I Fantasmi del Denali: Simon McCartney e i Giorni del Passato
Sono convinto che ciò che spinge a leggere i volumi che raccontano di alpinismo, i récit d'ascension, non siano né i particolari tecnici delle difficoltà incontrate né il valore dell’impegno messo in una salita. Per questi, basta e avanza la così detta “relazione”, così come per una partita di calcio o un altro evento sportivo ciò che da il senso all’evento è il risultato raggiunto, la vittoria agguantata o la sconfitta subita. Quello che invece riesce a condurre pagina dopo pagina i lettori attraverso vite, giorni e ore spesi fra le pareti di montagne vicine o lontane è ben altro. E’ il succedersi di emozioni, di passioni di sentimenti vissuti e provati, che il lungo scorrere del tempo necessario per l’azione alpinistica ha permesso di interiorizzare. La fortuna che abbiamo nell’andare in montagna, nell’arrampicare, nel salire pendii con gli sci ai piedi o nel percorrere valloni e catene montuose a piedi, è infatti l’opportunità di godere del tempo. La nostra azione non è mai istantanea, come un dribbling o uno scambio di battute a tennis, ma gode di un prolungarsi che a volte sembra addirittura non aver mai fine. E’ la scansione temporale differente data dei grandi spazi, che sono quelli della montagna ma anche della vastità del mare o dei deserti, dove l’ambiente e l’azione hanno agio a fondersi in una nuova dimensione in cui la mente ha per sé tutto il tempo della riflessione.
Simon McCartney ha goduto doppiamente di questa fortuna. La prima volta fu quando compì le sue salite più rilevanti, quella della parete Nord del Mount Huntington in Alaska e quella ancora più difficile sulla parete Sud Ovest del Denali, la montagna più alta del Nord America e su cui quasi perse la vita. La seconda quando, a distanza di trent’anni, ritornò a guardare quel passato che pensava di aver sepolto e dimenticato ma con cui non aveva mai veramente fatto i conti. Trent’anni sono quasi un’esistenza e, in alcuni luoghi, questo lasso di tempo realmente ancora corrisponde all’aspettativa di vita di un uomo. Tempo per pensare quindi Simon ne ha avuto. Tempo ben speso verrebbe da dire, visto che il volume dal titolo “IL LEGAME” e che raccoglie le vicende di quegli anni lontani credo sia uno dei migliori libri di alpinismo mai scritti. Non per nulla, nel 2016, questo lavoro ha vinto sia il premio per la letteratura di montagna Boardman Tasker che il Banff, due dei concorsi letterari più prestigiosi in questo ambito. La narrazione coinvolge il lettore portandolo sulle pareti in cui sono ambientate le vicende, in un racconto dove, pagina dopo pagina, prende sempre corpo più quel legame che si costruisce fra gli esseri umani quando le loro anime si presentano le une alle altre senza paraventi o altri artifizi che possano nasconderne la vera essenza. Le emozioni vissute, il dramma del rischiare la vita durante un’ascensione, la difficoltà in chi decide di prestare aiuto abbandonando le certezze di un ritorno a valle sicuro per dei rischi maggiori, sono la rete di passioni che prende il lettore e lo accompagna fino all’ultima pagina. E’ stata una fortuna per me, dopo aver apprezzato questo lavoro ed esserne stato preso, aver potuto intervistare Simon McCartney.
A.: Cosa è cambiato in questi trent’anni?
Simon: Si può dire che il Simon di quel periodo sia davvero un’altra persona rispetto al Simon di oggi. Alla fine di quell’avventura è come se fossi rinato. Ho provato a scrivere con la voce che avevo in quegli anni. Il mio DNA è lo stesso, ma a vent’anni si parla e si pensa in modo diverso che a cinquanta o sessanta. Scrivere “Il Legame” è stato come rinascere ancora una volta. Dopo quelle vicende, quando ho capito che non avrei più scalato, sono stato male. L’alpinismo mi ha definito come persona e dopo, senza, mi sentivo perso. Ho portato dentro di me quel rimpianto per anni, fino a quando ho trovato altri modi di vivere quelle emozioni. Al principio è stato praticando immersioni subacquee speleologiche: un modo per reprimere quel desiderio. Solo negli ultimi tre anni ho compreso pienamente la mia ossessione e ora posso dire di essere in pace. Anche perché scrivere il libro, mi ha aiutato in questo percorso. Dopo l’avventura sul Denali, non avevo deciso immediatamente di rinunciare all’alpinismo. Fisicamente ero un disastro: era già molto per me riuscire a compiere una semplice escursione. Il polso destro risentiva ancora della rottura, avevo altri problemi fisici e non mi ero potuto allenare per un anno. Quindi ho avuto tutto il tempo per pensare all’alpinismo, o per meglio dire per “non pensare”. Incontrai di nuovo Jack Roberts, il mio compagno di cordata nelle salite sull’Huntington e sul Denali, a Londra nell’81. Non ci eravamo più visti dopo esserci lasciati all’ospedale di Anchorage. Fu bello rivedersi, ma fu un incontro venato di tristezza: per tutti e due era evidente che non avremmo più avuto un avventura insieme. All’epoca poi lo avevo mal giudicato: pensavo che lui volesse per la salita successiva qualcosa di ancora più impegnativo del Denali. Jack teneva per sé le sue emozioni e solo più avanti, scrivendo “Il Legame”, lessi i suoi diari e arrivai a capirlo. All’epoca pensavo che volesse continuare sulla stessa strada, intraprendere un nuovo progetto più impegnativo di quello della parete Sud Ovest del Denali. Qualcosa in cui sarebbe stato ancora più difficile sopravvivere. Così mi posi la vecchia domanda: “Perché arrampichi?” Ognuno di noi ha una risposta: la seduzione che esercitano le vette porta a molte differenti conclusioni. Per me erano il cameratismo fra compagni di cordata, la forza della natura in cui si è immersi, i ricordi di mio padre che mi portava a camminare sulle colline scozzesi, il legame che si crea fra gli alpinisti, tutto questo era parte della mia dipendenza, ma qualcos’altro era la droga più forte che mi spingeva: il mio ego.
Andavo per dimostrare qualcosa a me stesso e ai miei coetanei. Ogni avventura doveva essere un gradino sopra la precedente. La mia stagione alpinistica del ’79 è stata come scavare alla base di questa dipendenza. Così, se nel 1977 le salite fatte con Dave Wilkinson mi avevano aperto gli occhi, scalare la parete Nord del Mount Huntington nel ’78 con Jack fu una rivelazione. L’ossessione di salire l’Eiger in inverno la portavo dentro di me da quando lessi “The White Spider” di Heinrich Harrer, un’ossessione comune a molti altri, Joe Simpson ad esempio. Il Denali, nel 1980, fu un lancio di dadi più rischioso del precedente Huntington. Ero guidato dalla ricerca dell’obiettivo sempre più grande, cosa che in alpinismo impone anche un aumento di impegno e soprattutto dei rischi. In Jack trovai il compagno perfetto: ci fidavamo totalmente uno dell’altro. Il Denali mi dette invece una sonora lezione. Se non avessi avuto un edema cerebrale, Jack ed io saremmo saliti in vetta insieme e poi scesi tranquillamente per il contrafforte occidentale. Quindi avremmo aumentato la posta in gioco e il nostro obiettivo successivo ci avrebbe portato in Himalaya, dove probabilmente saremmo stati uccisi. Quando ho smesso di arrampicare fu per molte ragioni, non ultima la mia paura per il futuro anche del mio compagno. Dopo il mio trasferimento in Australia, lo persi “accidentalmente” di vista. Provai a cercarlo, all’epoca bisogna tener presente che non c’era ancora internet, e alla fine smisi: troppo forte la paura di scoprirlo morto. Passarono 32 anni, cessai completamente di scalare. Quando, dopo tutto questo tempo, cercai nuovamente Jack scoprii che effettivamente era morto arrampicando. Erano passate solo due settimane dal suo decesso del 2012.
Iniziai a scrivere il libro in una tempesta di emozioni: fu catartico farlo. Sono anche contento di come questo lavoro abbia aiutato tutti i sopravvissuti a quei giorni. Pam, la moglie di Jack ha potuto vedere i risultati raggiunti del marito in una prospettiva finalmente vera. Bob Kandiko e Mike Helms sono stati riconosciuti come gli eroi che sono stati e con Mike Pantelich, uno degli alpinisti che contribuirono al soccorso, abbiamo preso a vederci regolarmente. Anche il sottoscritto è stato accolto dalla comunità alpinistica in un modo che non mi aspettavo e questo mi ha portato ad avere nuovi amici. Così Mark Westman, Tom Hornbein, Jack Tackle, Joe Brown, Jim Perrin si sono aggiunti ai miei vecchi amici sopravvissuti a quei tempi ora lontani. Purtroppo in questi non sono compresi Joe Tasker e Pete Boardman. Conoscevo Pete e con Joe ho arrampicato in Galles. Sì, scrivere “Il Legame” per me è stato veramente come rinascere.
A.: Una rinascita: un po’ come dire che due persone differenti hanno condiviso lo stesso corpo in momenti diversi. Quali sono le differenze fra questi due uomini, fra il Simon di oggi e il giovane che eri? Sei davvero due persone differenti. Cosa è simile e cosa, al contrario, non esiste più o è completamente diverso?
Simon: Alcuni tratti credo siano insiti nel DNA: l’assunzione di rischi è uno di questi. Se non ci fosse stato pericolo nell’arrampicata che praticavo non avrebbe potuto creare dipendenza in me. In Australia nell’82, dopo che il mio polso era guarito ripresi un po’ ad arrampicare. L’idea era capire se ancora potevo farlo. Se non sbaglio feci a vista un 5.10 o qualcosa del genere. Eppure non ne fui soddisfatto. Arrampicare su roccia secondo la mia visione era funzionale alla preparazione per grandi vie di montagna: quindi era oramai inutile. Mi annoiai quel giorno in falesia sulle Blue Mountain a ovest di Sidney. Guardavo due ragazzi dare tutto se stessi mentre arrampicavano. Avevano poco materiale, così regalai loro tutta la mia attrezzatura. Ne avevano bisogno più di me: avresti dovuto vedere le loro facce! Iniziai poi a fare immersioni in grotta alla fine degli anni ’80, anche questa una attività estrema. Mi fermai perché capii che stavo incoraggiando altri giovani speleologi a seguirmi e temevo per loro. Ho volato poi con il deltaplano e partecipato a regate di yacht. Vado a vela ancora adesso, un’attività che fa emergere la stessa competitività che avevo da scalatore. In definitiva penso di essere lo stesso di allora, solo più vecchio. Il giovane Simon era sfacciato e sconsiderato. Un individuo arrogante e determinato. Spero che gli altri siano d’accordo sul fatto che sono migliorato con l’età. Sento di essere più premuroso, persino generoso. Sicuramente ancora non paziente. Quando ho acquistato la mia proprietà di campagna in Australia, sono diventato vigile del fuoco volontario. Ho combattuto molti incendi ed è stata una sensazione meravigliosa salvare casa a una famiglia o una fattoria dalla distruzione o aiutare a salvare le vittime di un incidente automobilistico. Devo essere onesto: l’elemento di pericolo ha reso tutto questo ancora più interessante. Quello che è completamente scomparso dalla mia vita è il desiderio di legarmi in cordata per arrampicare. Ho avuto molti inviti da alcuni grandi e famosi alpinisti, ma non riesco a vedere il piacere nel constatare il mio livello attuale quando riesco a ricordare esattamente quello di cui ero capace da giovane. La mia arrampicata fra il ’76 e l’80 è stata una progressione di rischio e ambizione. Dopo il Denali non potevo immaginare un traguardo più alto rispetto a quella salita sulla parete Sud-Ovest, compresa tutta la sofferenza e l’epica della discesa. Qualcosa di più sarebbe stato fatale certamente. Anche se mi piaceva il pericolo, non ero un suicida o abbastanza stupido da iniziare una scalata senza credere di poter sopravvivere. Il danno psicologico ricevuto dalla salita al Denali fu altissimo. Jack dovette prendere una decisione terribile lasciandomi e, anche se la cosa funzionò, segnò le nostre vite. Questo danno ha un nome: si chiama “disturbo da stress post-traumatico”. Fu per questo che lasciai: tristemente l’incantesimo con l’alpinismo si era rotto. Come ogni tossicodipendente, ebbi la mia crisi di astinenza che portò con sé effetti collaterali: non c’è nulla di buono in un abbandono. Come non fu facile prendere coscienza che andavo in montagna non per divertirmi davvero, quanto per dimostrare qualcosa.
A. : Dopo trent'anni sei tornato a guardare di nuovo al panorama dell'alpinismo mondiale. Quali sono state le differenze che più ti hanno colpito tra la situazione attuale e il tuo vecchio modo di vivere questa attività?
Simon: E’ una domanda pericolosa. L’arrampicata è cambiata totalmente. Per me è stato come entrare in coma e svegliarmi anni dopo in un altro mondo. Il numero di quelli che arrampicavano era cresciuto enormemente: prima eravamo veramente in pochi. L’alpinismo estremo (o forse dovrei dire “esplorativo”) all’epoca era uno stile di vita, non uno sport. Oggi c’è molta più sponsorizzazione. Salivamo per stupire noi stessi e gli altri, non gli sponsor. Ciò che invece è meraviglioso è che l’alpinismo non è più un’attività maschile al 99% come invece era. Quello che invece mi confonde ora è l’estremo livello di specializzazione: nel 1980 ero solo un alpinista e facevo ogni tipo di arrampicata. Adesso c’è chi si definisce solo un “ice climber”, un “alpinista di misto”, un “boulder”. Sono cresciuto nel Regno Unito quando c’era solo arrampicata “trad”, prima che ci fosse il bisogno di chiamarla così. Poi, all’epoca non esisteva ancora l’arrampicata sportiva. Per noi era impensabile salire una via seguendo una linea di protezioni fisse. Così ora mi sento un po’ come il padre di Homer Simpson, quando dice: “Ai miei tempi…”
A.: Indubbiamente le salite che tu e Jack Roberts avete fatto, la via sulla parete nord del Monte Huntington e la scalata ancora più difficile del muro sud-ovest di Denali (entrambe ancora non ripetute), sono state un punto importante nella storia dell'alpinismo in stile alpino. Un punto importante, quanto poco conosciuto: lo stile alpino in quegli anni si imponeva come un modo nuovo e visionario di affrontare le grandi pareti. Una strada lontana dalle grandi spedizioni in stile militare e con chilometri di corde fisse. Eppure i vostri risultati sono rimasti praticamente sconosciuti. Come mai tu e Jack non vi siete presi cura della diffusione di queste realizzazioni?
Simon: In primo luogo, a nessuno di noi due è mai venuto in mente di salire in altro modo che non fosse lo stile alpino. Non stavamo cercando di essere pionieri di proposito. Semplicemente non abbiamo mai considerato altri modi. La nostra idea era quella di salire nello stesso modo in cui salivamo sulle Alpi. Se poi Jack ed io abbiamo parlato poco delle nostre salite fu per molte ragioni. Al principio eravamo solo dei sopravvissuti. Mentre stavamo in ospedale, per me era chiaro che Jack era profondamente scosso per quello che era successo, per avermi dovuto abbandonare. Il fatto che lo comprendessi non lo ha aiutato molto. L’esperienza lo deprimeva così tanto che ci separammo. Poi, alcuni alpinisti iniziarono a criticare Jack e questo fu disgustoso e profondamente ingiusto. In ogni caso il risultato fu che nessuno dei due parlò della nostra storia.
A.: La cosa più sorprendente del tuo libro è l'assoluta sincerità con cui narri i fatti e in particolare il modo in cui racconti le emozioni, i sentimenti e i pensieri che si sono agitati in te, in Jack e in quelli che poi hanno partecipato al tuo salvataggio su Denali . Quello che mi è apprezzato di più è che non c'è mai compiacimento in quello che dici. Non è mai un'elegia, ma un sincero mettere a nudo la propria anima. Forse è stata una delle cose che più mi ha ricordato gli scritti di Boardman e Tasker (e non per niente il tuo libro ha vinto il premio che porta il loro nome). Ti è costato entrare in questo stile di storia?
Simon: Quando ho iniziato a scrivere quello che è diventato Il Legame, ero emozionato. Una valanga di ricordi che cresceva. Non avevo mai scritto un libro prima, quindi non avevo un piano tecnico, ho semplicemente annotato quello che ricordavo di aver provato. È logico essere onesti con se stessi e ho trovato che fosse il modo più semplice per raccontare la storia, solo quello che era successo e come ci eravamo sentiti, buoni o cattivi. Ho poi avuto il beneficio di tutte poter consultare i diari di Jack e Bob Kandiko. Erano molto onesti. Per la prima volta potevo sapere davvero cosa avevano veramente pensato in quel momento. Mi è costato? No, ha aiutato a guarire alcune ferite a essere onesti.
A.: Hai qualche rimpianto per quei giorni e quei momenti? Se ne avessi il potere, cambieresti qualcosa?
Simon: Vorrei essere rimasto in contatto con il mio amico Jack e averlo ritrovato vivo. Mi pento ogni giorno di quei trent’anni senza sue notizie e senza aver detto quanto il legame fra noi due fosse importante per me.