Sulla paura, l'arrampicata e la depressione
Con i piedi ben piantati sulla cengia di sosta, a metà della parete del monte Shuksan, faccio quello che sembra il primo respiro vero da quando ho lasciato il campo base sul ghiacciaio Sulphide, otto ore prima. Intorno a me, le altre ragazze si sistemano sulla roccia ripida, facendomi spazio per accovacciarmi con la schiena premuta contro la parete. Manca ancora un tiro per arrivare a terra e mi assale un sollievo nervoso, la calata è stata snervante. Ho scalato all’aperto poche altre volte, quindi salire su per i 2780 metri dello Shuskan è stata una bella prova, se così si può dire. Faccio un sorrisetto. Ero troppo impegnata a concentrarmi sui tratti duri della via per fare attenzione al cuore carico di adrenalina. Arrampicare mi spaventa a morte, ma è un bene. Essere spaventata significa essere viva. Significa che non voglio morire. Ma non è sempre stato così.
C’è stato un tempo, qualche anno fa al nord dello stato di New York, in cui fantasticavo su come mettere fine alla mia vita quasi ogni giorno. Una depressione grave mi ha perseguitata per anni, da quando ero adolescente. Un meccanismo di conservazione, mi ero convinta, che sarebbe scomparso quando sarei cresciuta. Ma non è successo.
Per alcune persone, un’infanzia difficile può portare alla depressione, al disprezzo per se stessi, all’autodistruzione. Per altri è un evento sconvolgente o il servizio militare e la sindrome da stress post-traumatico, il problema di reinserirsi nella società. Un divorzio, una morte, un tradimento, un fallimento, sopravvivere alla guerra civile... tutti questi mi sembravano motivi a cui la gente reagisce con la depressione e i pensieri suicidi. Comunque, a me non è successo di dover affrontare nessuna di queste cose; non ho mai nemmeno avuto nessuno di quei comportamenti autodistruttivi così in voga nei film hollywoodiani sulla redenzione—niente alcol, niente droghe, niente autolesionismo. Non voglio idealizzare o romanzare nessuna di queste cose. Ma in queste situazioni c’è sempre un “cattivo”. A me sembrava che le persone con dei problemi seri avessero le loro buone ragioni per essere depresse.
Io queste ragioni non ce le avevo. Semplicemente non ero molto sicura di voler vivere. Oltre all’isolamento dato dalla depressione, ancora peggio era l’imbarazzo di dover combattere contro qualcosa senza conoscere bene il perché.
Quando ho compiuto vent’anni, lo stress di un lavoro faticoso al ristorante, combinato con un futuro incerto, scatenarono in me un’ansia intensa. Unita alle mie insicurezze, la realtà di un disagio mentale che non spariva, e la profonda vergogna di non essermi mai sentita all’altezza di nulla, la mia depressione finì fuori controllo. Mi sentivo inadatta—anche per essere depressa. Di notte, mentre distrutta ed esausta per il lavoro guidavo verso casa, mi perdevo in lunghe, elaborate fantasie: schiantare la macchina contro gli alberi di una stretta strada di campagna; finire giù da un ponte nell’acqua ghiacciata, dovrei sarei rimasta intrappolata nel veicolo; scivolare su un sentiero e rotolare giù dal fianco della montagna.
La mia fascinazione per gli incidenti rocamboleschi era cominciato da piccola. Quando ero ancora neonata, il mio adorato padre era stato ucciso in un violento incidente che aveva reclamato due vite.
Una fiamma viva, che si era estinta troppo presto. Intorno ai vent’anni, mio padre era stato un alpinista esperto, e un rispettato conoscitore delle montagne. Io non ero cresciuta scalando montagne, ma le avevo sempre amate nell’amore che mi aveva legato a lui.
Sebbene la mia famiglia stravedesse per me, il mio mondo fin dall’inizio mi sembrava una foto con un soggetto mancante. Da bambina, mi agitavo se gli adulti guidavano con quello che io percepivo come un comportamento rischioso. Da adolescente, guidare con i miei amici mi faceva venire l’ansia. E quando la mia depressione divenne insostenibile, la fascinazione che provavo per la vita di mio padre divenne fascinazione per la sua morte. Mi convinsi che sarei morta giovane, probabilmente in un incidente, com’era successo a lui.
Ma quello era molto diverso da questo. Questo era l’inizio dell'agosto del 2017 alle North Cascades. Avevo deciso di salire in cima al monte Shuskan nell’ottobre del 2016. Mentre la mia depressione si intensificava, così lo faceva anche il bisogno di una conclusione—avrei messo fine alla mia ossessione per le macchine e la morte e sarei andata alla ricerca di quell’unica altra cosa che definiva l’idea che avevo di mio padre: le montagne. Per rifiorire dalla depressione, e non solo sopravvivere ad essa, mi sarei messa a scalare.
Avevo dieci mesi per prepararmi. Mi iscrissi in una palestra indoor di arrampicata e iniziai ad imparare. Non avevo avuto grossi problemi a salire le prime vie, ma in cima rimanevo senza fiato e tremante per la paura, aggrappata alle ultime prese di plastica temendo per la mia vita. Non andò meglio con le vie successive. Vedere ragazzini di dieci anni arrivare su allegramente non mi rendeva le cose più facili. Scoprii che imparare ad arrampicare a Boulder era davvero un problema per l’autostima. Iniziai a notare un certo schema—finché rimanevo vicina a terra tanto da sopravvivere ad una caduta, riuscivo a respirare. Ma era come se ci fosse una linea magica sul muro, dove secondo la mia percezione l’altezza diventava fatale—quello mi paralizzava. Temevo il momento in cui avrei superato quella linea, quando realizzavo che cadere da quell’altezza senza una corda sarebbe stato mortale. Lo temevo, perché mi faceva desiderare, in un modo disperato e viscerale, di non morire. E non voler morire mi costringeva a decidere di vivere. Mi sembrava di fregare la mia depressione così.
Era l’agosto dell’estate successiva quando ho scalato lo Shuksan, gli incendi intensi della British Columbia avevano avvolto lo stato di Washington e l’Oregon in una fitta nebbia fumosa. Durante il tragitto verso nord, da Seattle a Sedro-Woolley dove avremmo incontrato il resto del gruppo e le guide, il paesaggio mi fece ripensare a delle foto che avevo visto delle campagne cinesi—terreni coltivati collinosi immersi nella foschia. Il fumo degli incendi nascondeva ogni accenno dei monti che mi avevano detto essere lì, ricoprendo ostinato ogni cosa. Una volta sulla montagna, ci siamo accampati alla base del ghiacciaio Sulphide, e con la visibilità ridotta a non più di 700 metri, eravamo ignari del mondo. Era una sensazione di isolamento e allo stesso tempo confortevole. Quando ho guardato lungo la valle, la luce si rifletteva e si amalgamava con il fumo, dando all’aria un alone che si adattava al mio stato d’animo—rosa pallido e giallo la mattina, arancio soffocante e rovente a metà giornata, rosso caldo alla sera e blu ghiaccio la notte. La luna, quelle sere che si riusciva a vedere, brillava pallida come un lampione in una serata umida. Non siamo riusciti a vedere le montagne se non il terzo giorno, quando il fumo si è spostato leggermente per rivelare timido una cresta frastagliata con picchi di tremila metri.
Quando scalo una montagna non è per conquistarla—ma per rendermi conto che mi è stata data la possibilità di impegnarmi in qualcosa di difficile e di tornare a casa. La depressione è così per me. Decidendo di fare il viaggio al monte Shuksan, speravo davvero di avere un’epifania. C’era una sorta di fede infantile nell potere ristoratore delle montagne e del legame che avrei sentito con mio padre mentre arrampicavo. Proprio come da adolescente, speravo di ritornare guarita.
Ovviamente, non è andata così. Ho forgiato legami incredibili e passato tempo con una cara amica. Ho scoperto di essere in grado di fare la cacca in una busta di plastica e che la neve sciolta ha un sapore buonissimo. Ho scoperto che il caffè mi rende nervosa a 2500mt esattamente come a 1500. A dire il vero, alcuni aspetti sono noiosi. Camminare con uno zaino di 22 kg per la prima volta non è stato divertente. La vista dalla cima sarebbe dovuta essere meravigliosa, ma invece era tutto ricoperto dal fumo. Ho mandato un messaggio ai miei cari per dir loro della vetta raggiunta con successo. Era comunque stupefacente.
In altre parole, scalare una montagna non è diverso dalla vita di tutti i giorni—alti e bassi, e si finisce con l’aver fatto qualcosa. E anche se la tentazione di continuare con le analogie e i parallelismi tra arrampicata e depressione è forte, alla fine si riduce a questo—nessuna rivelazione. Solo una camminata estenuante nella neve e il respiro corto durante le calate.
Sinceramente, le North Cascade Mountains mi hanno spaventata a morte. Seduta su quella cengia sulla parete del monte Shuksan, ho guardato i monoliti fumosi delle montagne e mi sono ricordata di come ho accarezzato da vicino l’idea della morte durante la mia depressione degli ultimi anni. Qualcuno accanto a me ha fatto un sospiro di gratitudine per la vista di fronte a noi. Qualcun altro ha detto qualcosa sulla bellezza delle montagne, e la grazia. Io non ho detto nulla, ricordando la doppia, il vuoto dell’aria dietro di me, sotto di me, tutt’intorno a me, mentre aggrappata alla corda pregavo che i nodi reggessero. C’erano almeno altri 15 metri prima della prossima cengia. Cadere avrebbe significato percepire quel vuoto per ogni millimetro fino alla fine. Cadere avrebbe significato la morte, quella vera, spaventosa—di quel genere dove il tuo corpo si spiaccica sulle rocce e le pozze del tuo sangue conservano il riflesso delle montagne che ti hanno appena ucciso. O almeno così me lo immaginavo io. Proprio come in cima ai muri di arrampicata in palestra, i primi momenti di ogni calata mi mandavano una scarica di adrenalina. La mia vita era letteralmente appesa a un filo. Non volevo cadere, proprio no.
Su quella penultima cengia, mi sono accorta che la morte, lì in parete, era diventata una cosa molto personale Nei primi anni non era stato così. In passato, quando guidavo per quei quarantacinque minuti che mi separavano da casa ogni sera dopo il lavoro, al buio, sola, immaginavo casualmente dieci modi in cui sarei potuta morire. Ero cinica, fredda. Dissociata. una fissa morbosa sul morire come era morto mio padre. Mi immaginavo i titoli sui giornali il giorno seguente: una Subaru del 2007, rossa, trovata schiantata lungo la Route 245. Sembra che il guidatore abbia perso il controllo dell’auto e sia finito contro un albero. Morti: una. Non immaginavo il momento dell’impatto della macchina contro l’albero, e nemmeno i pochi istanti prima di perdere il controllo, la macchina che sbanda, tutto che diventa nero. Ripensandoci ora, mi sono resa conto che l’ho sempre vissuto dall’esterno, come se ci fosse qualcun altro a influenzare la mia grottesca immaginazione.
Di contro, fare il primo passo dalla sosta di calata mi sembra estremamente personale. Il mio peso che tende la corda sopra di me. I nodi, quelli che ho imparato da poco a fare e di cui fidarmi, che tengono l’imbrago legato alle corde. La mia schiena, esposta all’aria fredda del mattino. Quel primo secondo in cui la corda si mette in tensione sembra una conversazione intima con la morte molto più intima delle tante che avevo avuto guidando la macchina. Non ti puoi nascondere dalla paura quando trascina il tuo corpo verso le rocce sottostanti.
Sulla cengia, siamo tutte un po’ intontite, di quel genere di stanchezza che segue la classica sveglia alpinistica delle tre di mattina. Di fronte a noi, il ghiacciaio si srotola sul lato della montagna e raggiunge il lago, ancora ricoperto da un velo di fumo. Alla nostra destra, il monte Baker controlla tutto dall’alto dei suoi 3.286 metri, chiaramente indifferente al mio goffo giocherellare con la vita. So solo questo: non voglio morire su questa montagna, o quella montagna, o su nessun altra stramaledetta montagna.
A volte, il pensiero che mio padre avrebbe rinunciato a così tanto per vivere la sua vita con me mi fa vergognare di aver pensato al suicidio—ma è anche quello che mi tiene viva. Non sono credente, ma penso che qualcuno mi abbia protetta dalle macchine in questi ultimi venticinque anni. Tante volte avrei potuto distruggere la macchina, sarei potuta morire, o farmi male—e in qualche modo, non sono mai stata coinvolta in un incidente, nemmeno uno stupido.
A volte, credo che il dono più grande di mio padre sia stato la sua morte, per tenere viva me.
Qualcuno vicino a me esprime la sua gratitudine per aver raggiunto sani e salvi la cima e per una discesa quasi completa. Anche io sono grata, e lo dico. Non mi sono sentita spesso così. Penso a mio padre e a come sarebbe stato fiero di quella mia salita. Mi sono avventurata tra le montagne a caccia di una connessione con lui, ma qui non l’ho trovato. Forse è proprio questo il punto—non ci sono risposte facili alle tragedie e alla depressione.
Vorrei dirvi che sono guarita, che la depressione non infetta più i miei pensieri. Ma non è vero. Continuerò a scalare, nonostante la paura e la mancanza di risposte chiare. Anzi, e diciamolo—continuerò a scalare per la paura. Continuerò a inseguire le montagne perché non so bene cos’altro fare. A volte, le storie non hanno una fine precisa. A volte, si va a scalare, e poi si torna a casa sani e salvi. E a me, ora, questo sembra abbastanza.
di Sonya Pevzner
traduzione di Agnese Blasetti
L'articolo originale è stato pubblicato da The Climbing Zine Online il 29 marzo 2018: On Fear, Climbing, and Depression by Sonya Pevzner