Tibet per la giustizia e la verità
Una riflessione di Manuel Lugli, alpinista e organizzatore di trekking e spedizione, sulla situazione tibetana dopo i gravissimi fatti di questi ultimi giorni a Lhasa e in Tibet.
Continua e non sembra aver tregua la sofferenza del popolo tibetano. Continua e non sembra avere sbocchi il braccio di ferro imposto dal Governo cinese per affermare con la repressione il suo dominio sul Tibet, terra che, è bene ricordarlo ogni volta, è stata invasa dalla Cina nel 1949.
“L'unica arma, l'unica forza è la giustizia, la Verità” questa è ancora una volta l’indicazione del Dalai Lama ai tibetani (www.repubblica.it). Un’indicazione forte e chiara che come sempre persegue la strada della non violenza e che si associa all’altra, rilasciata in queste ore dalla massima guida spirituale buddista, circa la volontà di “dimettersi” se continuano le violenze in Tibet.
L’unica arma e l’unica forza… L’occidente e tutto il mondo civile hanno il dovere di non essere inerti, di non stare a guardare e di riconoscere e battersi per la verità e la giustizia. E anche noi alpinisti, che tanto abbiamo sognato e ricevuto da quella terra e quelle montagne, abbiamo l’obbligo di non far finta di nulla. E non solo perché le autorità cinesi hanno “temporaneamente sospeso” i permessi per l’Everest, il Cho Oyu e (ora) anche lo Shisha Pangma ma – come scrive Manuel Lugli – per non abbondare il popolo tibetano.
Tutto già visto
di Manuel Lugli
Tutto già visto, purtroppo, fin dall’invasione del 1949, la dura repressione del 1959 e le proteste del 1988 e 1989. Le devastazioni, il genocidio culturale e “fisico”, gli arresti, le torture, le violenze; la disinformazione pilotata, l’isolamento e la repressione, l’infiltrazione di agenti provocatori, le delazioni, il silenzio e l’indifferenza dell’occidente impegnato a far sempre più affari con la Cina; la non violenza del Dalai Lama e la sua pluridecennale ricerca di un dialogo con Pechino.
Ma ci sono due elementi nuovi in quest’ondata di ribellione dei tibetani così intensa e repentina – e forse persino inaspettata dai cinesi stessi, a giudicare dal ritardo con cui è partita la reazione ai primi disordini.
Uno eclatante, noto a tutti ed irripetibile: le Olimpiadi ormai prossime, occasione importante per i tibetani per riportare in evidenza, in tutta la sua complessità e tragicità, la questione tibetana. Soprattutto dopo la decisione lucidamente folle del governo cinese di blindare l’Everest prima, e poi il Tibet tutto, per consentire alla propria spedizione “alpinolimpica” di compiere la Grande Impresa della Fiaccola Ardente senza troppi occhi tra i piedi.
Purtroppo però, che ai cinesi piaccia o meno, il mondo conosce da anni la politica repressiva che Pechino ha sempre usato nei confronti del Tibet e non saranno certo le Olimpiadi, per quanto sfarzose e blindate, a cambiare la percezione dei fatti e a far identificare la Cina come un grande, luminoso faro di civiltà. Così come non lo possono i soliti, lugubri comunicati sulle responsabilità della “cricca del Dalai Lama”, motore, secondo Pechino, di ogni azione anti-cinese.
Sono parole che sanno di decrepito, di ammuffito, parole che rivelano tutto il vecchiume e l’arroganza di un partito-governo che continua ad usare il linguaggio marcito della propaganda maoista da una parte, per perseguire il più bieco e spietato capitalismo dall’altra. E proprio su quest’ultimo terreno è piantata e si nutre la prudenza mirata della quasi totalità dei paesi occidentali, Italia inclusa.
I quali paesi, negli ultimi dieci anni, hanno contribuito in maniera decisiva a portare la Cina ad essere la seconda potenza economica del mondo dopo (per ora) gli Stati Uniti.
Personalmente, non molto tempo fa, sono stato a Pechino per due volte a distanza di un anno. Mentre mi avvicinavo alla città dall’aeroporto la seconda volta, stentavo a riconoscere quella selva di grattacieli che solo un anno prima era campagna.
Allo stesso modo ho faticato a riconoscere la periferia di Lhasa lo scorso anno, dopo essere stato un paio di stagioni senza andarci. Il modello di sviluppo è lo stesso: una crescita metastatica di edifici-strade-piazze applicata ad un territorio, il Tibet, che è l’esatto opposto, perché fatto di grandi spazi, per popolazioni nomadi. Ed è la velocità di questa crescita a stupire di più, a Pechino come a Lhasa.
L’altro elemento che, mi pare, sia emerso, è un certo grado – crescente - di insofferenza nei confronti della politica del Dalai Lama sulla questione tibetana: una ricerca di dialogo ad oltranza, di attesa di un segnale distensivo, di una buona volontà che da Pechino, purtroppo, non è mai arrivata. Non è una novità assoluta; una certa quota di dissidenti tibetani ha sempre considerato la lotta, lo scontro diretto con i cinesi – l’insurrezione – l’unica possibilità di liberazione dall’oppressione cinese, in deciso contrasto con il leader spirituale.
Ma in questi giorni, a guardare la violenza e l’estensione della protesta, che ha coinvolto non solo Lhasa, ma anche provincie vicine, come il Sichuan o il Gansu (con morti e feriti), provincie che hanno una forte presenza di tibetani, è sembrato di cogliere un segnale più forte, di totale esasperazione. Certo sua Santità mantiene la sua posizione storica: “la gazzella non batte il leone”, dice, occorre dialogo e pazienza, la violenza genera solo altra violenza.
E non è certo un caso che il Dalai Lama stesso abbia minacciato le sue “dimissioni”, se la situazione dovesse degenerare, per la violenza dei cinesi, ma anche dei suoi stessi tibetani. Cosa voglia dire per questi ultimi “perdere” ufficialmente il loro leader spirituale non si sa bene, ma potrebbe essere la scintilla che accende qualcosa di molto più serio di quanto finora accaduto.
I tibetani non hanno avuto finora un leader, un uomo carismatico interno al Tibet che potesse catalizzare la protesta verso forme più organizzate ed è stata da una parte una debolezza, ma dall’altra – come faceva notare la rivista Limes – una piccola forza, dovendo in questo modo le forze militari e di polizia cercare di reprimere focolai di protesta più spontanei e diffusi e quindi meno controllabili di un vero e proprio “esercito di liberazione”.
Certo è difficile pensare che gruppi spontanei di resistenti tibetani possano tenere testa a migliaia di militari cinesi armati – che pare stiano convergendo sulla capitale del Tibet. Anzi, i rastrellamenti casa per casa delle ultime ore e gli arresti di massa, hanno già dimostrato quale piega stia prendendo la protesta dei tibetani. Ma in questi giorni sono per lo meno riusciti nell’intento di suscitare proteste e solidarietà in tutto il mondo, sono riusciti in qualche modo a graffiare quella patina di “civiltà” che con le Olimpiadi la Cina cercava di stendere sulla propria immagine. Chiunque di noi guarderà i Giochi Olimpici il prossimo agosto, non potrà fare a meno di pensare a ciò che è successo in questi giorni.
Boicottare o non boicottare? E’ questo il dilemma. A parte che non è certo un dilemma perché nessun paese lo farà, non credo sia tanto una questione di boicottaggio, per quanto personalmente lo riterrei un atto coraggioso ed auspicabile. Le Olimpiadi 2008 semplicemente non andavano affidate alla Cina, in quanto paese che sistematicamente vìola i diritti civili. E non solo per quel che riguarda il Tibet.
Il fatto è doppiamente vergognoso se si pensa che la scelta è palesemente legata alla volontà delle nazionai occidentali di assecondare i desideri di legittimazione di un partner economico tra i più potenti.
Ho pensato seriamente in questi giorni difficili e convulsi, come professionista che lavora in Tibet con gruppi di alpinisti e viaggiatori, se non fosse il caso di smettere di andare in Tibet; smettere di sostenere in qualche modo, con il nostro lavoro ed i nostri soldi, un sistema che reprime un popolo. Boicottare l’alpinismo in Tibet come le Olimpiadi? Sarò sincero, non ho una risposta certa. L’istinto mi farebbe scegliere di chiudere. Ma siamo davvero sicuri che non sarebbe una fuga? L’abbandono di un popolo che, ora più che mai ha bisogno di non essere dimenticato, che ha necessità che la gente veda come vive e come viene trattato?
Ho cominciato ad andare in Tibet nei primi anni novanta, pochi anni dopo l’apertura della regione al turismo, avvenuta nel 1987. Ho continuato ad andarci, prima da viaggiatore e poi da organizzatore e non ho mai smesso di amarlo. Né i suoi spazi, nè la sua gente. Forse rinunciare al Tibet potrebbe essere una temporanea scelta di protesta, non credo possa essere una scelta definitiva.
Per ora i cinesi hanno scelto per me, per tutti. Il Tibet è chiuso, sia da terra che dal cielo. Niente Everest, niente Cho Oyu e, dopo gli scontri di Lhasa, niente Shisha Pangma. Hanno persino ottenuto una temporanea chiusura dell’Everest sul versante nepalese: la globalizzazione dell’imbecillità. Più realisticamente centinaia di migliaia di dollari nelle casse del governo di Kathmandu, giusto per il disturbo.
Dal 1° al 10 maggio, dunque, giù dalla montagna tutti gli alpinisti: a bere birra a Lobuche o Pheriche, in attesa che un qualche Piccolo Timoniere ramponato guidi la fiaccola sulla vetta del Qomolongma, la Dea Madre della Terra. Povera Madre, forse rimpiangerrà il giorno in cui ha partorito.
Manuel Lugli
“L'unica arma, l'unica forza è la giustizia, la Verità” questa è ancora una volta l’indicazione del Dalai Lama ai tibetani (www.repubblica.it). Un’indicazione forte e chiara che come sempre persegue la strada della non violenza e che si associa all’altra, rilasciata in queste ore dalla massima guida spirituale buddista, circa la volontà di “dimettersi” se continuano le violenze in Tibet.
L’unica arma e l’unica forza… L’occidente e tutto il mondo civile hanno il dovere di non essere inerti, di non stare a guardare e di riconoscere e battersi per la verità e la giustizia. E anche noi alpinisti, che tanto abbiamo sognato e ricevuto da quella terra e quelle montagne, abbiamo l’obbligo di non far finta di nulla. E non solo perché le autorità cinesi hanno “temporaneamente sospeso” i permessi per l’Everest, il Cho Oyu e (ora) anche lo Shisha Pangma ma – come scrive Manuel Lugli – per non abbondare il popolo tibetano.
Tutto già visto
di Manuel Lugli
Tutto già visto, purtroppo, fin dall’invasione del 1949, la dura repressione del 1959 e le proteste del 1988 e 1989. Le devastazioni, il genocidio culturale e “fisico”, gli arresti, le torture, le violenze; la disinformazione pilotata, l’isolamento e la repressione, l’infiltrazione di agenti provocatori, le delazioni, il silenzio e l’indifferenza dell’occidente impegnato a far sempre più affari con la Cina; la non violenza del Dalai Lama e la sua pluridecennale ricerca di un dialogo con Pechino.
Ma ci sono due elementi nuovi in quest’ondata di ribellione dei tibetani così intensa e repentina – e forse persino inaspettata dai cinesi stessi, a giudicare dal ritardo con cui è partita la reazione ai primi disordini.
Uno eclatante, noto a tutti ed irripetibile: le Olimpiadi ormai prossime, occasione importante per i tibetani per riportare in evidenza, in tutta la sua complessità e tragicità, la questione tibetana. Soprattutto dopo la decisione lucidamente folle del governo cinese di blindare l’Everest prima, e poi il Tibet tutto, per consentire alla propria spedizione “alpinolimpica” di compiere la Grande Impresa della Fiaccola Ardente senza troppi occhi tra i piedi.
Purtroppo però, che ai cinesi piaccia o meno, il mondo conosce da anni la politica repressiva che Pechino ha sempre usato nei confronti del Tibet e non saranno certo le Olimpiadi, per quanto sfarzose e blindate, a cambiare la percezione dei fatti e a far identificare la Cina come un grande, luminoso faro di civiltà. Così come non lo possono i soliti, lugubri comunicati sulle responsabilità della “cricca del Dalai Lama”, motore, secondo Pechino, di ogni azione anti-cinese.
Sono parole che sanno di decrepito, di ammuffito, parole che rivelano tutto il vecchiume e l’arroganza di un partito-governo che continua ad usare il linguaggio marcito della propaganda maoista da una parte, per perseguire il più bieco e spietato capitalismo dall’altra. E proprio su quest’ultimo terreno è piantata e si nutre la prudenza mirata della quasi totalità dei paesi occidentali, Italia inclusa.
I quali paesi, negli ultimi dieci anni, hanno contribuito in maniera decisiva a portare la Cina ad essere la seconda potenza economica del mondo dopo (per ora) gli Stati Uniti.
Personalmente, non molto tempo fa, sono stato a Pechino per due volte a distanza di un anno. Mentre mi avvicinavo alla città dall’aeroporto la seconda volta, stentavo a riconoscere quella selva di grattacieli che solo un anno prima era campagna.
Allo stesso modo ho faticato a riconoscere la periferia di Lhasa lo scorso anno, dopo essere stato un paio di stagioni senza andarci. Il modello di sviluppo è lo stesso: una crescita metastatica di edifici-strade-piazze applicata ad un territorio, il Tibet, che è l’esatto opposto, perché fatto di grandi spazi, per popolazioni nomadi. Ed è la velocità di questa crescita a stupire di più, a Pechino come a Lhasa.
L’altro elemento che, mi pare, sia emerso, è un certo grado – crescente - di insofferenza nei confronti della politica del Dalai Lama sulla questione tibetana: una ricerca di dialogo ad oltranza, di attesa di un segnale distensivo, di una buona volontà che da Pechino, purtroppo, non è mai arrivata. Non è una novità assoluta; una certa quota di dissidenti tibetani ha sempre considerato la lotta, lo scontro diretto con i cinesi – l’insurrezione – l’unica possibilità di liberazione dall’oppressione cinese, in deciso contrasto con il leader spirituale.
Ma in questi giorni, a guardare la violenza e l’estensione della protesta, che ha coinvolto non solo Lhasa, ma anche provincie vicine, come il Sichuan o il Gansu (con morti e feriti), provincie che hanno una forte presenza di tibetani, è sembrato di cogliere un segnale più forte, di totale esasperazione. Certo sua Santità mantiene la sua posizione storica: “la gazzella non batte il leone”, dice, occorre dialogo e pazienza, la violenza genera solo altra violenza.
E non è certo un caso che il Dalai Lama stesso abbia minacciato le sue “dimissioni”, se la situazione dovesse degenerare, per la violenza dei cinesi, ma anche dei suoi stessi tibetani. Cosa voglia dire per questi ultimi “perdere” ufficialmente il loro leader spirituale non si sa bene, ma potrebbe essere la scintilla che accende qualcosa di molto più serio di quanto finora accaduto.
I tibetani non hanno avuto finora un leader, un uomo carismatico interno al Tibet che potesse catalizzare la protesta verso forme più organizzate ed è stata da una parte una debolezza, ma dall’altra – come faceva notare la rivista Limes – una piccola forza, dovendo in questo modo le forze militari e di polizia cercare di reprimere focolai di protesta più spontanei e diffusi e quindi meno controllabili di un vero e proprio “esercito di liberazione”.
Certo è difficile pensare che gruppi spontanei di resistenti tibetani possano tenere testa a migliaia di militari cinesi armati – che pare stiano convergendo sulla capitale del Tibet. Anzi, i rastrellamenti casa per casa delle ultime ore e gli arresti di massa, hanno già dimostrato quale piega stia prendendo la protesta dei tibetani. Ma in questi giorni sono per lo meno riusciti nell’intento di suscitare proteste e solidarietà in tutto il mondo, sono riusciti in qualche modo a graffiare quella patina di “civiltà” che con le Olimpiadi la Cina cercava di stendere sulla propria immagine. Chiunque di noi guarderà i Giochi Olimpici il prossimo agosto, non potrà fare a meno di pensare a ciò che è successo in questi giorni.
Boicottare o non boicottare? E’ questo il dilemma. A parte che non è certo un dilemma perché nessun paese lo farà, non credo sia tanto una questione di boicottaggio, per quanto personalmente lo riterrei un atto coraggioso ed auspicabile. Le Olimpiadi 2008 semplicemente non andavano affidate alla Cina, in quanto paese che sistematicamente vìola i diritti civili. E non solo per quel che riguarda il Tibet.
Il fatto è doppiamente vergognoso se si pensa che la scelta è palesemente legata alla volontà delle nazionai occidentali di assecondare i desideri di legittimazione di un partner economico tra i più potenti.
Ho pensato seriamente in questi giorni difficili e convulsi, come professionista che lavora in Tibet con gruppi di alpinisti e viaggiatori, se non fosse il caso di smettere di andare in Tibet; smettere di sostenere in qualche modo, con il nostro lavoro ed i nostri soldi, un sistema che reprime un popolo. Boicottare l’alpinismo in Tibet come le Olimpiadi? Sarò sincero, non ho una risposta certa. L’istinto mi farebbe scegliere di chiudere. Ma siamo davvero sicuri che non sarebbe una fuga? L’abbandono di un popolo che, ora più che mai ha bisogno di non essere dimenticato, che ha necessità che la gente veda come vive e come viene trattato?
Ho cominciato ad andare in Tibet nei primi anni novanta, pochi anni dopo l’apertura della regione al turismo, avvenuta nel 1987. Ho continuato ad andarci, prima da viaggiatore e poi da organizzatore e non ho mai smesso di amarlo. Né i suoi spazi, nè la sua gente. Forse rinunciare al Tibet potrebbe essere una temporanea scelta di protesta, non credo possa essere una scelta definitiva.
Per ora i cinesi hanno scelto per me, per tutti. Il Tibet è chiuso, sia da terra che dal cielo. Niente Everest, niente Cho Oyu e, dopo gli scontri di Lhasa, niente Shisha Pangma. Hanno persino ottenuto una temporanea chiusura dell’Everest sul versante nepalese: la globalizzazione dell’imbecillità. Più realisticamente centinaia di migliaia di dollari nelle casse del governo di Kathmandu, giusto per il disturbo.
Dal 1° al 10 maggio, dunque, giù dalla montagna tutti gli alpinisti: a bere birra a Lobuche o Pheriche, in attesa che un qualche Piccolo Timoniere ramponato guidi la fiaccola sulla vetta del Qomolongma, la Dea Madre della Terra. Povera Madre, forse rimpiangerrà il giorno in cui ha partorito.
Manuel Lugli
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