La Ruffoni & Bartolini sul Qualido in Val di Mello di Bartoli e Ruffo
Ne ragni ne grandi o piccoli sponsor, ne portaledge o altisonanti nomi, una coppia di amici, una cordata affiatata. Emozioni, paure, litigi, dubbi. La maestosa granitica verticalità si nota e si nasconde lungo la stretta Val Qualido, semplice rimaner impressionati dalla sua mole.
Più il tempo passava e più fantasticavo su una possibile linea, nonostante ve ne fossero già molte, tutte o quasi ridotte dal passar degli anni in uno stato pietoso; 700 metri di granito e davvero poche le ripetizioni degli itinerari presenti.
Paolo Vitali quello che per più volte aveva avuto la caparbietà di ritornare sotto quel gigante per aprire a mano (a parte le ultime) vie che ad oggi contano davvero poche salite. Sarà per lo stile, i vecchi spit, sarà che forse erano solo sogni, conquistatori dell’inutile. Aperte per non essere ripetute.
Curiosità e voglia di cimentarsi in qualcosa di nuovo ci portò sotto al gigante accorgendoci subito di saper poco o nulla di Big Wall. Ripercorriamo le prime lunghezze chiodate da Pizzagalli e Soldarini, diavoli infervorati d' aderenza… poi allucinati dalla compattezza delle placconate superiori e dall'evidente verticalità iniziamo il nostro viaggio durato circa un anno e mezzo.
"Ce lo portiamo sul Qualido sto skateboard? Lo usiamo come seggiolino in sosta!"
"Ok. Leviamo quei trucks e passiamo nei fori un paio di cordini!"
Accettai con entusiasmo la proposta. Era uno dei tanti giorni di quel generoso maggio senza rivoluzioni né decadenza. Ci addormentammo sereni.
I fiori ci allietavano, la roccia era asciutta, brillavano i pini e gli abeti, i fiumi scorrevano gonfi e cristallini e gli animali facevano da padroni sulla quotidiana strada; la primavera li rinvigoriva.
Un cucciolo di stambecco risaliva una placca rocciosa nel suo punto più liscio e repulsivo, i più grandi della famiglia invece sceglievano le meno ardimentose rampe d'erba verde, l'ultimo della fila era l'esemplare più grosso.
Io e Niccolò li si osservava divertiti, stando seduti alla base della parete, in attesa del sole. Lo percorremmo avanti e indietro per tre settimane il sentiero della Val Qualido. Diventò una preziosa e piacevole routine. Ogni giorno, alla stessa ora, s'incontrava uno stambecco in un determinato tratto di strada, così finimmo col presumere che fosse sempre lo stesso esemplare. Salivamo con zaini pieni di vecchie corde sgualcite, recuperate nelle cantine più disparate; le quali sarebbero servite ad attrezzare ogni nuovo pezzo di parete arrampicato. In tal modo, ogni giorno, avremo potuto issarci su per esse fissate fino al punto più alto raggiunto la volta prima.
Iniziavamo ad avvertire un leggero “mal di Qualido”, sopra le nostre teste, i metri, erano ancora molti. "Noi la prendiamo di petto, affanculo le debolezze!"ci dicemmo. Così continuammo a salire lungo quella striscia sbiadita di granito più chiaro, interpretabile solo da lontano, larga una cinquantina di metri e lunga seicento, dritta. Cercammo la strada più verticale possibile, senza però dimenticarci che scalare in placca significa navigare, seguendo le increspature del tempo nella roccia.
L'etica che mi è sempre stata cara è: lasciare meno materiale possibile, così da conservare l'avventura. Però in questo caso ce ne sbattemmo dell'etica. Volevamo che questa via fosse difficile e un poco spaventosa, ma non"troppo" pericolosa, e nel complesso comoda.
Con l'aiuto di un paio di amici riuscimmo quasi a finirla entro l'estate, ma il lavoro stagionale cominciò ad occupare troppo tempo, perciò fummo costretti a lasciar stare il "cantiere" con l'intenzione di riprendere in autunno.
Purtroppo però, l'imprevedibilità del moto egoico che infetta le relazioni umane fece il suo subdolo giuoco; per me e Nik ci fu un periodo di allontanamento. Restammo distanti e venne l'inverno. I giochi erano interrotti. A ricordarci l'appuntamento previsto per la primavera successiva, restava uno skateboard solitario, agganciato all'ultimo fix infisso quaranta metri sotto una grande cengia abitata dagli abeti, ciondolante a seicento metri da terra, distante qualche chilometro da casa nostra, in balia dei lunghi bui invernali.
Durante i primi giorni di apertura, Nik aveva fatto un patto con se stesso e il Qualido: -Non mi taglierò la barba finché non la finiremo!- Questo patto durò un anno intero! E a dirla tutta, sarebbe dovuto durare ancora un altro anno, visto che la via fu completata davvero, cioè nei dettagli, appunto solo un anno più tardi, per un totale di due anni!
Già, "nei dettagli", perché questa via è lunga, lunga come non ne avevamo mai nemmeno ripetute (su queste difficoltà tecniche), e quindi ha richiesto una minuziosa e snervante cura dei dettagli tralasciati lungo la salita: soste da sistemare, fix da aggiungere lungo alcuni tiri (per una ripetizione in libera più o meno godibile) e in particolare la correzione di un intero tiro. Volevamo fare un buon lavoro.
Ed eccoci alla nostra prima esperienza di bivacco in parete. Tornata la primavera, era passato un anno dall'inizio di questa avventura. Ci trovavamo sulla grande cengia abitata dagli abeti, quaranta metri sopra l'eroico skateboard solitario. I grandi abeti, cupi e ospitali, ci protessero dal vento e dal vuoto; la notte passò gentile. Dopo un'aerea cagata aspettammo che il sole scaldasse la parete, decisi a mordere il granito. Avevamo una manciata di fix per raggiungere il cielo. Per dirla meno poeticamente: i fix stavano per finire. La speranza del successo fu come una mano amica che ci aiutò a salire, quel giorno, ma di certo non senza sforzi (il penultimo tiro ci costò più di due ore di tempo!). E finalmente fummo in cima! Al cospetto della terra e del vuoto. Nik poté tagliarsi la barba, con esuberanti sforbiciate.
Dopo un'altra piacevole notte in cengia tornammo soddisfatti a casa, lasciando in parete ancora molte corde fisse, che oltre ad essere scomode e pesanti da portarsi appresso, ci avrebbero in seguito aiutato a risalire la via per sistemarla definitivamente.
Fece in tempo a passare un altro anno di isolati rinvii, finché il 13 settembre 2021, grazie alla partecipazione tanto attesa del bravissimo amico Marco Zanchetta, la via fu davvero conclusa. Marco, oltre ad averci aiutato molto, ha liberato (a vista) un tiro davvero impegnativo!
In fede
Giangiacomo Ruffoni & Nicola Bertolini*
* Jacopo Ruffo & Niccolò Bartoli, ndr