Ricordando Federico Deluisa e Carlo Picotti

Saverio D'Eredità ricorda Federico Deluisa e Carlo Picotti, due amici che venerdì 16 aprile hanno perso la vita in una valanga sullo Jôf Fuart nelle Alpi Giulie.
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Federico Deluisa e Carlo Picotti
archivio Saverio D'Eredità

Inutile cercare le parole, perché non ci sono. Se le avessero inventate, le parole, quelle parole lì da dire o da pensare in momenti come questo, quando ti avvicini troppo a quel bordo, avremmo risolto il problema. Se esistessero per davvero, quelle parole, se qualcuno le avesse analizzate o approvate, forse le avrebbero messe nel libretto delle istruzioni, verso gli ultimi capitoli. Ad esempio dove si parla di cosa fare in caso di rottura, come riavviare il programma, chi chiamare in caso di assistenza. Invece niente, quel capitolo non c’è. Come non c’è nemmeno quello iniziale. In questa strana, intricata, faccenda che è la vita ci mancano questi due capitoli. Non si sa come si inizia, né tantomeno cosa fare quando finisce. In mezzo, però, siamo pieni di dettagli, suggerimenti, percorsi. Magari un po’contradditori, talvolta difficili, altri entusiasmanti, altri ancora dolorosi. Ma chi chiamare, cosa dire o fare, quando tutto si inceppa, no: lì non dicono niente.

E invece sei qui che cerchi le parole, perché ti è mancato qualcosa sotto i piedi e stai camminando troppo vicino al bordo. Eppure ci servono, le parole. Vi attribuiamo grande importanza perché qualche volta riescono a formare un argine, una rete di protezione verso quel vuoto. Ad osservarlo senza caderci dentro. Forse è questo il punto.

Non molto tempo fa, chiacchierando davanti a un caffè del più e del meno (che è quasi sempre “come è la neve? ha fatto vento?a che ora si parte?”) un amico mi fa, secco “Sai che se ti succede quella cosa lì, non sarà più un tuo problema. Lo sarà semmai per gli altri, ma questa è un’altra storia”. E così invece di rassicurarmi o fornirmi un indizio da inserire in quel famoso capitolo finale, l’amico ha finito per complicare la faccenda. La verità è che certi argomenti non si dovrebbero affrontare davanti ad un caffè, ma la domanda rimane. In che senso non è “più” un mio problema? E soprattutto cosa ne è del mio problema se poi tutto va a finire così, senza nemmeno il tempo di mettere a posto le cose e riordinare, senza trarne delle conclusioni, senza una cerimonia di premiazione, un brindisi, niente? Forse non ho voglia di saperlo ed aveva ragione lui a dire che il problema era degli altri. Di chi rimane, di chi aspetta, di chi – alla fine dei conti, nonostante tutto – continuerà ad andare. Le parole, vedi, sono importanti. Qualche volta ci proteggono, impedendoci di intraprendere certi sentieri neri che non dovremmo imboccare.

Ma se le parole mancano, abbiamo pur sempre i ricordi, di cui siamo instancabili collezionisti. Di Federico Deluisa, ad esempio, conservo quello di una discesa “illegale” dal Foro. Illegale sia per la scarsità di neve di quell’inverno, cosa di cui ovviamente nessuno si lamentò più di tanto, come tutti quelli che con un paio di sci ai piedi sono felici sempre e comunque. E illegale anche perché ci fermò la polizia mentre tentavamo una discesa di soppiatto per la pista chiusa. Gran ramanzina e poi giù ad orecchie basse. Che dire, qualche volta abbiamo rapporti difficili con la legge e le regole. E infine tanti incroci più o meno casuali in discesa e in salita, con quella sorta di riverenza che puoi provare per un Maestro come lui, che ti veniva ogni volta da abbassare lo sguardo e togliere il cappello. Perché di sciatori forti ce ne sono in giro, ma quando scendeva lui capivi cosa voleva dire veramente sciare. Poter dire di aver sciato con “Delu”, era una menzione d’onore, una spilletta. Soprattutto perché sapeva accompagnare quel talento ad un’ancora più autentica e vera umiltà. Riusciva a parlarti della gita facile con gli amici come della linea più hardcore con la stessa purezza, lo stesso entusiasmo. Vivendo quella passione e quel talento in una straordinaria normalità. Penso che questo facesse di lui un Maestro, sopra ogni altra cosa.

Con Carlo Picotti abbiamo fatto l’ultima via della scorsa stagione, su e giù per le creste precarie di Val d’Inferno in una di quelle giornate autunnali belle da far male. Carlo non saprà mai quanto sia stata difficile per me quella giornata, passata a scacciare i fantasmi di un incidente dalla testa e accettare il fatto di aver paura e forse, persino, di non aver più voglia. Una giornata in cui non mi vergognai di chiedere di essere assicurato una volta in più e in cui Carlo nemmeno una volta me lo fece pesare. Vedevo già in lui la stoffa della guida, traguardo che si era sudato e meritato come pochi. Mi ero promesso di ringraziarlo un po’meglio, ma ci si mette di mezzo sempre questa specie di pudore che nasconde i sentimenti e ci fa sentire più uomini, più adulti. Alla fine di quella giornata, osservando le creste dei Brentoni, parlammo delle pietre del Natisone, verso le quali sentivamo entrambi un debito di riconoscenza. Ecco, segniamoci anche questo e mettiamolo in quel capitolo in fondo. Quando dobbiamo ringraziare una persona, diciamoglielo. Se sentiamo il bisogno di amare, baciare, abbracciare, facciamolo. Se siamo felici, ammettiamolo, una volta tanto. Se c’è da piangere, lasciamo scorrere le lacrime. Il resto lo farà il tempo.

Ogni mattina mi alzo e guardo le montagne. Lo faccio sempre, anche quando è brutto, o non si vede niente, o devo solo andare a lavoro. Una specie di rituale. L’altra mattina invece sono rimasto mezz’ora davanti alla tazzina senza aver il coraggio di aprire la finestra, vedere quanta neve c’era e annusare l’aria. Sono rimasto lì, senza le parole per proteggermi e con la voglia di far finta di niente. Come se la cosa non mi riguardasse veramente. Ma erano solo scuse. Perché chiunque si sia legato ad un capo della tua corda è un amico. Chiunque abbia condiviso con te una traccia nella neve, un fratello. Non potevo far finta di niente. La loro mancanza era diventata la mancanza di una parte di me. Una piccola morte che rimane dentro per sempre. Allora son andato nella stanzetta dei bimbi, da dove riesco a scorgere la catena dei Musi e la cima del Chiampon. L’ultima nevicata metteva in rilievo i solchi, le rughe delle pareti, le fratture delle creste. Le montagne sono il risultato di una demolizione. La loro bellezza è fatta anche dai loro crolli. Dalle perdite.

Verranno un giorno le parole, e sarà una liberazione. Verranno e sapremo dare un nome a tutto questo, saremo forse in grado di comprenderlo o anche solo di accettarlo. Verranno le parole, ma ora che non ci sono mi affaccio alla finestra e guardo le montagne. Aveva ragione il mio amico. Bisognerà riprendere in mano il problema, sbrogliare i nodi uno ad uno, ritrovare il filo che qualcuno ha nascosto così bene. Allora forse ritroveremo le parole, per loro ma anche per noi. Per chi rimane, dopo tutto, non resta che riprenderlo in mano e andare avanti.

di Saverio D'Eredità

L'articolo è stato pubblicato su Rampegoni il 21/04/2021




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