua schiumosa. Sopra di esse, sulla sommità delle pareti, la vegetazione è piegata dal vento che lì appresso ha scolpito la dura roccia. Lascia a bocca aperta il sontuoso splendore dei templi di arenaria, cupole di una città eterna. Agli occhi della memoria si presenta vivido il paragone con i duomi della Cappadocia, tuttavia il colore è quello rossoarancio dei luoghi sacri nella Cambogia.

Alcuni bestioni sembrano scorze di pane bruciato, i bordi anneriti dove la sporgenza è marcata ed esposta alla furia degli elementi. L’immaginazione trasforma le formazioni dal profilo allungato in code di drago e serpenti dalle scaglie grandi quanto un uomo. L’impatto visivo è persino più forte rispetto a quello offerto da Uluru.

L’ETERNO RITORNO
Scendo finalmente l’ultimo crinale, tornando al suolo con corpo e fantasia. Assaporo lentamente le immagini raccolte. La sera le annoto sul diario, affinché gli eventi dei giorni successivi non le portino via. Due settimane dopo raggiungo Alice Springs, dove finalmente posso fare la spesa. Dentro al supermercato, rimango a bocca aperta per l’abbondanza e la diversità del cibo. I frigoriferi traboccano di leccornie spandendo aria fresca dalle ante spalancate, e piramidi di frutta lucente ammiccano da cesti di vimini intrecciati. Sono passati due mesi e duemila chilometri da quando ho lasciato l’ultima città e davanti a tutta quell’abbondanza la mente va in corto circuito per qualche istante. Riempio Ezio, il passeggino nel quale porto tutto ciò di cui ho bisogno, di provviste, abbastanza per il prossimo mese di marcia, l’ultimo prima di arrivare a Darwin e completare l’attraversamento del deserto.

Sembra fuori luogo se scrivo che sono contento di tornare alla desolazione? Bonatti riesce a spiegare questa sensazione con la semplicità di un uomo che è riuscito ad abbracciare l’essenziale: "Perché questa scelta di vita? Credo sia il modo migliore per conoscermi, per meglio dialogare con me stesso e misurarmi in rapporto alle decisioni prese e alle cose compiute (…) Desidero vivere un’esperienza in una natura straordinaria, essere nella disposizione fisica e spirituale per recepirla e assimilarla fino ad arrivare a farne parte".

Camminare in solitudine per settimane e poi mesi, dà la possibilità di riconnettersi a una parte dimenticata dell’essere umano che però ancora vive dentro di noi. È la sensibilità, il dono più bello che abbiamo e per il quale la corolla di un fiore, l’impassibilità di una montagna o la forma di una roccia, diventano amore, ragione di vita, e forse anche la voce di Dio.

di Nicolò Guarrera

Link: IG Nicolò Guarrera, Ferrino




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