Restiamo umani: storia di un'esplorazione della est del San Lorenzo
Tra gennaio e febbraio 2013, Lorenzo Nocco, Luca D'Andrea, Massimo Massimiano e Roberto Iannilli hanno esplorato il versante est del San Lorenzo (Patagonia) con l'obiettivo di salire il pilastro accanto alla Torricella Nigra all'estremità sinistra della grandiosa e inviolata parete est. Il racconto di Roberto Iannilli su quest'eplorazione di un territorio selvaggio e fuori dalle consuete "rotte" patagoniche.
Abbiamo il permesso dell’inflessibile capo dei guardaparco del Perito Moreno e quello dei proprietari delle terre dove sta il Cerro (moglie e marito, ambedue pezzi grossi di due delle massime aziende che fabbricano prodotti per l’ alpinismo), ma a due condizioni: divieto di utilizzare cavalli per portare il materiale e divieto di arrivare al nostro progetto attraverso la valle del Rio San Lorenzo, il percorso più logico e breve. Inutile cercare di convincerli il parere del guardaparco influenza i proprietari, in trattativa per il passaggio delle loro possedimenti al parco stesso.
“Dai che ce la facciamo, il percorso verso il Puesto San Lorenzo è di massime cinque ore, in due o tre giorni di carichi portiamo tutto al campo base.” Dice Luca, come sempre ottimista.
“Che è ‘sto Puesto San Lorenzo?” Domando io, che a differenza di Luca e Massimo non sono mai stato in quella zona.
“Un antico ricovero per i gaúchos, una specie di baracca di lamiera e tronchi oggi utilizzata dai rari visitatori della valle. In genere gli escursionisti amanti dell’avventura fanno il tragitto fino al Puesto, dormono qualche notte lì e poi ritornano.”. Risponde Massimo.
“Dai, dai, non ci sono problemi, siamo in quattro, ce la facciamo.” Replica Lorenzo, il più giovane è ovviamente il più convinto… beata gioventù.
E’ deciso, partiamo, sicuri che in qualche modo ce la faremo ad arrivare in vetta allo sperone-torre che caratterizza l’enorme e mai salita parete est del Cerro San Lorenzo.
Il San Lorenzo è la seconda montagna per altezza della Patagonia, la vetta è a 3706 metri e la sua normale, che sale dal lato cileno, è facile e frequentata. Ben diverso è il selvaggio versante argentino, in specie la parete est, un’enorme muraglia sormontata da cornici di ghiaccio aggettante e cosparso di seracchi sospesi. Nessuno l’ha mai salita, neppure provata, solo una spedizione sud africana, negli anni ottanta, ha scalato la bellissima cresta che la chiude sul lato destro. Persino i fortissimi alpinisti Mick Fowler ed Es Tresidder, dopo un sopralluogo, hanno dichiarato: "Il problema principale è che non siamo riusciti a trovare un percorso oggettivamente abbastanza sicuro su tutta la parete, nonostante sia molto interessante! Looking back we reckon there is only one line in the whole 4km long wall that is not either threatened by very active seracs, or terminates in a 100m+ high, overhanging cornice! C’è solo una linea che non è minacciata da seracchi troppo attivi That line would be very hard, too hard for us we decided, but it does look very good, like a harder version of the Moonflower buttress!” e termina sotto la cornice strapiombante alta circa cento metri. Ma è molto difficile, eccessivamente difficile per noi. Sembra molto bella, come una versione più dura del contrafforte Moonflower.” Mick ed Es però non sono arrivati in fondo alla est, alla sua estremità sinistra, e non hanno visto il pilastro accanto alla Torricella Nigra, l’ago nero e acuminato che lo sormonta. Questo è il nostro obiettivo.
***
Attraverso strade di sabbia sassosa lunghe centinaia di chilometri e dritte come piste di atterraggio, arriviamo all’ Estancia La Oriental, grande fattoria de El Gordo. Dodicimila ettari tra boschi, laghi, ghiacciai e montagne, un luogo incantevole e selvaggio. Una notte in tenda e la mattina dopo El Gordo in persona ci porta con il suo mega pick-up al termine della sterrata, l’ imbocco della valle del Rio Làcteo. In quattro giorni facciamo i tre carichi di materiale fino al Puesto San Lorenzo, il nostro campo base. Se avessimo avuto i cavalli avremmo potuto fare base più in alto, qui stiamo comodi ma lontani e la cosa preoccupa tutti. Ci occorre una giornata di ricognizione per trovare i vari punti di guado dei fiumi, il caldo ha sciolto molto ghiaccio alzando il livello dell’acqua e aumentando la forza della corrente, ogni guado è un’avventura.
Il giorno successivo ci mettiamo in marcia per il campo avanzato, ben consapevoli che è solo un tentativo per trovare la strada. Superiamo montagne che non sono altro che morene, alternate a una serie di piccole pianure glaciali, e raggiungiamo il lago dove si tuffa il ghiacciaio del Làcteo. Galleggiano iceberg staccatosi dal muro verticale di ghiaccio che letteralmente precipita nell’acqua di un color latteo, origine del nome. Decidiamo di proseguire bassi, all altezza del ghiacciaio, completamente e uniformemente coperto di detriti di ogni dimensione. Ramponi e piccozza sono inutili, occorre attenzione per non cadere su qualche sasso in bilico. Finalmente giriamo la curva che fa il ghiacciaio Làcteo quando cambia pendenza e diventa San Lorenzo. L’inclinazione da salita diventa discesa, ma è talmente limitata che a fatica si capisce che stiamo perdendo quota. Siamo a poco più di mille metri di altitudine, sopra di noi l’enorme parete est, alta 1600 metri e lunga sette chilometri. I seracchi sospesi sembrano piccoli, come l’ uniforme cornice sporgente che borda tutta la parte culminante, come fosse un merletto, un ricamo prezioso e delicato alto da ottanta a 100 metri. In fondo, sulla sinistra, finalmente vediamo la nostra torre; lontanissima.
“Se proseguiamo, non abbiamo tempo per rientrare al campo, dobbiamo bivaccare!” Faccio notare.
“Io non ho il sacco da bivacco!”
“Neppure io!”
Abbiamo le tende e un po’ di attrezzatura, ma non tutti siamo equipaggiati per un bivacco. Ci tocca tornare indietro. Sistemiamo sotto un masso strapiombante i nostri materiali e scendiamo, piuttosto perplessi.
Ritornati al campo, dopo aver cenato, Massimo tira fuori la carta geografica.
“Quanto è distante la torre?” Chiede Luca.
Massimo osserva la misura della scala che sta in alto a destra.
“A occhio sei centimetri corrispondono a otto chilometri.” Piglia un pezzo di carta e segna la lunghezza, quindi rileva la distanza tra il campo e la torre.
“Se la scala è giusta, sono più di quindici chilometri in linea d’ aria, figuriamoci con tutti i giri che abbiamo fatto.” Sentenzia.
“Senza sentiero, con un percorso accidentato e pericoloso, per di più da scoprire… mi sa che dovevamo misurarla prima ‘sta carta!” Ammonisco io.
“Adesso siamo qui, tanto vale provare.” Giustamente dice Luca.
“Domani, anziché passare sotto, sul ghiacciaio, saliamo in cresta alla morena laterale. Sono sicuro che si cammina meglio, con meno blocchi instabili.” Lorenzo propone un’alternativa di percorso.
Il Ghiacciaio del San Lorenzo ha infatti da un lato l’ immane muraglia della parete est e dall’altro una quasi altrettanto poderosa morena laterale. Il ghiaccio, con milioni di anni di erosione, ha scavato e scolpito un capolavoro della natura ed ha ammonticchiato la risulta di tale lavoro sul versante opposto, quello orografico. I detriti sono talmente tanti che non si comprende dove finisce il ghiacciaio e inizia la morena. La logica di Lorenzo ci convince e decidiamo di provare la cresta.
***
Sono ore che facciamo i funamboli su sassi, piccoli, grandi ed enormi. La quantità di detriti è davvero al di la dell’immaginabile, mi domando quanti milioni di anni sono occorsi per sgretolare e accumulare tutto ‘sto triturame instabile. Camminarci sopra non è una cosa banale, occorre fare attenzione a dove si mettono i piedi e devi continuamente compensare uno spostamento inatteso, un masso che si muove. Più di una volta, sbilanciato dal peso dello zaino, ho rischiato di capitombolare di sotto.
Finalmente vediamo la nostra parete, verticale e scura sembra diversa da quella osservata su l’unica foto da noi trovata in rete. Le fessure paiono meno nette, la roccia molto meno salda e mancano i due piccoli glacionevai, consumati da riscaldamento globale. Al posto del ghiaccio adesso ci sono dei pendii di sassi che, a giudicare dai residui sulla lingua di ghiacciaio che sale verso l’attacco, non sono stabili ma scaricano.
Abbandoniamo la cresta e scendiamo un ripido pendio pietroso. Smossi dai nostri passi piccole frane di sassi ci precedono e comprendiamo che siamo sul ghiacciaio solo grazie ai vari ruscelli che scavano solchi e scoprono il ghiaccio tra i detriti che uniformemente lo coprono. Ci fermiamo su una gobba al centro e osserviamo la nostra parete. Il problema è come raggiungere l’attacco.
“Per evitare la pietraia sul ghiaccio possiamo salire la spalla sinistra!” Fa Lorenzo.
”La scala inganna. Se la parete è alta oltre mille metri, la spalla è almeno trecento e sono tutti di sfasciumi. Troppo lungo e troppo pericoloso” Ribatto io.
“L’unica è arrivare da dietro e risalire quel ghiaione che aggira la spalla.” Luca dice la cosa giusta.
“Sì, ma è talmente lontano da qui. Dobbiamo traversare tutto il ghiacciaio, scendere e risalire. Ci servirebbe un’altra giornata di marcia.” precisa Massimo.
“Tutto questo perché non c’hanno fatto entrà’ dalla valle del Rio San Lorenzo.” Ribatto io.
Infatti l’altra valle va dritta per il verso giusto, non ci avrebbe costretto a salire, ridiscendere e traversare sotto tutta la parete est. Avremmo potuto fare campo non distante e avere modo di attrezzare quello avanzato in modo rapido. Da questa parte invece, nonostante l’intera giornata di marcia, siamo ancora lontani e tutta l’attrezzatura di arrampicata è ancora al deposito, sulla prima piana. Ci toccherebbe fare un altro viaggio, piazzare le tende qui non avrebbe senso, sarebbe un campo intermedio.
“Se cambiassimo obiettivo?” Propone Luca, e prosegue: “Vedere se salendo di lato, da dietro la spalla, c’è un modo più veloce e semplice per arrivare in cima.”
“Che è questo rombo?” Lo interrompe Massimo.
“Guarda, guarda, il seracco crolla!”
Non ci vuole molto per individuare la grande nuvola bianca che precipita dalla parete, uno dei vari seracchi sospesi ha deciso di dare spettacolo, e temo sia solo l’inizio della rappresentazione.
Torniamo alle nostre cose e decidiamo che prima di rinunciare tanto vale provare un’alternativa. Domani faremo un’esplorazione per vedere se c’è modo di evitare la parete di oltre 1000 metri per una linea più semplice e rapida.
“Che dicevano le previsioni meteo questa mattina?” Domando a Luca.
“Le condizioni restano buone ma da questa notte dovrebbe arrivare il vento.”
“Direi di piazzare le tende dietro quel masso, sembra abbastanza grande da ripararci. Del resto non vedo altre scelte possibili, siamo allo scoperto in questa valle.” Propongo.
Ci mettiamo al lavoro per rendere abitabile il caos di pietre intorno a noi. Luca, Lorenzo ed io, cerchiamo i sassi più piatti e costruiamo una specie di lastricato su cui montare né nostre tendine minime. Massimo tira su un muro a secco per allargare la protezione dal vento sul lato meno riparato dal masso. Durante le quattro ore buone di lavoro siamo interrotti quasi a ritmi regolari da rombi e fragori, la costellazione di seracchi e nevai, sciogliendosi precipita di schianto. Individuiamo anche una cascata d’acqua lunga e sottile che solca quasi un terzo dell’altezza della parete. Le temperature alte degli ultimi anni hanno reso fragile quel mondo tenuto insieme dal gelo e ora lentamente sta riacquistando la sua stabilità scrollandosi un po’ di peso di dosso. Sono ormai le ventidue e c’è ancora un poco di luce, le giornate sono lunghissime ed anche dopo il tramonto non è mai buio completo. Siamo pronti per metterci dentro i nostri sacchi a pelo.
“Chi vuole un sonnifero? Questa notte me sa che ce ne avremo bisogno.”
“Io! Io!” Mi fa Massimo.
Il sonnifero serviva, come da previsioni il vento si è alzato e a dispetto del masso con il muro a secco ci ha strapazzato tutta la notte. Il frastuono non ha però coperto il rombo delle scariche, anche provenienti dalla cresta morenica dalla quale siamo arrivati. La mattina verifichiamo i danni alla tendina di Lorenzo e Massimo, meno tecnica della nostra, un’altra notte simile e il vento se la porta via.
Un po’ assonnati per la nottataccia ci mettiamo in cammino per il sopralluogo. Il ghiacciaio San Lorenzo è relativamente povero di crepacci, ma è ricco di ruscelli che scavano la superficie creando vere barriere. Facciamo molta fatica a trovare i passaggi e a una sosta ci rendiamo conto che sono ore che camminiamo senza allontanarci di molto dal campo. La parete è sempre lontana, sembra un miraggio. Decidiamo che anche questo tentativo è fallito.
“Caccia il binocolo!” Fa Luca a Lorenzo.
Ci mettiamo seduti sui massi trasportati dal ghiacciaio e studiamo il nostro fallimento.
La roccia non è il granito della Patagonia d’eccellenza, pare più gneiss, grigio e fratturato, forse slavato, di certo non compatto. La Torricella nigra è nascosta dalla cresta del Cerro, ma la roccia nera che la contraddistingue è uno strato che arriva anche alla parte alta della nostra torre. E’ probabile sia stata un’eruzione vulcanica a coprire, in epoche geologiche, l’enorme massa ancora da scolpire del San Lorenzo. La parete è li, abbastanza vicina da rivelare fessure e diedri, da intuire una via logica di salita; abbastanza lontana da farla rimanere un sogno.
Non è la prima volta che rinuncio a una scalata, per incapacità, esitazione o semplice sfortuna, questa volta però è diverso. Non siamo professionisti dell’alpinismo, ma neanche sprovveduti avventurieri o intimoriti principianti, siamo umani e comprendiamo che quella parete non è ciò che ci aspettavamo, che anche il metodo scelto non è stato quello giusto.
Nei giorni precedenti alla partenza, con i miei compagni fantasticavamo noi che ci abbracciavamo felici in vetta. Avevo proposto loro un’idea: intitolare la via e la torre al ricordo di Vittorio Arrigoni, un uomo che ha dedicato non una scalata ma la vita a un ideale di libertà. “Restiamo umani” era il suo motto e ci sarebbe piaciuto chiamare in questo modo la nostra strada per la cima e, appunto, noi restiamo umani, con le aspirazioni ma anche i limiti che ne conseguono.
Questa scalata rimarrà un sogno, nella speranza che l’altro sogno, quello di Vittorio, si trasformi un giorno realtà.
Patagonia, gennaio e febbraio 2013, spedizione al Cerro San Lorenzo: Lorenzo Nocco, Luca D’ Andrea, Massimo Massimiano e Roberto Iannilli.
“Dai che ce la facciamo, il percorso verso il Puesto San Lorenzo è di massime cinque ore, in due o tre giorni di carichi portiamo tutto al campo base.” Dice Luca, come sempre ottimista.
“Che è ‘sto Puesto San Lorenzo?” Domando io, che a differenza di Luca e Massimo non sono mai stato in quella zona.
“Un antico ricovero per i gaúchos, una specie di baracca di lamiera e tronchi oggi utilizzata dai rari visitatori della valle. In genere gli escursionisti amanti dell’avventura fanno il tragitto fino al Puesto, dormono qualche notte lì e poi ritornano.”. Risponde Massimo.
“Dai, dai, non ci sono problemi, siamo in quattro, ce la facciamo.” Replica Lorenzo, il più giovane è ovviamente il più convinto… beata gioventù.
E’ deciso, partiamo, sicuri che in qualche modo ce la faremo ad arrivare in vetta allo sperone-torre che caratterizza l’enorme e mai salita parete est del Cerro San Lorenzo.
Il San Lorenzo è la seconda montagna per altezza della Patagonia, la vetta è a 3706 metri e la sua normale, che sale dal lato cileno, è facile e frequentata. Ben diverso è il selvaggio versante argentino, in specie la parete est, un’enorme muraglia sormontata da cornici di ghiaccio aggettante e cosparso di seracchi sospesi. Nessuno l’ha mai salita, neppure provata, solo una spedizione sud africana, negli anni ottanta, ha scalato la bellissima cresta che la chiude sul lato destro. Persino i fortissimi alpinisti Mick Fowler ed Es Tresidder, dopo un sopralluogo, hanno dichiarato: "Il problema principale è che non siamo riusciti a trovare un percorso oggettivamente abbastanza sicuro su tutta la parete, nonostante sia molto interessante! Looking back we reckon there is only one line in the whole 4km long wall that is not either threatened by very active seracs, or terminates in a 100m+ high, overhanging cornice! C’è solo una linea che non è minacciata da seracchi troppo attivi That line would be very hard, too hard for us we decided, but it does look very good, like a harder version of the Moonflower buttress!” e termina sotto la cornice strapiombante alta circa cento metri. Ma è molto difficile, eccessivamente difficile per noi. Sembra molto bella, come una versione più dura del contrafforte Moonflower.” Mick ed Es però non sono arrivati in fondo alla est, alla sua estremità sinistra, e non hanno visto il pilastro accanto alla Torricella Nigra, l’ago nero e acuminato che lo sormonta. Questo è il nostro obiettivo.
***
Attraverso strade di sabbia sassosa lunghe centinaia di chilometri e dritte come piste di atterraggio, arriviamo all’ Estancia La Oriental, grande fattoria de El Gordo. Dodicimila ettari tra boschi, laghi, ghiacciai e montagne, un luogo incantevole e selvaggio. Una notte in tenda e la mattina dopo El Gordo in persona ci porta con il suo mega pick-up al termine della sterrata, l’ imbocco della valle del Rio Làcteo. In quattro giorni facciamo i tre carichi di materiale fino al Puesto San Lorenzo, il nostro campo base. Se avessimo avuto i cavalli avremmo potuto fare base più in alto, qui stiamo comodi ma lontani e la cosa preoccupa tutti. Ci occorre una giornata di ricognizione per trovare i vari punti di guado dei fiumi, il caldo ha sciolto molto ghiaccio alzando il livello dell’acqua e aumentando la forza della corrente, ogni guado è un’avventura.
Il giorno successivo ci mettiamo in marcia per il campo avanzato, ben consapevoli che è solo un tentativo per trovare la strada. Superiamo montagne che non sono altro che morene, alternate a una serie di piccole pianure glaciali, e raggiungiamo il lago dove si tuffa il ghiacciaio del Làcteo. Galleggiano iceberg staccatosi dal muro verticale di ghiaccio che letteralmente precipita nell’acqua di un color latteo, origine del nome. Decidiamo di proseguire bassi, all altezza del ghiacciaio, completamente e uniformemente coperto di detriti di ogni dimensione. Ramponi e piccozza sono inutili, occorre attenzione per non cadere su qualche sasso in bilico. Finalmente giriamo la curva che fa il ghiacciaio Làcteo quando cambia pendenza e diventa San Lorenzo. L’inclinazione da salita diventa discesa, ma è talmente limitata che a fatica si capisce che stiamo perdendo quota. Siamo a poco più di mille metri di altitudine, sopra di noi l’enorme parete est, alta 1600 metri e lunga sette chilometri. I seracchi sospesi sembrano piccoli, come l’ uniforme cornice sporgente che borda tutta la parte culminante, come fosse un merletto, un ricamo prezioso e delicato alto da ottanta a 100 metri. In fondo, sulla sinistra, finalmente vediamo la nostra torre; lontanissima.
“Se proseguiamo, non abbiamo tempo per rientrare al campo, dobbiamo bivaccare!” Faccio notare.
“Io non ho il sacco da bivacco!”
“Neppure io!”
Abbiamo le tende e un po’ di attrezzatura, ma non tutti siamo equipaggiati per un bivacco. Ci tocca tornare indietro. Sistemiamo sotto un masso strapiombante i nostri materiali e scendiamo, piuttosto perplessi.
Ritornati al campo, dopo aver cenato, Massimo tira fuori la carta geografica.
“Quanto è distante la torre?” Chiede Luca.
Massimo osserva la misura della scala che sta in alto a destra.
“A occhio sei centimetri corrispondono a otto chilometri.” Piglia un pezzo di carta e segna la lunghezza, quindi rileva la distanza tra il campo e la torre.
“Se la scala è giusta, sono più di quindici chilometri in linea d’ aria, figuriamoci con tutti i giri che abbiamo fatto.” Sentenzia.
“Senza sentiero, con un percorso accidentato e pericoloso, per di più da scoprire… mi sa che dovevamo misurarla prima ‘sta carta!” Ammonisco io.
“Adesso siamo qui, tanto vale provare.” Giustamente dice Luca.
“Domani, anziché passare sotto, sul ghiacciaio, saliamo in cresta alla morena laterale. Sono sicuro che si cammina meglio, con meno blocchi instabili.” Lorenzo propone un’alternativa di percorso.
Il Ghiacciaio del San Lorenzo ha infatti da un lato l’ immane muraglia della parete est e dall’altro una quasi altrettanto poderosa morena laterale. Il ghiaccio, con milioni di anni di erosione, ha scavato e scolpito un capolavoro della natura ed ha ammonticchiato la risulta di tale lavoro sul versante opposto, quello orografico. I detriti sono talmente tanti che non si comprende dove finisce il ghiacciaio e inizia la morena. La logica di Lorenzo ci convince e decidiamo di provare la cresta.
***
Sono ore che facciamo i funamboli su sassi, piccoli, grandi ed enormi. La quantità di detriti è davvero al di la dell’immaginabile, mi domando quanti milioni di anni sono occorsi per sgretolare e accumulare tutto ‘sto triturame instabile. Camminarci sopra non è una cosa banale, occorre fare attenzione a dove si mettono i piedi e devi continuamente compensare uno spostamento inatteso, un masso che si muove. Più di una volta, sbilanciato dal peso dello zaino, ho rischiato di capitombolare di sotto.
Finalmente vediamo la nostra parete, verticale e scura sembra diversa da quella osservata su l’unica foto da noi trovata in rete. Le fessure paiono meno nette, la roccia molto meno salda e mancano i due piccoli glacionevai, consumati da riscaldamento globale. Al posto del ghiaccio adesso ci sono dei pendii di sassi che, a giudicare dai residui sulla lingua di ghiacciaio che sale verso l’attacco, non sono stabili ma scaricano.
Abbandoniamo la cresta e scendiamo un ripido pendio pietroso. Smossi dai nostri passi piccole frane di sassi ci precedono e comprendiamo che siamo sul ghiacciaio solo grazie ai vari ruscelli che scavano solchi e scoprono il ghiaccio tra i detriti che uniformemente lo coprono. Ci fermiamo su una gobba al centro e osserviamo la nostra parete. Il problema è come raggiungere l’attacco.
“Per evitare la pietraia sul ghiaccio possiamo salire la spalla sinistra!” Fa Lorenzo.
”La scala inganna. Se la parete è alta oltre mille metri, la spalla è almeno trecento e sono tutti di sfasciumi. Troppo lungo e troppo pericoloso” Ribatto io.
“L’unica è arrivare da dietro e risalire quel ghiaione che aggira la spalla.” Luca dice la cosa giusta.
“Sì, ma è talmente lontano da qui. Dobbiamo traversare tutto il ghiacciaio, scendere e risalire. Ci servirebbe un’altra giornata di marcia.” precisa Massimo.
“Tutto questo perché non c’hanno fatto entrà’ dalla valle del Rio San Lorenzo.” Ribatto io.
Infatti l’altra valle va dritta per il verso giusto, non ci avrebbe costretto a salire, ridiscendere e traversare sotto tutta la parete est. Avremmo potuto fare campo non distante e avere modo di attrezzare quello avanzato in modo rapido. Da questa parte invece, nonostante l’intera giornata di marcia, siamo ancora lontani e tutta l’attrezzatura di arrampicata è ancora al deposito, sulla prima piana. Ci toccherebbe fare un altro viaggio, piazzare le tende qui non avrebbe senso, sarebbe un campo intermedio.
“Se cambiassimo obiettivo?” Propone Luca, e prosegue: “Vedere se salendo di lato, da dietro la spalla, c’è un modo più veloce e semplice per arrivare in cima.”
“Che è questo rombo?” Lo interrompe Massimo.
“Guarda, guarda, il seracco crolla!”
Non ci vuole molto per individuare la grande nuvola bianca che precipita dalla parete, uno dei vari seracchi sospesi ha deciso di dare spettacolo, e temo sia solo l’inizio della rappresentazione.
Torniamo alle nostre cose e decidiamo che prima di rinunciare tanto vale provare un’alternativa. Domani faremo un’esplorazione per vedere se c’è modo di evitare la parete di oltre 1000 metri per una linea più semplice e rapida.
“Che dicevano le previsioni meteo questa mattina?” Domando a Luca.
“Le condizioni restano buone ma da questa notte dovrebbe arrivare il vento.”
“Direi di piazzare le tende dietro quel masso, sembra abbastanza grande da ripararci. Del resto non vedo altre scelte possibili, siamo allo scoperto in questa valle.” Propongo.
Ci mettiamo al lavoro per rendere abitabile il caos di pietre intorno a noi. Luca, Lorenzo ed io, cerchiamo i sassi più piatti e costruiamo una specie di lastricato su cui montare né nostre tendine minime. Massimo tira su un muro a secco per allargare la protezione dal vento sul lato meno riparato dal masso. Durante le quattro ore buone di lavoro siamo interrotti quasi a ritmi regolari da rombi e fragori, la costellazione di seracchi e nevai, sciogliendosi precipita di schianto. Individuiamo anche una cascata d’acqua lunga e sottile che solca quasi un terzo dell’altezza della parete. Le temperature alte degli ultimi anni hanno reso fragile quel mondo tenuto insieme dal gelo e ora lentamente sta riacquistando la sua stabilità scrollandosi un po’ di peso di dosso. Sono ormai le ventidue e c’è ancora un poco di luce, le giornate sono lunghissime ed anche dopo il tramonto non è mai buio completo. Siamo pronti per metterci dentro i nostri sacchi a pelo.
“Chi vuole un sonnifero? Questa notte me sa che ce ne avremo bisogno.”
“Io! Io!” Mi fa Massimo.
Il sonnifero serviva, come da previsioni il vento si è alzato e a dispetto del masso con il muro a secco ci ha strapazzato tutta la notte. Il frastuono non ha però coperto il rombo delle scariche, anche provenienti dalla cresta morenica dalla quale siamo arrivati. La mattina verifichiamo i danni alla tendina di Lorenzo e Massimo, meno tecnica della nostra, un’altra notte simile e il vento se la porta via.
Un po’ assonnati per la nottataccia ci mettiamo in cammino per il sopralluogo. Il ghiacciaio San Lorenzo è relativamente povero di crepacci, ma è ricco di ruscelli che scavano la superficie creando vere barriere. Facciamo molta fatica a trovare i passaggi e a una sosta ci rendiamo conto che sono ore che camminiamo senza allontanarci di molto dal campo. La parete è sempre lontana, sembra un miraggio. Decidiamo che anche questo tentativo è fallito.
“Caccia il binocolo!” Fa Luca a Lorenzo.
Ci mettiamo seduti sui massi trasportati dal ghiacciaio e studiamo il nostro fallimento.
La roccia non è il granito della Patagonia d’eccellenza, pare più gneiss, grigio e fratturato, forse slavato, di certo non compatto. La Torricella nigra è nascosta dalla cresta del Cerro, ma la roccia nera che la contraddistingue è uno strato che arriva anche alla parte alta della nostra torre. E’ probabile sia stata un’eruzione vulcanica a coprire, in epoche geologiche, l’enorme massa ancora da scolpire del San Lorenzo. La parete è li, abbastanza vicina da rivelare fessure e diedri, da intuire una via logica di salita; abbastanza lontana da farla rimanere un sogno.
Non è la prima volta che rinuncio a una scalata, per incapacità, esitazione o semplice sfortuna, questa volta però è diverso. Non siamo professionisti dell’alpinismo, ma neanche sprovveduti avventurieri o intimoriti principianti, siamo umani e comprendiamo che quella parete non è ciò che ci aspettavamo, che anche il metodo scelto non è stato quello giusto.
Nei giorni precedenti alla partenza, con i miei compagni fantasticavamo noi che ci abbracciavamo felici in vetta. Avevo proposto loro un’idea: intitolare la via e la torre al ricordo di Vittorio Arrigoni, un uomo che ha dedicato non una scalata ma la vita a un ideale di libertà. “Restiamo umani” era il suo motto e ci sarebbe piaciuto chiamare in questo modo la nostra strada per la cima e, appunto, noi restiamo umani, con le aspirazioni ma anche i limiti che ne conseguono.
Questa scalata rimarrà un sogno, nella speranza che l’altro sogno, quello di Vittorio, si trasformi un giorno realtà.
Patagonia, gennaio e febbraio 2013, spedizione al Cerro San Lorenzo: Lorenzo Nocco, Luca D’ Andrea, Massimo Massimiano e Roberto Iannilli.
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