Un sogno vissuto sullo Spantik in Pakistan. Di Domenico Perri

Il report di Domenico Perri che all'inizio di agosto ha tentare di salire lo Spantik in Pakistan. Gli alpinisti si sono fermati per una tempesta poco sotto la vetta, e il vento ha spazzato via campo 2.
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Domenico Perri, avvicinamento allo Spantik in Pakistan
Domenico Perri

Se avessi dovuto seguire le raccomandazioni del Ministero degli Esteri sul Pakistan, non sarei qui a raccontarvi quanto di bello ed estraniante ho vissuto in questo periodo della mia vita. Certe associazioni di escursionismo nostrane hanno adottato pedissequamente le line guida del Ministero, evitando accuratamente i trekking in Pakistan, mentre migliaia di persone di altre nazioni sono qui tutti in giro per i luoghi belli del Baltistan, Baltoro, Hunza, vari campi base, dal K2 al Nanga Parbat, Fairy Meadows e chissà quanti altri gioielli nascosti tra queste immense valli… In effetti ho incontrato solo tre impavidi ragazzi italiani in giro tra le montagne del Baltistan.

Sono partito il 19 luglio, destinazione Skardu con un progetto in testa, la salita dello Spantik in stile alpino. Un massiccio montuoso di proporzioni enormi, di oltre 7000 metri, nel cuore del Karakoram Range. A seguire, un giro sui Fairy Meadows, i Prati delle Fate, una splendida località montana ai piedi del Nanga Parbat, l’ultimo 8mila himalayano, una meta quasi esclusiva del turismo locale, ma che merita certamente una visita per la bellezza dei luoghi e la ricchezza di foreste e specie botaniche.

A Skardu mi hanno accolto i miei amici della Sunrise Adventure di Skardu, una compagnia storica del Baltistan, che ho visto crescere fin dal mio primo viaggio in Pakistan, nel 2011, attraverso il Baltoro, fin su al Gondogoro La, e poi nel 2014 per un tentativo di una vetta inviolata nella Hushe Valley. Ishaq, il mio caro amico e fratello, mi ha abbracciato con calore e con gli occhi pieni di emozione e gratitudine ed una tenerezza sincera che solo qui riesco ancora a ritrovare nelle persone.

Dopo una breve sosta a Skardu ed un rapido check dei materiali, il giorno successivo sono arrivate le due guide incaricate, Ali e Mahdi. Due persone dall’aspetto forte, che hanno già scalato varie vette, compreso lo Spantik. Soprattutto Ali Germanah, uno dei più forti mountaineers del Baltistan, una personalità forte e umile, dai tratti mongoli nel viso e due occhi vivissimi. Mi ha stretto la mano con forza, e mi ha augurato un caloroso benvenuto "Inshallah"… Un incontro ed un feeling felice e intenso.

Ci siamo avviati con le Jeep di servizio poco dopo verso Shigar, il crocevia delle spedizioni dirette al Baltoro ed altre valli limitrofe. Dopo quattro lunghe ore di strada o meglio pietraia, ci siamo arrampicati con le Toyota su verso il villaggio di Arandu, ad un centinaio di km da Skardu, costeggiando l’Indus River, il fiume che raccoglie tutte le acque del Karakoram e attraversa tutto il Pakistan, le cui sorgenti sono situate nell’altopiano del Tibet.

Ci siamo inoltrati lentamente tra valli coltivate, costellate di albicocchi, noci, campi di grano e patate, e i contadini, le donne e i bambini tutti dediti alla raccolta ed al deposito dei frutti per le provviste invernali. Qui l’inverno è lungo e freddo e la gente locale non ha alcuna possibilità di muoversi o raggiungere i grossi centri. Le emergenze qui non esistono, si muore per un’emorragia o per complicanze da parto. Il primo ospedale è situato a centinaia di chilometri e d'inverno è pressoché impossibile raggiungerlo per le condizioni di innevamento diffuso. È come vedere un film del passato, nell’Italia del Sud, in giro mucchi di balle di erba e fieno per gli animali e le donne intente a battere il grano appena raccolto e i bambini con balle di fieno in spalla… le vacanze estive!

Dopo un viaggio massacrante di alcune ore, abbiamo raggiunto Arandu, un villaggio di alcune migliaia di anime, polveroso e vivo, con le fogne a cielo aperto ed uno straccio di collegamento elettrico, appena sufficiente ad alimentare qualche lampadina nelle abitazioni.

Ci ha accolto il medico del paese, che ci ha fatto visitare il suo ambulatorio, dove si cura di tutto, dalle urgenze ai parti, dalle ferite da taglio alle infezioni intestinali, piuttosto frequenti a causa delle scarse precauzioni igieniche (qui usa mangiare con le mani…). Il dottore sembrava più interessato a organizzare trekking in montagna per i facoltosi clienti pakistani piuttosto che prendersi cura della gente. Ma qui funziona così, le regole sono del tutto aleatorie… Pochi giorni dopo mi giunse notizia che la sorella di Mahdi, la nostra guida, era deceduta a vent’anni per un’emorragia!

Il giorno successivo, caricati gli zaini, i viveri e tutto l’equipaggiamento necessario, e dopo un chai tea ben zuccherato, ci siamo avviati sul sentiero che costeggia il Chogo Lungma, il grande ghiacciaio che seguiremo dalla sua foce fin quasi alle pendici dello Spantik, nella regione dell’Hunza, dove si perde in alto verso i grandi ghiacciai dello Hispar.

Un lungo e faticoso trekking di avvicinamento attraverso sentieri sospesi nel vuoto, ai lati delle pareti glaciali, tra pietraie, radure glaciali, e poi, dopo lunghi giorni, ci siamo inoltrati nel ghiacciaio, percorrendone una porzione importante, fino alla base dello sperone roccioso su cui è situato il nuovo campo base, a circa 4200 metri di quota. Tre lunghi giorni, seguiti da quasi trenta portatori in fila indiana sul ghiacciaio, veloci come gazzelle a destreggiarsi tra i crepacci. Le nostre guide che ci aprivano il percorso più sicuro e guidavano i nostri passi tra gli enormi crepacci che aggiravamo o superavamo con una certa apprensione, tra spigoli e creste ghiacciate col vuoto profondo sotto i nostri piedi.

Il terzo giorno abbiamo raggiunto il campo base. Con mia grande sorpresa il campo era vuoto! Sul ghiacciaio avevamo incrociato una spedizione inglese di rientro, con tante facce deluse per la vetta mancata. I nostri portatori nel giro di un’ora avevano già attrezzato il campo, la cucina e la tenda mensa e i nostri alloggiamenti per le notti successive.

Il team era formato da due alpinisti, io e uno spagnolo, gli altri membri si erano persi i bagagli nel cambio del volo a Doha. Arrivati a Islamabad hanno atteso inutilmente dei giorni e così hanno deciso di rientrare nei loro paesi di origine. Un paio di giorni per organizzarci e subito abbiamo iniziato la rotazione di acclimatamento, che all’inizio prevedeva almeno tre notti nei campi alti e rientro al campo base. Ma abbiamo constatato che forse avremmo potuto concentrare in 8 - 9 giorni il periodo previsto per la vetta, se il meteo lo consentiva. Avevamo una finestra di bel tempo di almeno 4 - 5 giorni, che forse ci avrebbe permesso di avvicinarci alla vetta.

Una prima salita a campo 1, situato alla fine del lungo sperone di roccia, all’inizio del pendio nevoso, a circa 5100 m. Sembrava la salita della via normale al Cervino, dal versante svizzero, lastre di gneiss e spigoli di roccia ripida, sfasciumi e tratti di arrampicata facile, ma senza corde fisse, su fino all’attacco della via alta. Una notte di riposo e poi via, verso la cresta che si dipana come un lungo serpente sinuoso fino alla vetta.

Pochi giorni dopo, al perdurare del bel tempo, abbiamo azzardato la possibilità di tentare un assalto rapido alla vetta. Eravamo sufficientemente acclimatati e gli indici di saturazione del sangue sembravano buoni. Considerate anche le buone condizioni meteo previste, anche se del tutto aleatorie, sembravano gli ingredienti giusti per tentare una salita in stile alpino veloce.

Ci siamo resi conto col passare del tempo che il meteo era mutevole e le previsioni del tutto sbagliate. Peraltro, al campo base il telefono satellitare in dotazione aveva scarso segnale e non riuscivamo a contattare il referente locale dell’altra agenzia che aveva dato al mio compagno Ruben il satellitare, reso peraltro del tutto inutile a causa della rottura del generatore, defunto dopo appena due giorni! Così abbiamo constatato che i contatti col mondo civile erano inesorabilmente conclusi e se per un accidente qualcuno di noi avesse subito un infortunio, credo che avremmo dovuto solo pregare qualche santo per salvarci. Ma tant’è, i pakistani sono ancora al di sotto degli standard di sicurezza europei e confidano forse un po’ troppo nella sorte.

Allora ci siamo affidati al nostro istinto che ci spingeva a proseguire in alto. Le guide grondavano ottimismo e noi ci siamo lasciati infatuare. Ci eravamo caricati tutti del necessario per attrezzare i campi successivi. Dopo due giorni, superando una cresta nevosa infinita, siamo arrivati a campo 2 a circa 5400 metri. Poco dopo avevamo sistemato il necessario per rifornirci in caso di ritirata. Sopra di noi, un lungo muro di neve e ghiaccio, con passaggi fino a 50 gradi, già attrezzato con corde fisse su fino a campo 3, sullo sperone di roccia su cui avremmo bivaccato la notte successiva.

Dopo una notte a campo 2, la mattina successiva ci siamo legati con le jumar alle corde fisse, risalendo il faticoso pendio con le picche, spesso affondando nella neve lenta, in buchi profondi da cui si faceva una fatica infinita per rimettere lo scarpone sulla traccia, giungendo lentamente ma con testardaggine fino a campo 3, a 6100 metri di quota. Da lì si gode una vista formidabile sull’immenso ghiacciaio sottostante, lasciandoci totalmente attoniti davanti a tanta selvaggia e inquietante bellezza.

Ali e Mahdi nel giro di pochi minuti avevano già tirato su la tenda bivacco, e poco dopo ci siamo sistemati alla meglio in quattro, con gli scarponi e i materiali di scalata accatastati nel vano posteriore della tenda. Intanto si avvertivano i primi sintomi di stanchezza e di spossatezza, dovuti in parte alla quota, in parte alla lunga e faticosa scalata del giorno prima sulla lunga cresta.

Una noodle soup appena sorbita con un po’ di neve sciolta, che, si sa, non è molto nutriente, anzi può portare alla disidratazione se non viene integrata con i sali. Poi un lungo pomeriggio di attesa, a scherzare e ridere e sognare, con Mahdi e Ali sempre pieni di vitalità e senza alcun segno di fatica in corpo.

Poi ci siamo rinchiusi nei sacchi a pelo, alla ricerca ed alla conquista di uno spazio minimo, accatastati l’uno sull’altro. Intanto i primi sintomi di mal di montagna ci mandavano le prime avvisaglie: inappetenza, insonnia, spossatezza, ma senza reali segni di malessere importante. Il primo sintomo rilevante è il mal di testa, e in tal caso è opportuno ripiegare rapidamente per evitare complicanze respiratorie o cerebrali. Il tasso di ossigeno nel sangue oscillava tra 50 e 60 comprese le guide, con nostra grande meraviglia. Il mio era risultato il migliore indice di saturazione, poco sopra 60, comunque tutti valori al di sotto della media.

Tuttavia, l’entusiasmo e la voglia di salire ancora non erano venuti meno. Le guide ostentavano ottimismo ed una bella carica emotiva molto rassicurante per noi due. Ci tenevamo stretti per mano, infondendoci reciprocamente energia e motivazione. Erano momenti intensi di autentico alpinismo e solidarietà che non avevo mai sperimentato fino ad allora! In effetti, il mio entusiasmo era sufficiente a spingermi ancora in alto, nonostante una tosse insistente, e sentivo che avevo ancora una buona carica dentro che mi avrebbe portato fino in vetta.

La notte del 29 luglio, alle 21,40, senza chiudere occhio, ci siamo tirati fuori dai sacchi a pelo, indossati gli imbraghi, gli enormi scarponi di alta quota così gelosamente curati per tutto il tempo dopo l’acquisto, il top di gamma per gli ottomila, ma non me ne sono mai pentito, seppure siano costate un salasso, e si sa, noi alpinisti di giornata non abbiamo sponsor. Ma forse è anche giusto così, ognuno di noi, almeno io, mi sono finanziato da solo e le mie spedizioni, con qualche contributo di cari amici che hanno creduto in me.

Eravamo pronti, carichi di entusiasmo e voglia di lottare per la meta. Sentivamo dentro scorrere fiumi di adrenalina e il cuore battere forte, ci rafforzavamo con pacche ed abbracci. Ali era stato il primo a tirare il naso fuori dalla tenda, avevamo avvertito il vento batter sulle tende per tutto il giorno, ma ritenevamo che non ci avrebbe impedito di salire. Poco dopo ci siamo assicurati insieme con una corda in conserva corta, Ali guidava la cordata, e abbiamo intrapreso il pendio superiore su neve fresca, caduta forse durante la notte in quota.

Era buio totale, un buio abissale rotto appena dalle frontali che fendevano il buio appena pochi metri sopra di noi, rischiarando il biancore della neve. Dopo un lungo traverso appena sopra le ultime corde fisse, dove il pendio si addolciva, e superati alcuni muri e crepacci, ci siamo ritrovati sulla spalla che in poche ore ci avrebbe condotto in vetta, a circa 6500 metri di quota. Era notte fonda, forse le tre di notte, ma non si intravvedeva ancora l’alba su cui confidavamo per proseguire verso la vetta.

Nemmeno il tempo di fare una breve sosta e bere un po’ di liquidi, che veniamo rapidamente investiti dal vento e dal nevischio che cominciava a turbinare intorno a noi. Poco dopo era subentrata una vera e propria bufera di neve, che ci ha investiti in pieno, anche per la nostra posizione totalmente esposta. Siamo stati assaliti dai morsi del vento e dalle raffiche di neve, e, per quanto equipaggiati con i piumini pesanti, siamo stati avvolti da un velo bianco di nebbia che rendeva del tutto invisibile la via di salita, disorientando persino le nostre guide, che, certamente preoccupate delle condizioni, decidono di fermarsi in attesa di un miglioramento.

Ma l’attesa si era rivelata del tutto inutile, il vento rinforzava e la visibilità era quasi nulla dopo quasi un’ora di attesa, tutti curvi sotto la tempesta, ed io avvolto come un salame nel telo termico ma inutilmente perché il vento me lo strappava via a morsi… Cercavo di resistere ma la preoccupazione e l’incertezza, mista ad un po’ di paura, cominciavano a serpeggiare dentro, smorzando l’entusiasmo iniziale. Mi ricordava un’esperienza analoga, vissuta un po’ di anni fa sul Gran Sasso, quando mi ero ritrovato con un gruppo di amici in piena bufera, su una cresta indefinita, e privi di orientamento, seppure dotati di GPS del tutto inutile in certe condizioni.

Ali, dopo un rapido consulto con tutti noi, decide di rientrare seppure con un certo rammarico per la vetta mancata. Ma chi se ne frega! La vita di tutti noi contava più di tutto! Sotto le raffiche incessanti del vento abbiamo ripreso la vaga traccia di rientro, quasi del tutto coperta dalla neve, erano le 4:30 del mattino. Il vento era incessante e ci sferzava in pieno sul viso e sul corpo. Dopo almeno sei, sette ore vissute nella tormenta, ci siamo ritrovati sullo sperone del campo 3, miracolosamente salvi. Disfatto tutto l’equipaggiamento, ci siamo rimessi al riparo nella tenda, con il vento che sembrava rafforzasse ancora. In quelle condizioni appariva del tutto impensabile fare sosta fino al giorno successivo in attesa di un improbabile miglioramento. All’alba ci siamo affacciati fuori e intorno noi eravamo avvolti da un biancore impenetrabile e la neve cadeva incessante. Ciò significava pure un rischio relativo di valanghe sul pendio. Decidemmo così di scendere a campo due in attesa di un possibile miglioramento e poterci rifocillare e riposare. A tentoni riusciamo a ritrovare le corde fisse completamente sommerse da uno strato di neve.

Ci siamo calati lentamente coi cordini assicurandoci con un prusik alla corda fissa. Improvvisamente mi ero accorto che Ali aveva perso un rampone e stava scendendo, gli urlai forte avvisandolo, dopo avermi ringraziato, proseguì a tracciare il percorso di ritorno, evitando accuratamente i crepacci, seppure un paio di volte l’ho visto crollare sotto il peso dello zaino. Dopo alcune ore di discesa, riuscivamo a intravvedere nella nebbia il pianoro dove era situato il campo due, alla fine delle corde fisse.

Lentamente il tempo stava schiarendo, cominciammo affannosamente a cercare le tende e l’equipaggiamento del campo 2. Con nostro grande stupore, avevamo notato che non c’era segno di materiali e tende intorno. Ali trovò solo una pala e cominciava a scavare affannosamente alla ricerca delle tende, misteriosamente svanite. Abbiamo subito constatato che il vento le aveva spazzate via. Ali era amareggiato, erano i suoi materiali, in dotazione per le altre spedizioni. Dovemmo prendere atto che non avevamo alternative, se non rientrare rapidamente al campo base.

Domenico Perri
Skardu, 14 agosto 2022




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