Terra di Baffin, la spedizione pioneristica del 1972

Una storia di viaggio, di montagna, di vita e amore vissuto 40 anni fa nella remota e sperduta Terra di Baffin. Alcuni estratti di "Terra di Baffin. 26 luglio - 26 agosto 1972" il libro - diario di Maria Pia Ambrosetti Molinari sulla spedizione pioneristica del 1972 in Terra di Baffin effettuata assieme a suo marito Piero Ambrosetti Molinari ed ad altri 4 altri alpinisti francesi. Un grande racconto che ha per protagonisti il cuore, l'avventura e l'amore per la montagna.
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Il Monte Asgard sulla copertina del libro Terra di Baffin. 26 luglio - 26 agosto 1972 di Maria Pia Ambrosetti Molinari.
archivio Maria Pia Ambrosetti Molinari
Nel 1972 (26 luglio-26 agosto) la Terra di Baffin – grande isola nei territori artici canadesi, a ovest della Groenlandia - fu meta di una spedizione alpinistica guidata da Jean-Louis Georges, guida alpina di Grenoble, e composta da 4 francesi e due italiani, Piero e Maria Pia Ambrosetti Molinari. Fu una spedizione pioneristica, perché quasi sconosciute erano allora le montagne della Terra di Baffin (un interesse alpinistico iniziava proprio nei primi anni ’70); nessun italiano vi era mai stato prima (*). E fu un’esperienza abbastanza avventurosa: perché per quasi un mese i sei componenti della piccola spedizione si inoltrarono con un lungo cammino fra le montagne, senza alcun collegamento con il mondo esterno – (quasi inimmaginabile oggi, nell’era dei cellulari satellitari…), potendo contare solo sulle proprie forze, e dovendo portare a spalle tutto l’occorrente per un mese di alpinismo e di wilderness (con viveri quindi limitati al massimo).
Non esistevano ancora precise carte topografiche, e per orientarsi disponevano solo di foto aeree fornite dal governo canadese, oltre alle preziose informazioni del colonnello canadese Pat Baird, il migliore conoscitore dell’isola e delle sue montagne. Piantando 5 campi successivi – due prima del campo base, e due oltre – la spedizione riuscì a salire per la prima volta diverse cime sconosciute, a cui diede il nome, e ad effettuare la 6° ascensione del Monte Asgard ( = regno degli dei, nella mitologia nordica), la cima più bella e famosa della Terra di Baffin (**).
Fatica, solitudine, piacere della scoperta ma anche serie difficoltà impreviste, situazioni di rischio obiettivo e di assoluta precarietà: tutto questo ha caratterizzato quell’avventurosa esperienza. Della quale era rimasto, oltre alle foto (in b/n, e diapositive), un diario – due piccoli quaderni scritti allora, giorno per giorno.
A distanza di tanti anni, ora Maria Pia A.M. ha deciso di trascrivere questo diario, tal quale, (il perché lo spiega nell’introduzione), e di renderlo noto: accompagnato da molte immagini (vecchie diapositive!), che illustrano il racconto, insieme ad una "introduzione" e una "conclusione" scritte ora, è stato recentemente pubblicato come libro (con la prefazione di Irene Affentranger). Quanto segue è una scelta di alcune pagine di questo diario, che possano dare un’idea di qualche momento fra i più intensi e significativi vissuti in quel lungo mese: avvenimenti, ma anche riflessioni e scoperte interiori che li hanno accompagnati.

(*) Più precisamente, in quella stessa estate 1972 ci fu la prima spedizione italiana nella Terra di Baffin, guidata dal dott. Barabino, ma con carattere e intenti esplorativi più naturalistici che alpinistici. Non ci fu alcun incontro fra le due spedizioni, dato che quella del dott. Barabino si era servita dell’elicottero per essere trasportata direttamente al culmine della valle, e con lo stesso mezzo era già partita quando vi giungemmo
(**)La prima ascensione – della torre nord – fu effettuata nel lontano 1953, in una spedizione guidata da Pat Baird; mentre la torre sud fu salita solo nel 1971

TEMPESTA
(…ci coglie il 5°giorno, mentre carichi di bagagli risaliamo per la 2° volta dal fiordo al campo 2. Difficile avanzare, quasi riuscire a stare in piedi, contro la furia del vento. Quando finalmente riusciamo ad arrivare al campo 2, lo troviamo completamente devastato dalla tempesta)
(31 luglio)

La nostra tendina… visione apocalittica: quasi sta per essere abbattuta, il paletto davanti ha perforato e strappato il fondo di plastica, sotto la pressione del vento, e all’interno indumenti e oggetti sono semisommersi in una grande pozza d’acqua … La situazione è grigia: siamo tutti bagnati, continua il vento fortissimo e la pioggia, non c’è possibilità che in queste condizioni le tende resistano… (riusciamo a fatica a rimontarle, ma in modo precario, al riparo di un grande masso, da due lati incavato: il "masso della provvidenza", sotto il quale rimarremo bloccati per tre notti).
Sotto le raffiche – nonostante la protezione del masso – a tratti la tenda si inclina e sbatte, io tengo fermo il paletto. Ad un certo punto mi si piega fra le mani. Con uno scatto riesco a raddrizzarlo – ma quanto potrà durare? Ad ogni attacco del vento, mi domando se resisterà, se ce la faremo ad arrivare a domattina… Non so che ora sia; sono stanca, ma dormire è difficile; a tratti mi addormento, subito mi scuoto al nuovo attacco di raffiche. Ad un certo punto, incredibile, sento un motore lontano, come se qualcuno tentasse l’avviamento…possibile? Poi mi accorgo che è Maurice, vicino a me, che russa leggermente. Un breve sogno: c’è un gruppo di persone delle nostre parti – liguri, forse pescatori – qui - sono venuti, se ne vanno per la tempesta, ma la loro vicinanza è miracolosa e rassicurante.
Sì, perché – e diventa di colpo il pensiero fisso, subito accorgendomi che è un sogno – perché siamo nella Terra di Baffin, in zona assolutamente deserta, lontani ore di cammino e di barca a motore dall’unico centro abitato. Veramente sento la solitudine totale, sento come siamo interamente affidati a noi stessi, alle uniche nostre risorse, in mezzo ad una natura selvaggia, severa, che non ammette debolezze né sbagli [ma ora Piero è qui, accanto a me: non lo sapevo allora, ma ben altra terribile esperienza avrei dovuto vivere, più tardi…!]
Qui ci vuole il coraggio. Quel coraggio – un pochino, almeno – che avevano quegli uomini formidabili dei tempi passati, che si avventuravano ad esplorare terre sconosciute, con mezzi che oggi appaiono tanto scarsi… Ripenso a Baffin e a Bylot, al loro incredibile viaggio… a Davis, Hudson, a quella spedizione rimasta intrappolata dai ghiacci, sopravvissuti soli per tre inverni… prima di morire tutti. La nostra situazione, quanto è ridicola al confronto! Eppure, è qualcosa di nuovo, che mai avevamo vissuto prima (non c’è situazione paragonabile a questa esperienza che viviamo ora, benché l’alpinismo faccia sperimentare momenti di pericolo e di incertezza).
Anche Jean-Louis, ben pratico di spedizioni in terre artiche, dice: "jamais vu…" Il senso di vivere un’avventura, una vera avventura, in un mondo così abitato e civilizzato, era prima – fino all’arrivo con il piccolo Dakota a Pangnirgtung – qualcosa di eccitante e solo piacevole. Ma dal momento in cui gli eschimesi, allontanandosi con le barche, hanno levato il braccio in segno di saluto - forse gli ultimi esseri umani che vedremo, per un mese – l’avventura ha preso il colore anche di una attanagliante solitudine, e del rischio, e della precarietà assoluta; e quando ci siamo avviati sotto i pesantissimi carichi, ha assunto anche l’aspetto della fatica e della sofferenza, e il senso – per me, con un fisico non di ferro – del limite delle proprie forze fisiche, della necessità di un attento amministrarsi, per non arrivare all’esaurimento… Perché questo è sicuro: qui, nella situazione in cui ci troviamo, non possiamo permetterci di star male, di aver bisogno di cure. Bisogna star bene tutti, ed essere efficienti. Ma se l’energia che mi viene nei momenti critici è una risorsa sicura, so per esperienza che, passato il peggio, la sconto con una "debacle"…
Piero dorme come un sasso. Maurice ogni tanto si muove un po’. Mi sono spinta in su, con la testa contro la tenda, che così è meglio sostenuta. Certo se non ci fosse il peso dei nostri corpi, avrebbe già ceduto al vento… Nella notte, fragore di un’enorme caduta di massi, forse dalla montagna di fronte. Dura tanto a lungo, che sembra precipiti un’intera montagna. Nel sonno, penso con preoccupazione che potrebbe aver ostruito lo sbocco della valle, facendo diga, e che il fiume potrebbe salire, sommergerci… Sentiremo in tempo l’acqua che sale, faremo in tempo a fuggire? Domani riderò di questa paura. Ma ora tutto sembra possibile…

SOLITUDINE E PAURA
(sola, al campo alto sul ghiacciaio, aspetto il ritorno di Piero e dei quattro compagni
partiti all’alba, avendo per meta una cima lontana, mai salita, di cui si vede dal campo uno scuro triangolo di cima rocciosa che emerge netto e alto su tutte le montagne circostanti (ricorda il Cervino, o il Monviso). (8 agosto)

Dopo 7-8 ore dalla loro partenza, riesco a scorgere col binocolo cinque puntini che si muovono sulla vetta. Per circa un’ora li seguo col binocolo; a volte faccio segnali (sventolo il maglione), a volte mi sembra che qualcuno mi faccia segno da lassù… Piero, amore, sei arrivato, stai bene – grazie a Dio – Sono con te…
Alle 14,40, un figura lassù, con le braccia levate in alto; poi scompare definitivamente, la cima ritorna muta, immobile, indifferente. Posso aspettarmi, logicamente, che siano di ritorno non più di 7 ore dopo… Ma considerando che nel ritorno prevale la discesa, spero in realtà molto prima.
(Non potevo immaginare che invece sarebbe stato un calvario… per le condizioni della neve: mentre all’andata avevano potuto camminare velocemente su una crosta di neve ancora dura, al ritorno sprofondavano fino alle ascelle, a volte quasi fino al collo, e dovevano "nuotare" per progredire sul ghiacciaio. La traversata del quale – che al mattino aveva richiesto 1 ora e mezza – richiederà, al ritorno, più di 6 ore!)
(Nell’attesa, decido di fare una camminata, risalendo dal colle fino ad una cima tondeggiante a sin.) I massi scompaiono, il pendio si addolcisce, infine un grande pianoro… che, di colpo, finisce: la parete precipita. Non mi avvicino troppo, ma un sasso lanciato mi dà l’idea di quanto…
Mi appare, al fondo di una valle percorsa da un immenso ghiacciaio, il Summit Lake, ed il pazzesco Mont Asgard, con le due torri, nostra somma e ultima meta. Qui mi prende un vago senso di paura, e un angoscioso sentimento di solitudine, quasi paralizzante. Mi rendo conto quanto remoto è il mondo umano, dove nessuno sa niente di me, di noi… Decido di tornare al campo, e comincio ad aspettare.
Il tempo è cambiato: ora il cielo è grigio, un po’ di vento, fa freddo. Nella tendina azzurra, aspetto. Calcolo che non possano comparire in cima ad un colle di fronte, (battezzato da Jean-Louis "col des pataugeurs" cioè di "quelli che sguazzano") prima delle 19. …E sono venute le 20,15. Ancora al colle non compare nessuno… Angoscia terribile. Viene buio quasi – notte, ma chiara, perché siamo sul circolo polare artico – freddo. Distesa nella tendina, mi trattengo dal guardare il colle, per paura della terribile delusione: bianco, immobile, senza tracce.
Ad un certo punto mi sembra di sentire un urlo. Balzo fuori: non vedo niente. Allucinazioni? Poi ancora … La decisione è presa: appena ritornerà un po’ di luce, all’alba, partirò seguendo le loro tracce, con una corda. Altro non posso fare… (cercare soccorsi? Impossibile: anche ammesso che io riesca a scendere da sola il ghiacciaio e giungere al campo base, mi troverei comunque a non meno di 5-6 giorni di cammino, anche a tappe forzate, dal villaggio eschimese di Pangnirtung). Piero dirà, poi: ti saresti imbucata nel primo crepaccio…
Infine – e sono passate ormai le 22 – distinguo un puntino, poco sotto il colle. Subito guardo col binocolo: sì, chiama, rispondo con tutta la forza. Poco dopo colano giù dal colle una, due, tre figure nere. Scendono, lenti. E il quinto? Ancora momenti d’angoscia (tante frane e valanghe avevamo sentito, nei giorni precedenti. Mai esseri umani erano passati di lì, prima! Niente d’impossibile che uno di loro – CHI? – fosse rimasto travolto!...) Ma ecco, compare un quinto punto nero. Sollievo… (Jean-Louis o Piero, rimasto in alto per far sicurezza agli altri). Mi precipito nella tenda a preparare la solita "soupe": qualcosa di caldo per loro. Arrivano quasi alle 23. Corro incontro. Distrutti dalla fatica, bagnati fradici, ma ancora Jean-Louis conserva il suo buonumore: "on nageait dans la neige…"
Piero, caro – vicino a me, ancora – per mai più separarci.

(sono state "solo" un po’ meno di tre ore di attesa… ma certo le più lunghe e le più terribili della mia vita. E hanno lasciato un segno indelebile…)

VIGILIA DELLA PARTENZA E INIZIO DEL LUNGO RITORNO
(Scesi dal campo alto, dal campo base siamo risaliti al culmine della Weasel Valley, piantando un 5° campo sul Summit Lake. Di lì abbiamo potuto compiere l’ascensione del Monte Asgard (13 agosto) principale meta della nostra spedizione - raggiunto da Jean-Louis e Maurice; Piero rinuncia per non lasciarmi sola, dopo lo shock della mia terribile notte di attesa.
Ma di ritorno al campo base, comincia a nevicare: la breve estate della Terra di Baffin è finita. Ormai quasi alla fine di agosto, non ci rimane che prepararci a partire per un lungo ritorno).

Domani si parte. Non so ora, dopo tanti disagi, e tanto acuto desiderio di essere di nuovo a casa, fuori di qui – non so, tuttavia, se non proverò rimpianto, domani, quando le tendine si afflosceranno, e quando tutta la roba sparsa sui muschi del prato sarà stata imballata o fatta sparire nei sacchi – e quando faremo l’ultimo giro di ricognizione, per far sparire le ultime tracce del nostro soggiorno. Queste cime rocciose intorno, quasi familiari ormai – ora selvaggie sotto la prima spruzzata di neve, alte fra la nebbia – le guarderò proprio per l’ultima volta. Quel sentierino che si è formato verso la nostra tenda, discostate dalle altre, sparirà poco a poco – poi, come tutto, sarà sepolto dalla neve.
Terra di Baffin, meta incognita… quanto poco ne abbiamo conosciuto, esplorato. Quanti angoli fra le rocce, ruscelletti fra i fiori, laghi paludosi infiocchettati di bianco, e fiumi ricoperti di ghiaccio, e cime, pareti a picco, cailloux, preziose sfaccettature di minuscoli cristalli… quanto di Terra di Baffin ci rimane ignoto, non abbiamo visto né vedremo mai. Per un Monte Asgard, dal profilo originale e imponente con le sue due torri, salito, ammirato e fotografato, per qualche altra cima faticosamente e gioiosamente raggiunta … quanti picchi mai saliti né veduti, quante cime vergini, a vertiginose distanze…
Ci attende ora la parte già percorsa della Weasel Valley, due giorni di cammino. Il nostro masso, con i muretti di pietre, che ci offrirà riparo ancora una notte. Poi – dopo l’immensa piana, ore e ore di cammino curvi sotto i sacchi – rivedremo il fiordo: dove sotto una roccia ho nascosto un corno di caribù; dove abbiamo con gioiosa meraviglia fotografato i primi fiori (campanelle piccole bianche di un’erica) quella sera lontana del nostro arrivo, primo incontro con il silenzio, lo spazio vergine. E dove ancora rizzeremo le nostre tendine, per l’ultima notte di silenzio e di solitudine - e vedremo comparire, il 21, le barche eschimesi venute a riportarci al "mondo civile", come da accordi. (ma qui sbagliavo: non verranno affatto, gli eschimesi si dimenticheranno di venirci a prendere…)
E invano li aspetteremo, mentre si era scatenata un’altra tempesta; e ormai avevamo quasi del tutto esaurito le scorte di cibo, già precedentemente così limitate. Un’altra preziosa esperienza: la FAME... Dopo un giorno di inutile attesa, Jean-Louis e Piero partiranno per costeggiare il fiordo e raggiungere a piedi il villaggio, da dove poterci inviare la barca. Ma il mare in tempesta non lo permetterà, l’eschimese partito per venirci a prendere deciderà di tornare indietro, senza avvertire né essere visto da Piero e Jean-Louis, rimasti in riva al mare in attesa. Così per loro (e per noi) passerà un’altra notte di paura, nell’incertezza sulla sorte nostra da parte loro, e viceversa: con tanti buoni motivi per temere il peggio! (soprattutto l’affondamento della barca, ben possibile con quel mare…) (21–23 agosto)

Terra di Baffin, meta incognita… come sempre, so che verrà trasfigurata nel ricordo – e, forse, nel rimpianto. Vita dura, ma anche preziosamente semplice, povera e serena. Daremo un nome ad alcune vette, su cui, primi, abbiamo costruito un ometto. Lasceremo qualcosa di noi che sarà forse curiosamente e avidamente esplorata dagli animali – quei piccoli e grandi, di cui innumerevoli tracce intorno a noi attestano la presenza, senza che mai siamo riusciti a vederli.
Terra di Baffin, dove tanto ho conosciuto i miei limiti – fisici, morali – dove tanto ho penato in ore spaventevoli di solitudine e di attesa – dove ho pesato su Piero, con tutta la mia debolezza. Dove ho – abbiamo - sentito il nulla del nostro esistere, piccola brevissima fiammella di vita, di coscienza, nell’immensità indifferente del tempo, del suo fluire inesorabile, e dello spazio in cui perdersi, sparire: non è evento di maggior rilievo dello scorrere di un’acqua, del lieve spostamento di un masso. Dove la vita, del tutto soli e interamente affidati a se stessi, ha, insieme, un gusto speciale, e un minimo peso.
Il nostro passo ha lasciato orme nei muschi alti e soffici: pian piano si rialzeranno, non resterà più alcuna traccia. Troppo lontane le persone cui importa di noi: i loro pensieri non giungono, o solo affievoliti, si è dissolto il caldo bozzolo di cure, di affetti e contatti umani. Non l’abbiamo custodito, alimentato: sicuri di ritrovarlo, d’altronde. Ma poi abbiamo conosciuto la solitudine. Abbiamo capito che perdersi, sparire… è veramente un nulla, qualcosa di insignificante. …"e involve tutte cose l’oblio nella sua notte"…
Ora ritroveremo tutto un mondo – quanto ci apparirà ricco, e complesso, e intricato. E artificioso, anche. La vita la riprenderemo godendo, prima, soprattutto dei suoi aspetti più semplici, elementari. I piccoli piaceri, incredibilmente grandi: un piatto di insalata mista, un bagno caldo, una veste asciutta e pulita, senza sabbia né licheni né piumini (dei duvet e dei sacchi da bivacco). Un grappolo d’uva. Una serata intorno ai telaietti, a inquadrare diapositive. Chiacchierate tranquille con gli amici…
"Vieni, se vuoi, dammi la mano camminiamo verso la solitudine". Quella vera, quella dura, non poetica. Quella in cui ci si perde, spaventosa. L’indifferenza del monotono canto del fiume, dello sgocciolio dell’acqua sulla pietra, che a poco a poco rallenta, si ferma, bloccato dal gelo. E il silenzio. E il biancore della neve, nella luce crepuscolare, di un colle ghiacciato, intatto, senza tracce umane (il colle lontano da cui dovevo veder scendere, quella terribile notte, i cinque che dovevano ritornare… ma che non speravo ormai più di veder tornare). Oh, se tornerai, mai più separati. O immensa, incommensurabile felicità dell’essere insieme. Del ritrovarsi. Mai più separati, mai più. La solitudine si può vivere solo in due. Oppure, non essere più umani: felice condizione della pietra, del minerale inconsapevolmente splendido, del lichene nero, crosta abbarbicata che si sgretola sotto le dita, senza soffrire.
Ma vita umana è porgere la mano, stringere quella di un altro. Perdersi, ma insieme.
E ricordare, insieme.
Fino alla prossima partenza.
Questo mi ha insegnato la Terra di Baffin.

di Maria Pia Ambrosetti Molinari

Per chi fosse interessato a ricevere il libro Terra di Baffin. 26 luglio - 26 agosto 1972 contattare direttamente Maria Pia Ambrosetti Molinari per email: mp.ambrosettimol@fastwebnet.it




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