La chiamavano libertà nel Supramonte di Baunei in Sardegna

Il report di Simone Mapelli e Francesco Pittau dell’apertura insieme a Arianna Fiorino della via ‘La chiamavano libertà’ a Gorropeddu nel Supramonte di Baunei in Sardegna
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L’apertura di ‘La chiamavano libertà’ a Gorropeddu, Supramonte di Baunei, Sardegna (Arianna Fiorino, Simone Mapelli, Francesco Pittau 2020-2024)
archivio Francesco Pittau

Era la fine dell’estate 2020, il Covid-19 era ormai una presenza costante nelle vite di tutti noi e la libertà, per come la conoscevamo fino a pochi mesi prima, era diventata un lontano ricordo, messa sempre più a rischio da chiusure improvvise, autocertificazioni e obbligo di mascherine, spesso recuperate tra i mucchi collezionati in qualche angolo di casa.

Già da qualche tempo si sognava di provare il brivido della chiodatura dal basso in qualche angolo sperduto e selvaggio della Sardegna. La cosa ci intrigava, dato che per uno scalatore poter scegliere la "propria" linea su una parete libera e cimentarsi nella realizzazione di un itinerario mai salito prima è motivo di grande stimolo che porta a misurarsi con se stessi e le proprie capacità.

Ovviamente eravamo ben consapevoli di non possedere il bagaglio di esperienza necessario per ambire a grandi progetti sulle pareti vergini nelle aree più remote dell’isola. Occorreva individuare una zona wild, come piace a noi, ma sufficientemente docile nell’approccio in modo da poterci assicurare un certo margine di successo ed evitare la classica pisciata fuori dal vaso, sempre lì in agguato. Ma la voglia di avventura, così come la giusta dose d’incoscienza, non ci è mai mancata e, sebbene neofiti, ci siamo detti: «beh, da qualche parte bisognerà pur iniziare». E quel "qualche parte" l’avevamo individuato: Gola di Gorropeddu, uno degli angoli più isolati - e ancora perlopiù incredibilmente vergini - del Supramonte, incastonato tra i comuni di Baunei e Urzulei. Un posto fuori dal tempo, animato unicamente dal rumore del vento tra le querce e dai versi degli animali liberi di muoversi indisturbati tra la macchia.

A novembre, dopo aver studiato minuziosamente i video "Chiodare dal basso" dell’infaticabile Maurizio Oviglia, ci sentivamo pronti per le nostre prime sforacchiate. Giustamente, come vuole la tradizione, avevamo scelto un’area con l’avvicinamento più complicato che si potesse immaginare, ma noi dalla nostra avevamo la smania del noviziato e dopo aver digerito tutti i video tutorial e pagine e pagine di trattati su come meglio tassellare correttamente su roccia, ci eravamo convinti che quell’avventura era alla nostra portata. Nulla poteva andare storto.

Solo per raggiungere quello che sarebbe stato il nostro campo base per i giorni successivi dovevamo contare su un mezzo adeguato: una Jeep Wrangler, dal nome di battaglia Rambo II, gentilmente concessa in prestito dal nostro benefattore Gian Franco. Eh già, perché anche solo arrivare all’ingresso della gola è già di per se un’avventura, figurarsi con decine di chili di materiale per chiodare, cibo, generatore elettrico, acqua, corde, tenda… praticamente tutto quello che serviva per vivere come cinghiali per cinque giorni.

Approdati sull’isola e caricato il nostro mezzo, partiamo alla volta di Gorropeddu, dove raggiungiamo l’ingresso della gola alcune ore più tardi di buon mattino. Carichi e felici come due profughi nel deserto che trovano un bar, allestiamo meticolosamente il campo base. Il programma era studiato nei minimi dettagli: giorno 1) esplorazione delle pareti per individuare la linea che più ci aggrada e spostamento del materiale alla base; giorno 2) chiodatura della prima metà della via; giorno 3) seconda metà della via; giorno 4) salita in libera e assegnazione dei gradi; giorno 5) sbronza micidiale e trascinamento delle carcasse verso casa. Nulla poteva andare storto.

Il primo giorno centriamo tutti gli obbiettivi: dopo una lunga perlustrazione troviamo una linea sulla carta apparentemente abbordabile lungo un evidente ed estetico spigolo che si snoda verso la fine del canyon e che ci lascia poche incertezze sulla linea da seguire. Trasportiamo tutto il materiale all’attacco e sistemiamo la base di partenza, che insiste su un canale detritico piuttosto scosceso, livellando bene il terreno. Siamo carichissimi e dopo una fantastica cenetta poco vegana sotto il cielo stellato del Supramonte ci infiliamo contenti nella nostra tenda.

La mattina ci alziamo ansiosi di cominciare a testare sul campo tutta la teoria appresa nei mesi precedenti, e non passò molto da quando capimmo che la pratica era ben altra cosa. Le ore di luce erano ridotte dal momento che l’autunno era ormai inoltrato e la chiodatura piena di insidie tecniche che non avevamo intuito dai nostri studi, ma comunque procediamo con la salita posizionando la prima sosta, nonostante il tranciamento di una delle due mezze corde causa masso instabile volato giù durante la progressione e un volo di qualche metro con tanto di smitragliata di micro-friends nel tentativo mal riuscito di liberare il trapano incastrato tra le corde. La sera ci confrontiamo per capire gli errori commessi e le possibili strategie per evitare nuovi sbagli così da mitigare il più possibile i rischi.

I giorni seguenti, completamente sfasati rispetto al nostro programma iniziale, procediamo a rilento, trovandoci costantemente di fronte a nuove sfide: gomitoli di corde, improbabili incastri del trapano e mille altre insidie, che hanno inevitabilmente a tratti condizionato il nostro umore ma che ci hanno dato una prova di come, con calma e sangue freddo, se ne può sempre uscire fuori.

Terminano i giorni a disposizione che a malapena riusciamo a chiodare metà via, lasciando piazzata cento metri di statica che ci avrebbe permesso una comoda risalita al prossimo ritorno.

Tornando in "continente" ci promettiamo che saremmo ripartiti il prima possibile per finire ciò che avevamo cominciato. Passò dunque l’inverno e con l’arrivo della primavera fissiamo le date del nostro ritorno sull’isola: giugno 2021 si riprendono le danze. Nei mesi trascorsi, in più occasioni avevamo avuto modo di studiare tutti i principali errori e grazie a una minuziosa analisi avevamo trovato le migliori strategie per risolvere i problemi che inevitabilmente al primo assaggio ci avevano colti di sorpresa.

Atterrati a Cagliari, appena usciti dall’aeroporto, notiamo subito che il nostro mezzo di trasporto non era lì ad attenderci come avrebbe dovuto. «Partiamo bene…», pensiamo rassegnati guardandoci in faccia, venendo a scoprire che Rambo II, tassello centrale della logistica del nostro progetto, era impossibilitato ad accompagnarci nella nostra avventura causa "piccolo disguido tecnico" occorso la mattina stessa. Va beh, rimettiamo in pista in tutta fretta un glorioso Ssangyong Korando che tante emozioni ci ha donato in passato e, caricato di tutto punto, dirigiamo le ruote verso l’Ogliastra, con la speranza che le glorie non svanissero miseramente a pochi metri da casa col mezzo in panne. Dopo qualche ora, con molta pazienza e altrettante preghiere, ci ritroviamo di nuovo all’ingresso della gola e, visto il clima decisamente più estivo della volta precedente, optiamo per una villeggiatura più "essenziale", lasciando giù tenda e sacchi a pelo per rimpiazzarli con amaca e materassino per una più "fresca" permanenza serale all’Hotel Gorropeddu.

Dato il periodo decisamente più caldo e avendo recuperato spazio essenziale in macchina, ci portiamo con noi un frigobar come terzo compagno di spedizione (chiaramente carico di birre). Ma le novità non erano finite, la nostra seconda spedizione poteva contare anche di un altro amico fedele: un drone (morto poi suicida in quel di Porto Flavia - R.I.P.) che si rivelò utilissimo per sciogliere gli ultimi dubbi su dove far passare quello che, era già chiaro, sarebbe stato il tiro chiave (i puristi delle aperture dal basso storceranno il naso per questa forzatura, abbiate pazienza…).

Ci dirigiamo quindi di nuovo verso l’attacco, fiduciosi che la statica lasciata in parete ci avrebbe facilitato le operazioni di ripresa lavori. Cosa che ovviamente non fu, dato che in quei giorni si misuravano 35 °C già alle prime ore del mattino e, sebbene la parete rimanesse in ombra per tutto l’arco della mattinata, non si percepiva un movimento d’aria nemmeno per miraggio. Risultato: brasata totale e sensazione simile a ciò che probabilmente prova uno straccio dopo un passaggio in lavatrice con centrifuga.

Quel giorno chiodammo tutto il terzo tiro ci portammo immediatamente sotto il tanto temuto muro finale, dove riusciamo a infiggere i primi tre spit prima di ritirarci per il gran caldo pomeridiano verso lidi più freschi, lasciando in sosta tutto il materiale utile per continuare il giorno dopo. La sera, stravolti, ma sempre fiduciosi, ragioniamo sulle nuove variabili che la giornata ci aveva regalato. Decidiamo dunque tre cose fondamentali: 1) iniziare a chiodare prima, visto il gran caldo, con sveglia poco prima dell’alba, così da interrompere i lavori prima che il sole lambisse la parte alta della parete; 2) no jumata su statica, sì risalita arrampicando dal basso la via; 3) seguire nel tiro chiave una sequenza di fessure che segnano in verticale il muro, apparentemente molto tecniche ma logiche, in modo da mettere sempre mani e piedi sulle porzioni di roccia più compatte e potersi proteggere al meglio.

La decisione di risalire scalando fu azzeccata perché ci permise di tenere la mente libera e le forze pressoché intatte e, già che ci siamo, ne approfittiamo per liberare i primi tre tiri e farci un’idea più chiara dei gradi. L’arrampicata era piacevole, a tratti discontinua per via di brevi terrazzamenti che intervallano la progressione, ma decisamente logica. La linea fin lì era venuta bene e la cosa ci diede benzina per ripartire con il nostro cantiere. Eravamo arrivati alla resa dei conti, davanti a noi gli ultimi 60 metri circa di parete. Un pilastro verticale, compattissimo, simile a quello che si può trovare sulle ben note pareti del Wenden. Alla vista ci mette una certa soggezione, ma la voglia di vincere la parete era tanta e si partì all’inizio con poca convinzione per poi prendere fiducia e andare carichi verso l’obiettivo di vetta (questo tiro, a parte i primi tre spit posizionati il giorno precedente, lo chioderà interamente Simone, n.d.r.). Solo a pochi metri dalla cima lo stato di perfetto equilibrio cosmico che regnava sovrano viene drasticamente interrotto da un mal celato nervosismo per via del cordino di recupero che tragicamente arriva a fine corsa, avendo percorso 50 metri senza aver posizionato soste intermedie e limitando all’osso il numero di spit sulle parti più semplici per cercare di terminare il tiro prima che il sole facesse la sua comparsa in parete e cuocesse le nostre speranze di terminare al fresco (cosa che ovviamente non succederà). Recuperata l’intera lunghezza di corda e sistemato il magazzino si riparte, trovando una facile uscita con l’ultima "protezione" attorno ad un esile alberello, cresciuto proprio lì a coronamento del tratto terminale sulla sommità del pilastro.

Ecco, si è appena compiuto l’ultimo atto di questa bellissima avventura, dove una gioia indescrivibile mette da parte l’angoscia accumulata da imprevisti e spaventi. Eravamo entrambi su quello che per noi anonimi scalatori della domenica era il tetto del mondo. Il ricordo del panorama che si apriva di fronte a noi è incancellabile, così come unica la vista della gola dall’alto, simile ad un crepaccio su un mare di ghiaccio. Eravamo soli e sapevamo che quel momento era nostro. Ce l’avevamo fatta, avevamo realizzato il nostro sogno. Chiaramente il sole, intanto alto nel cielo, ci ricordò che il tempo per festeggiare non era quello, ma in quel momento tutto era perfetto. Avevamo ritrovato la libertà, la nostra libertà. Non potevamo chiedere nulla di più.

Negli anni seguenti, a più riprese, ricavando spazio nei rari ritagli di tempo, siamo tornati a sistemare le piccole cose che erano rimaste in sospeso. È stata aggiunta la sosta del quarto tiro, così da spezzarlo in due tiri da 30 metri circa, ripuliti alcuni tratti di roccia più instabile e aggiunto qualche ancoraggio nel tratto terminale del quinto tiro, così da rendere la chiodatura omogenea su tutta la via. A novembre 2023 realizziamo la prima salita in libera assieme ad un altro amico di sempre, Pol Meroni, detto "papà", decidendo di continuare oltre il pilastro fino alla sommità della gola così da riprendere il sentiero sommitale ed evitare la discesa in doppia con conseguente risalita della gola, decisamente laboriosa. Viste le difficoltà ridotte e il susseguirsi di logiche sequenze di rampe, decidiamo inizialmente di completare l’itinerario in stile alpinistico, lasciando in parete solo uno spit, due cordini e un chiodo.

Nel luglio 2024, in compagnia dell’amica Arianna Fiorino, decidiamo di aggiungere tre lunghezze sommitali, in modo da offrire un’uscita sul sentiero terminale più diretta ed evitare le facili rampe. Attrezziamo a spit quindi una linea sulla parte più debole della parete sommitale, con difficoltà più contenute rispetto ai tiri chiodati in precedenza, ma continua e piacevole. Ne è venuta fuori alla fine una via di 8 tiri, con chiodatura a tratti distanziata ma sempre sicura, in uno degli angoli più belli che solo quest’isola incantata sa regalare.

di Simone Mapelli e Francesco Pittau

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