Pilastro Parmenide, nuova via sulla Cima dell'Auta
L'1 e il 2/08/2012 Giorgio Travaglia e Stefano Valsecchi hanno aperto il Pilastro Parmenide (500m di VI e A3+ + 100m di II) sulla parete Sud della Cima dell'Auta orientale (Dolomiti, Marmolada). La via era già stata iniziata da Giorgio Travaglia con altri compagni nel 2010
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Il tracciato del Pilastro Parmenide, Cima dell Auta, Dolomiti
Giorgio Travaglia
C'è chi dice che l'alpinismo stia scomparendo. Lo sentiamo ripetere spesso. Ma prendete questa nuova via, il Pilastro Parmenide. Forse vi stupirà (come un po' ha stupito noi) questa difficoltà di A3+ che accompagna il VI. Come un po' di curiosità vi verrà dal fatto che questa "big wall" corra sulla sud della Cima dell'Auta Orientale: un bel paretone, anche impressionante, ma che certo non può reggere in notorietà al confronto con le sue celeberrime vicine, la Sud della Marlolada e la NordOvest della Civetta. Ora magari vi immaginerete, come noi, che chi l'ha aperta siano degli alpinisti e arrampicatori, per così dire, un po' maturi. Sbagliato: Giorgio Travaglia e Stefano Valsecchi hanno rispettivamente 21 e 20 anni. Ma non basta, perché Travaglia a quella linea ha cominciato a "lavorare" quando era anche più giovane, cioè nel 2010, per poi l'anno scorso lasciarla in "sospeso" solo per mancanza di compagni. Detto che i due lo scorso marzo (con Enrico Bortolato) hanno realizzato la prima invernale di Ey de Net sulla Tofana di Rozes, va aggiunto che Giorgio Travaglia è stato iniziato all'arrampicata da Karl Unterkircher e poi che il suo maestro di parete (ovviamente in Dolomiti) è stato Ivo Rabanser. Così, anche a noi, sembra tutto un po' più chiaro. Come ci è sembrato naturale che alla nostra domanda da dove venga la sua passione per l'alpinismo Giorgio Travaglia ci abbia risposto che viene dal padre, dai suoi due maestri Unterkircher e Rabanser, ma anche dalla letteratura alpinistica. "Alcuni testi che mi hanno profondamente formato" ci ha scritto "sono senza dubbio Capocordata di Cassin, Al di là della verticale di Livanos che considero il mio “maestro” ideale; e ancora “Pilastri del cielo “ di Aste, “The Bird” di Radici su Jim Bridwell. Da quest ultimo ho imparato la tecnica di salita big wall. Una cosa che di certo mi ha motivato è stata il pensiero di voler fare le cose che facevano loro, di vivere le stesse situazioni, in quello stile che Livanos definisce 'alla Cassin' quindi i bivacchi non sono più una cosa spiacevole ma parte del gioco e sono ben accetti, come le permanenze in parete di più giorni. Una cosa che tengo sempre a mente è quando Bridwell dice che quando si apre una via nuova non si è lì per fare in fretta, ma per fare il lavoro migliore, perché una via nuova si puo fare nel modo giusto una sola volta! E ricordo che quando leggevo queste cose avevo un approccio più tipico di chi studia che non di chi legge qualcosa per divertimento.Volevo catturare tutti i dettagli per imparare e poter rivivere quelle stesse avventure. Anche il film di Rebuffat "Stelle e Tempeste" che mi ha "insegnato" la tecnica artificiale merita una menzione...". Che dire dunque della nostra partenza o dell'alpinismo che sta scomparendo... forse che il senso dell'alpinismo e per l'alpinismo non ha tempo né età, ed è lì pronto a farsi cogliere e durare per sempre, almeno finché ci saranno pareti e uomini.
PILASTRO PARMENIDE, UNA BIG WALL DOLOMITICA
di Giorgio Travaglia
Luglio 2010
C’è un buchetto, forse il chiodo punta ci sta: stacco dall’imbrago quello più piccolo che ho e con troppe poche martellate le pianto per meno di due centimetri. Non mi convince. Lo sfilo con le mani, prendo una piccola zeppa di legno, riempio il piccolo buchetto, ripianto il chiodo che entra di nuovo per poco, ma almeno adesso non si muove. Lo strozzo con un cordino e lo carico delicatamente:la parete strapiomba e devo affidargli tutto il mio peso. Studio il prossimo passaggio: un gancio poco sopra al chiodo mi permette di scaricare un po' il peso e di guadagnare qualche centimentro; con un piede carico il chiodino, con l’altro il gancio; il chiodo successivo è stretto parente di quello precedente: zeppa di legno, chiodo- dentro qualche centimentro-, cordino e staffe. Ma se adesso partisse questo chiodo, avrei in mezzo anche la distanza guadagnata col gancio e tirerei via anche il chiodo prima e quello ancora sotto. Ma non è il momento di pensare al basso, bisogna pensare a ciò che sta in alto. Ancora chiodini zeppati e ganci verso destra, verso l’uscita dallo strapiombo alla ricerca di una fessurina che dovrebbe condurmi in sosta. Parecchie ore, una ventina di chiodi e parecchio legno dopo, faccio sosta fuori dalla “Pancia delle quattro ore”.
Agosto 2012
I primi raggi del sole ci vedono arrancare sullo zoccolo, schiacciati come siamo sotto ai pesanti sacconi carichi di materiale. Oggi ilmio compagno è stefano Valsecchi di Lecco: è la seconda volta che ci leghiamo assieme ed è la sua prima esperienza su una via in stile Big Wall; per me è la seconda e a vent’anni possiamo ritenerci dei novellini di questa specialità ma come diceva il filosofo Hegel: “non si può pretendere di imparare a nuotare senza prima entrare in acqua”. Una via’ big wall’ ha il suo prezzo e necessita di una meticolosa preparazione e organizzazione. Nelle lunghe ore passate a limare i chiodi e intagliare le zeppe di legno necessarie per l’artificiale difficile dolomitico ho studiato tutto il programma: il primo giorno saremmo risaliti al punto massimo raggiunto due anni fa; la sosta alla fine della “Pancia”, se ci fosse stato ancora tempo avremmo aperto un altro tiro, in caso contrario ci saremmo calati alla cengia sottostante dove , pensavo, potremo bivaccare più comodamente e il giorno dopo finiremo la via.
La seconda opzione sarà poi quella che sceglieremo. Sulla cengia basale gli zaini vengono svuotati da una gran quantità di materiale; oggi l’artiglieria è quella delle grandi occasioni: quaranta chiodi, parecchio materiale per bucare tra spit e rivetti, ganci di varie misure, friends, martelli, punteruolo, punte di scorta, zeppe di legno e tanto altro. Cibo per tre giorni, e sei litri d’acqua.
Verso le cinque del pomeriggio -Stefano ed io- siamo riuniti in sosta alla base del prossimo tiro da aprire: con i chiodi già in posto è stato facile risalire, poi Stefano salendo con le Jumar ha ripulito tutto il tiro. Mentre lo aspettavo ripensavo a due anni fa e alle lunghe ore passate a chiodare la “Pancia”… Le capacità tecniche c’erano già, erano quelle organizzative che mancavano. Una rapida calata nel vuoto ci fa riguadagnare la stretta cengia alla base dei gialli e ci sistemiamo per dormire: io sull’amaca e Stefano sdraiato su una cengetta un po’in discesa.
Il giorno dopo alle sei siamo già operativi, risaliamo la corda lasciata ieri sera. Alle otto il primo chiodo entra con un suono sordo poco invitante. Dalla sosta non si capisce dove sia meglio andare, ma dallo studio preliminare della parete so che a sinistra c’è una fessurina: da sotto è impossibile vederla per via di uno strapiombo che ne escude la vista. Questo tiro si chiama “Il muro di vetro” perché la placca grigia è liscia come uno specchio e ci vogliono sei passi sui ganci e un rivetto da 6mm da cui bisogna alzarsi parecchio sulle staffe perché la fessura sia a portata di chiodo. Alla fine della sottile crepa, traverso verso sinistra su ganci e “chiodi di legno”.Questa fine tecnica di chiodatura la devo a Ivo Rabanser che fin da quando avevo undici anni mi ha’ cresciuto’ come allievo, insegnandomi tutte le finezze dell’arrampicata dolomitica.
Il mio compagno termina di pulire il tiro chiave della via e rapidamente riparte per il prossimo: una fessurina che in certi punti è sottile come una lenza da pesca mi guida verso l’alto: la roccia strapiomba e senza fare economia di chiodi martello a tutta forza.Uscito dallo strapiombo supero una placca verticale con piccoli, ma solidi chiodi. Un pilastrino costituito di materiale alquanto fragile e da trattare con prudenza mi conduce alla base della fessura grigia d’uscita. Mentre Stefano pulisce il tiro isso il saccone e inizio a calcolare i tempi fino alla vetta. Il calcolatore della cordata riparte a tutta forza: è l’ultimo tiro per la cima del nostro “Pilastro”.
Adesso pioviggina, salgo di corsa in libera per la larga fessura,ancora un passaggio mi fa faticare: una staffa penzola nel vuoto, du appigli e su. Ci ritroviamo in cima, ma il tempo per i festeggiamenti dura poco: piove e si iniziano a sentire i primi tuoni dalle parti della Marmolada ed esposti e carichi di ferramenta come siamo… Un tiro su roccia bagnata, l’acqua che cola nelle maniche. La sosta è brutta, ma suona tutto vuoto e di più non riesco a fare. <>. Ora fanno la comparsa anche i fulmini, come direbbe Livanos: un’uscita “a colpi di frusta”. Parto verso sinistra puntando alla cresta, tutto liscio: abbiamo ,sbagliato! Chiodo, calami piano! Dovevamo andare a sinistra. Su di corsa per roccia bagnata con poche protezioni, a sinistra forse…<> C’è un canale! Sale la nebbia, ma faccio in tempo a scorgere sulla cresta il cavo della discesa! Stefano si è caricato sulle spalle il pesante saccone, il tiro è tutto in traverso e in queste condizioni è quanto mai pericoloso. <> Mi segue con calma e decisione : quelle qualità che, soprattutto in queste situazioni, fanno la differenza. Un compagno su cui si può contare.
L’ultimo chiodo della via viene levato e alle otto siamo tutti e due in cima. Scendiamo al buio e nella nebbia. Al rifugio ci aspetta Rino, il gestore. <> Ci accoglie con lo spumante. Una cena da grandi occasioni.
Giorgio Travaglia
SCHEDA: Pilastro Parmenide - Cima dell'Auta Orientale
PILASTRO PARMENIDE, UNA BIG WALL DOLOMITICA
di Giorgio Travaglia
Luglio 2010
C’è un buchetto, forse il chiodo punta ci sta: stacco dall’imbrago quello più piccolo che ho e con troppe poche martellate le pianto per meno di due centimetri. Non mi convince. Lo sfilo con le mani, prendo una piccola zeppa di legno, riempio il piccolo buchetto, ripianto il chiodo che entra di nuovo per poco, ma almeno adesso non si muove. Lo strozzo con un cordino e lo carico delicatamente:la parete strapiomba e devo affidargli tutto il mio peso. Studio il prossimo passaggio: un gancio poco sopra al chiodo mi permette di scaricare un po' il peso e di guadagnare qualche centimentro; con un piede carico il chiodino, con l’altro il gancio; il chiodo successivo è stretto parente di quello precedente: zeppa di legno, chiodo- dentro qualche centimentro-, cordino e staffe. Ma se adesso partisse questo chiodo, avrei in mezzo anche la distanza guadagnata col gancio e tirerei via anche il chiodo prima e quello ancora sotto. Ma non è il momento di pensare al basso, bisogna pensare a ciò che sta in alto. Ancora chiodini zeppati e ganci verso destra, verso l’uscita dallo strapiombo alla ricerca di una fessurina che dovrebbe condurmi in sosta. Parecchie ore, una ventina di chiodi e parecchio legno dopo, faccio sosta fuori dalla “Pancia delle quattro ore”.
Agosto 2012
I primi raggi del sole ci vedono arrancare sullo zoccolo, schiacciati come siamo sotto ai pesanti sacconi carichi di materiale. Oggi ilmio compagno è stefano Valsecchi di Lecco: è la seconda volta che ci leghiamo assieme ed è la sua prima esperienza su una via in stile Big Wall; per me è la seconda e a vent’anni possiamo ritenerci dei novellini di questa specialità ma come diceva il filosofo Hegel: “non si può pretendere di imparare a nuotare senza prima entrare in acqua”. Una via’ big wall’ ha il suo prezzo e necessita di una meticolosa preparazione e organizzazione. Nelle lunghe ore passate a limare i chiodi e intagliare le zeppe di legno necessarie per l’artificiale difficile dolomitico ho studiato tutto il programma: il primo giorno saremmo risaliti al punto massimo raggiunto due anni fa; la sosta alla fine della “Pancia”, se ci fosse stato ancora tempo avremmo aperto un altro tiro, in caso contrario ci saremmo calati alla cengia sottostante dove , pensavo, potremo bivaccare più comodamente e il giorno dopo finiremo la via.
La seconda opzione sarà poi quella che sceglieremo. Sulla cengia basale gli zaini vengono svuotati da una gran quantità di materiale; oggi l’artiglieria è quella delle grandi occasioni: quaranta chiodi, parecchio materiale per bucare tra spit e rivetti, ganci di varie misure, friends, martelli, punteruolo, punte di scorta, zeppe di legno e tanto altro. Cibo per tre giorni, e sei litri d’acqua.
Verso le cinque del pomeriggio -Stefano ed io- siamo riuniti in sosta alla base del prossimo tiro da aprire: con i chiodi già in posto è stato facile risalire, poi Stefano salendo con le Jumar ha ripulito tutto il tiro. Mentre lo aspettavo ripensavo a due anni fa e alle lunghe ore passate a chiodare la “Pancia”… Le capacità tecniche c’erano già, erano quelle organizzative che mancavano. Una rapida calata nel vuoto ci fa riguadagnare la stretta cengia alla base dei gialli e ci sistemiamo per dormire: io sull’amaca e Stefano sdraiato su una cengetta un po’in discesa.
Il giorno dopo alle sei siamo già operativi, risaliamo la corda lasciata ieri sera. Alle otto il primo chiodo entra con un suono sordo poco invitante. Dalla sosta non si capisce dove sia meglio andare, ma dallo studio preliminare della parete so che a sinistra c’è una fessurina: da sotto è impossibile vederla per via di uno strapiombo che ne escude la vista. Questo tiro si chiama “Il muro di vetro” perché la placca grigia è liscia come uno specchio e ci vogliono sei passi sui ganci e un rivetto da 6mm da cui bisogna alzarsi parecchio sulle staffe perché la fessura sia a portata di chiodo. Alla fine della sottile crepa, traverso verso sinistra su ganci e “chiodi di legno”.Questa fine tecnica di chiodatura la devo a Ivo Rabanser che fin da quando avevo undici anni mi ha’ cresciuto’ come allievo, insegnandomi tutte le finezze dell’arrampicata dolomitica.
Il mio compagno termina di pulire il tiro chiave della via e rapidamente riparte per il prossimo: una fessurina che in certi punti è sottile come una lenza da pesca mi guida verso l’alto: la roccia strapiomba e senza fare economia di chiodi martello a tutta forza.Uscito dallo strapiombo supero una placca verticale con piccoli, ma solidi chiodi. Un pilastrino costituito di materiale alquanto fragile e da trattare con prudenza mi conduce alla base della fessura grigia d’uscita. Mentre Stefano pulisce il tiro isso il saccone e inizio a calcolare i tempi fino alla vetta. Il calcolatore della cordata riparte a tutta forza: è l’ultimo tiro per la cima del nostro “Pilastro”.
Adesso pioviggina, salgo di corsa in libera per la larga fessura,ancora un passaggio mi fa faticare: una staffa penzola nel vuoto, du appigli e su. Ci ritroviamo in cima, ma il tempo per i festeggiamenti dura poco: piove e si iniziano a sentire i primi tuoni dalle parti della Marmolada ed esposti e carichi di ferramenta come siamo… Un tiro su roccia bagnata, l’acqua che cola nelle maniche. La sosta è brutta, ma suona tutto vuoto e di più non riesco a fare. <
L’ultimo chiodo della via viene levato e alle otto siamo tutti e due in cima. Scendiamo al buio e nella nebbia. Al rifugio ci aspetta Rino, il gestore. <
Giorgio Travaglia
SCHEDA: Pilastro Parmenide - Cima dell'Auta Orientale
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