Kirghizistan 2019, una storia di amicizia, arrampicata, successi e fallimenti

Nel mese di agosto Giovanni Gallizia, Giovanni Della Porta, Francesco Morerio e Filippo Solaro del Borgo hanno visitato le valli di Kara-su e Ak-su nella regione di Batken, Kyrgyzstan. Tra ripetizioni, aperture di nuove vie e un incidente finale risoltosi al meglio, è stata un’esperienza completa sotto ogni punto di vista. Il report di Francesco Morerio
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Kirghizistan Pamir Alai: sul decimo tiro di Pilgrimage al 1000 years of Russian christianity
archivio Giovanni Gallizia, Giovanni Della Porta, Francesco Morerio, Filippo Solaro del Borgo

Per noi arrampicatori di città e della domenica, abituati a incastrare le giornate in montagna tra i mille impegni social-cittadini, le incombenze lavorative e le finestre di bel tempo, già l'avvicinamento al campo base è un’avventura che merita di essere raccontata. Hanno provato a metterci in guardia: "non è un gioco come in Yosemite!" Non sono riusciti a frenare il nostro entusiasmo, anzi! Non vedevamo l’ora di misurarci con qualcosa di diverso, di nuovo e di sconosciuto.

Sbarcati a Osh, Aeroflot e la sua gestione dei bagagli ci costringono ad una giornata di turismo non preventivata. Pare che qui sia perfettamente normale che i bagagli arrivino con il volo del giorno dopo e ce lo conferma la fila al lost and found delle 4 di mattina. Mentre esploriamo questa città dai confini indefiniti, un vago sentore di rifiuti bruciati ci accompagna: vialoni e parchi di stampo sovietico, abbelliti da monumenti ai caduti e carri armati dell'armata rossa, si alternano a stradine sterrate, case dal tetto di lamiera, fogne a cielo aperto e automobili scassate.

Il mattino successivo, recuperati gli 8 sacconi da 20 kg l'uno, saltiamo finalmente a bordo di un pulmino dal parabrezza scheggiato in direzione Batken, cittadina di dimensioni più modeste. Incontriamo Zhunusbek, titolare dell'agenzia che ci supporta nella logistica: "Zhunu" è un gioviale e rotondo kyrgyzo dalla risata facile e l'inglese stentato. Ci viene presentato anche Nursultan, il cuoco che ci delizierà con carne di pecora per le prossime 3 settimane. Qualche altra ora di strada, sempre più sconnessa, ci deposita nel villaggio di Ozgurush, da noi identificato come "il villaggio che non c'è su google maps". Nel cortile della guest house, sorseggiando thé e masticando frutta secca, assistiamo alla cerimonia della pesa. I borsoni, il materiale da campo e il cibo per due settimane sono pesati con una grossa bilancia. Obiettivo: determinare la numerosità della carovana per i prossimi giorni. Zhunusbek, seduto su una sedia con il taccuino in mano, prende appunti in cirillico. Qualche parola, a noi incomprensibile, con i donkey man, qualche altra con il padrone della guest house, qualche banconota che scivola di mano in mano, rapidissima, e il deal è concluso.

Avvicinamento - day 1
Ci mettiamo in marcia di buon ora, ed è subito evidente l'inerzia di un gruppo così numeroso di uomini e animali, 4 cavalli, 7 asini e 5 donkey man. Il sole si alza in fretta nel cielo facendoci boccheggiare per la calura. Siamo "solo" a 1400 metri alla latitudine di Siracusa.

Un solo sentiero, non si può sbagliare, nessun bivio. 2400 metri più in alto siamo in cima ad un ripido passo dal quale dominiamo le vallate successive. Una traccia di sentiero scende sul versante opposto, ancor più ripida. Nuvoloni all’orizzonte, forse nevicherà. Ci fermiamo silenziosi, ciascuno immerso nei propri pensieri. Forse si comincia a percepire la grandezza e l'isolamento in cui siamo immersi (da 20 ore non abbiamo contatti con il mondo e non ne avremo per i prossimi 20 giorni). Con il buio alle porte arriviamo al campo dove passeremo la notte, gli asini poco dopo; montiamo le tende, trangugiamo qualcosa di caldo e ci infiliamo vestiti nei sacchi a pelo.

Avvicinamento day 2
Mattina fredda e gloriosa, non una nuvola in cielo. L'aria tersa e il freddo ci fanno sentire più a nostro agio rispetto alla calura soffocante e inquinata di Osh. Valichiamo un primo passo con altra vista mozzafiato verso montagne di oltre 5000 metri. La roccia comincia a cambiare e il nostro fiuto, allenato da anni in montagna, inizia a percepire l'odore del granito di cui tutti ci hanno parlato. Non vediamo l'ora di scalare.

Piano piano l'intesa con i compagni di viaggio migliora. Se a Malpensa eravamo quattro singoli, ciascuno con le proprie aspirazioni, i propri sogni e timori verso questa avventura, ora ci stiamo trasformando in una squadra. Aiuta non avere il display di uno smartphone dietro al quale rifugiarsi: gli stessi silenzi mutano, diventando piano piano carichi di ascolto, non uno strumento di difesa né di isolamento.

2000 metri di salita e altrettanti di discesa dopo arriva il campo base. Il panorama è emozionante, tutto intorno roccia. Due ragazzi in mimetica e armati di fucile ci chiedono se abbiamo il permesso per stare qui (siamo molto vicini al confine con il Tagikistan e questa è un area in qualche modo sensibile; proprio in questa valle vennero rapiti Tommy Caldwell e Beth Rodden negli anni ‘90...): glielo mostriamo premurosi e un pò impauriti. Loro sembrano in realtà molto più interessati, abbandonati i fucili in un angolo, a farsi un selfie con noi quattro.

Nuova via
Ce la prendiamo comoda, zainetto leggero, binocolo e via a cercare una linea da salire. L’intestino di Francesco sta lottando senza successo con le novità alimentari ed è costretto a ripetute soste nel bel mezzo della pietraia. Gli altri si avvantaggiano nella ricerca; aiutarsi, supportarsi e sopportarsi nei momenti di fatica è parte del gioco quotidiano, a turno, un po’ per uno, viene il tempo di tutti.

Individuiamo una linea di fessure sulla parete sud-ovest del 1000 years of russian Cristianity (un nome un programma). Una serie lunghissima (la parete è alta almeno 1000 metri) di lame, fessure e diedri appena accennati; la roccia solidissima e molto lavorata ci fa essere ottimisti. Unico dubbio, alcune sezioni di roccia liscia e compatta tra una linea di fessure e l'altra. Si riusciranno a collegare i vari sistemi senza piantare un numero esagerato di spit, o verremo respinti da run-out infattibili?

Lo stile che abbiamo scelto è quello che ci sembra un buon compromesso: non siamo integralisti che rifiutano in toto l'uso dello spit, né abbiamo il livello per aprire una via senza lasciare alcuna traccia. Vorremmo aprire una bella linea, tutta da scalare, su roccia solida e con una sua logica perfetta. Evitiamo il più possibile l'utilizzo degli spit sui tiri (alla fine ne pianteremo 2 su 10 tiri) ma ci concediamo il lusso e la sicurezza di avere soste a prova di bomba, non avendo a disposizione troppo materiale da abbandonare in caso di calata di emergenza. Una via insomma, che si presti ad essere ripetuta, con un tracciato e una descrizione come siamo abituati sulle Alpi.

Si, perché le informazioni sulle vie in zona a volte si limitano ad una foto con una linea disegnata sopra. Dalle informazioni, comunque, e dalla guidina in russo su cui abbiamo messo le mani, non ci sono vie tracciate su questa parete. Ci sembra un sogno, una parete larga 500 metri e alta 1000, un'immensa lavagna ancora vuota. Galvanizzati dall'aver trovato quello che crediamo essere un piccolo gioiello rientriamo al campo base.

Nuova via (Pilgrimage)
La lotta intestinale convince Franco a prendersi un giorno di riposo. Filo, Gianni e Gidi alle 5.30 partono per iniziare il nuovo progetto. Dopo 1 ora e mezza di avvicinamento, su comodo sentiero, le cose note sono finite, ora inizia il bello. La salita è logica e sfrutta le debolezze della parete. 450 metri di lame e fessure collegate da placche compatte e lavorate. Non potevamo sperare di meglio. La giornata è da cartolina, non una nuvola in cielo e il sole pomeridiano ci fa godere il panorama sul Peak Odessa, Peak Usan, Asan e Little Asan. I colori sono quelli tipici dell’alta montagna, il cielo è blu intenso e il granito che diventa rossastro con le luci della sera ricorda il Monte Bianco, il ghiacciaio completa il quadro. Gli ultimi tiri seguono una linea ininterrotta di fessure e diedri più verticali fino alla sosta numero 9. Godiamo da là in cima degli ultimi raggi, di un sogno che si sta concretizzando, del silenzio di una giornata piena e dell’amicizia, quella vera, vissuta, che non ha bisogno di parole per essere capita, anzi. Scendiamo in doppia e torniamo al campo base, è buio, 17 ore dopo. Stanchi ma soddisfatti siamo accolti da Franco che ci aspetta felice e rigenerato dalla giornata di riposo voglioso anche lui ad assaggiare il granito.

Yellow wall
Gianni acconsente ad accompagnare su questa classica della zona Francesco, un pò mogio per aver saltato il primo giorno di apertura. La via è lunga circa 600 metri e le relazioni che abbiamo indicano un solo tiro di 7a, il resto una rampa facile, almeno nella prima parte. Un gruppo di tedeschi al campo base ci conferma questa versione e ci dà qualche dritta sulla discesa che alcune descrizioni raccontano essere rocambolesca. Si parte.

Affrontiamo la rampa in conserva, non entusiasti della roccia e dell'ambiente. Scaliamo in una specie di rampa dietro dove all'inizio scorre anche un pò d'acqua, la roccia non è così bella come ce l'aspettavamo. Insomma ci troviamo come nostro solito a fare gli schizzinosi e a fantasticare sull'ottimo granito della Val Masino...

Arriviamo al tiro duro, pochi movimenti dentro una nicchia scomoda e super esposta, protetta da un "russian bolt", sorta di spit dalla dubbia tenuta piantato qualche centimetro nella roccia. Il passo duro si protegge comunque bene anche con un friend #5. Franco, da primo, è costretto a togliersi lo zaino per riuscire a passare e Gianni gli indirizza diversi insulti quando poi lo deve gestire da secondo; in risposta sorride e fa finta di non sentire, come si fa in questi casi. La via prosegue su difficoltà contenute senza passaggi degni di nota.

Sbuchiamo in cresta e dopo un paio di saliscendi resta solo una breve ma fisica fessura (6a+) che ci porta in cima. La via non è entusiasmante, il panorama sì. Siamo a 3900 e tutto intorno a noi cime che superano i 4000 e il Pik Piramidaly (5400) con il suo ghiacciaio occupano la parte superiore della Kara-Su Valley. Uno spettacolo, tutto, la giornata, essere qui con un amico e aver scalato in 4 ore e mezza una via di 600 metri, nello stile che ci piace di più, leggeri, veloci e sempre sentendoci a nostro agio. Siamo qui e non vorremmo essere altrove. Guadagniamo in fretta un ghiaione di discesa e costruiamo un grosso ometto per indicare il percorso. Due attraversamenti di fiume ci regalano un pò d’acqua dalla dubbia potabilità. Prendiamo quindi una traccia di sentiero che ci riporta sulla morena e da lì in breve al campo base per la merenda pomeridiana.

Ritorno alla nuova via
Esaltati dall'esperienza su Yellow Wall Franco, Filo e Gidi tornano sulla via che stiamo aprendo. Gianni invece, che ha arrampicato due giorni di fila, riposerà e si dedicherà al parapendio. Partiamo presto, dobbiamo scalare i nove tiri già aperti e cercare di proseguire (non abbiamo corde statiche da fissare, noi geni...). Gidi scala da primo tutta la via fino al punto più alto e poi passa a Franco il testimone, che è più fresco per dare il suo apporto alla via. Siamo già saliti circa 450 metri, qui la parete si raddrizza e le difficoltà aumentano un poco, sempre comunque su gradi umani. Una prima dulfer di dita porta ad un passaggio in placca ed ad una seconda dulfer che si protegge bene. Ci accorgiamo di come procedere su terreno completamente ignoto consumi molto le nostre energie mentali: cerchiamo di porci obiettivi di corto respiro, ancora questi 3 metri, e via di seguito.

A vederla tutta insieme, la parete è immensa, impressionante, sembra impossibile riuscire ad uscire. Fuori dalla seconda dulfer Franco si ferma in piedi su un minuscolo pulpito. "Com'è Frenk??" urlano i due soci dal basso. "Liscio" risponde perentorio. Non ci pensa due volte, afferra il trapano, e pianta uno spit per affrontare la successiva placca. Non è il luogo dove rischiare 15 metri di volo. Un breve foro, e rinvio lo spit dell'8 nuovo fiammante (grazie Raumer). In cima alla successiva dulfer una nuova pausa, ansante. Avanti un'altra placca nera lavorata dall'acqua. Si intuisce il tiro successivo, ma non se e quando poter fare sosta. Con 35 metri di corda fuori il posto è troppo invitante. Sosta, sapendo che i soci non saranno d’accordo...

Nel frattempo nuvoloni neri si sono addensati dietro il Pik Odessa (4810 m.), prime gocce e un vento gelido. Siamo a 4000 metri e l'ultima cosa che vogliamo è prendere un temporale a 500 metri da terra e 3 giorni dalla civiltà. Un’occhiata e qualche scambio verbale non molto gentile (il nervosismo si fa sentire) e poi buttiamo giù le doppie. Nove doppie dopo tocchiamo terra, benedicendo lo stile che abbiamo scelto (soste a bomba e linea logica molto dritta). Ovviamente, mentre facciamo su le corde e sistemiamo il materiale esce il sole... nascondiamo trapano, spit, cordoni e maillon sotto un grosso masso, al riparo dalle intemperie. Torneremo.

Tentativo Perestroika Crack
I tre giorni successivi decidiamo di spostarci nella valle attigua (Ak-Su). Abbiamo chiesto e ottenuto che Alì, il cuoco di Dimitri Anghileri, Mirco Grasso e Matteo Motta, cucini anche per noi. Carichi come asini (non abbiamo animali per fare questo spostamento), barcolliamo per 3 ore sotto il peso di tenda e attrezzatura verso quello che per i prossimi giorni sarà il nuovo campo base. La compagnia di altri italiani è molto positiva, si ride, si scherza, ci si sente un pò a casa. Incontriamo un gruppo di francesi venuti in treno dall'europa…

Purtroppo il meteo non è dalla nostra parte. Venti fortissimi e nevicate basse, non una combinazione ottimale per passare la notte sulla cengia di Perestroika Crack. Ne approfittiamo per prendere lezioni macelleria da Alì, che avendo comprato una pecora (viva) dai pastori locali, ci mostra orgoglioso come renderla adatta ad essere cucinata.
Torniamo in Kara-su un po’ tristi. Abbiamo l'impressione che il tempo ci scivoli tra le mani e sappiamo che non avremo altri giorni per provare Perestroika.

Opposite to Asan (Silver wall)
Gidi e Filo approfittano di una mattina di bel tempo per andare a provare Opposite to Asan su Silver Wall. Assieme a Diagonal Wall è una delle classiche della zona. Come tutte le vie qui è lunga, 700 metri, la cima è oltre i 4000 metri ed una lunga discesa porta al campo base. La posizione particolare e l’esposizione permette di godere dei primi raggi della mattina e di un panorama su tutta la valle. Attaccando presto riescono ad uscire prima che inizi il brutto tempo. La discesa con il nevischio sugli sfasciumi richiede molta concentrazione ma con qualche passaggio non divertente tornano felici e bagnati al campo base.

Parapendio di Giovanni Gallizia
L’idea è quella di combinare l’arrampicata con il parapendio, una passione che ormai mi porto sempre dietro. Aprire una via e fare una prima discesa è il sogno nel cassetto. Ho portato dietro un parapendio "da montagna" dal peso e ingombro ridotto (1,5 kg). Lo tengo sempre nel fondo dello zaino e appena le condizioni lo permettono ne approfitto per saltare la discesa a piedi e planare nei cieli ancora inesplorati. Le forti brezze e la mancanza di informazioni mi obbligano ad avere molta prudenza. Ogni volo ha un significato ed un sapore speciale. Decollare dalla base della via appena aperta, una planata con le prime luci o un bel volo nel bel mezzo del trekking di ritorno. Sempre un momento speciale aspettare sdraiato sull’ombra i soci che scendono a piedi, tipicamente non troppo felici della cosa. È tutto parte del gioco e del divertimento, soprattutto mio!

L'incidente di Francesco Morerio
Ogni sera sentiamo un amico, Tommaso, per avere informazioni, anche sul meteo. E’ un bel momento, l’unico collegamento con l’Italia da due settimane a questa parte. Le previsioni, però, ci rendono nervosi. Non sono particolarmente affidabili, ma comunque concordi nel dire che i giorni belli saranno il 19 e 20 agosto, proprio gli ultimi che abbiamo a disposizione prima di rientrare in Italia.

Il 18 agosto Gidi ed io rompiamo gli indugi: vogliamo scalare alcune fessure notate in discesa dallo Yellow Wall settimana scorsa. Gidi mi conferma di averle notate anche lui dalla Silver... è deciso, si va. Dovremmo essere di ritorno a metà pomeriggio, in tempo per gli afternoon showers. Non sappiamo se sia una nuova via, non troviamo nessuna traccia di passaggio in circa 400 metri di arrampicata, non importa, ce la godiamo proprio!

Sbuchiamo in cima sotto una leggera nevicata, solo qualche fiocco, ma quanto basta per metterci fretta. Si tratta ora di traversare su terreno facile fino a guadagnare il ripido ghiaione che ho già percorso in discesa settimana scorsa, dove il grosso ometto indica la strada.Comincio a muovermi in traverso in quella direzione, sento un rumore, poi più niente.

E' un attimo. Un attimo che cambia il volto di tutto, della giornata e del nostro viaggio. Mi volto di scatto e non vedo nessuno, l'istinto è come se già sapesse che è successo qualcosa. Torno sui miei passi, mi sporgo per guardare. Gidi è caduto, rotolando su una serie di balze, lo vedo dall'alto e non si muove, a breve distanza da dove la parete diventa verticale.

Non è mai bello farsi male, ma questo è proprio un brutto posto: nevica, siamo a quasi 4000 e a tre giorni dalla civiltà, senza 112 di sorta da poter allertare... Lo raggiungo, ha gli occhi chiusi, ma respira. Ha una ferita in testa, apre lentamente gli occhi e ancora più lentamente riprende conoscenza. Quelle che seguono sono ore intense, durante le quali l’elenco delle persone da ringraziare si allungherà sempre di più. Coincidenze incredibili sembrano allinearsi per permettere a questa vicenda di concludersi nel migliore dei modi.

Per prima cosa riesco a portare Gidi ad una tenda di pastori, padre e figlio. Non c’è bisogno di molte parole, basta far veder loro la ferita in testa, il linguaggio universale dei gesti fa il resto. Lo lascio con loro e corro giù al campo base ad avvertire Gianni e Filo. Risaliamo e con il satellitare avvertiamo l’Italia, dove Tommaso mette in moto la macchina dei soccorsi. Tutti e tre insieme portiamo a valle il ferito, un po’ a dorso d’asino, un po’ in spalla, aiutati da Andrej, un ragazzo russo che ci aiuta con la gratuità tipica di chi frequenta la montagna.

Arriviamo al campo base con il buio, e dall’Italia ci avvisano che l’elicottero arriverà domani. Possiamo almeno tirare un sospiro di sollievo prima di andare a letto. Solo rientrati in patria scopriremo quante persone si sono spese affinché l'elicottero potesse decollare! Le prime ore della mattina seguente sono un’attesa nervosa per l’arrivo dei soccorsi, che finalmente ci raggiungono e in un paio d’ore ci depositano a Osh. Quì in ospedale, dopo un intervento chirurgico, possiamo finalmente dichiarare chiusa l’emergenza.

Ora che le sensazioni si sono sedimentate posso dire di avere imparato moltissimo da questo incidente. E non si tratta di semplici dettagli organizzativi. Avere un’assicurazione è importante, certo, come lo sono altri aspetti logistici. Avere un referente in Italia, una persona di totale fiducia, e aver avvertito la rappresentanza diplomatica italiana in Kyrgyzstan dei nostri piani. Queste due cose hanno certamente aiutato nell’organizzare in breve tempo un’evacuazione in elicottero. Sarebbe ingiusto non ricordarlo.

Ma non posso dimenticare i momenti vissuti in quella valle, prima di rientrare alla civiltà. Sopra di tutto, ciò che ha fatto la differenza è stato il conoscersi a fondo ancor prima che l’aver già arrampicato insieme, l’essere grandi amici prima che il condividere semplicemente una passione. Abbiamo reagito in modo immediato, semplice e umano, proprio per il nostro legame profondo. Non avrei potuto avere migliori compagni di viaggio in questa avventura.

Giovanni Gallizia (27), Giovanni Della Porta (27), Francesco Morerio (29) e Filippo Solaro del Borgo (26) sono tutti di Milano e ringraziano:
Marcello Sanguineti e Giovanni Pagnoncelli per le dritte e l'entusiasmo iniziale.
Salewa, Wild Country e Raumer per il supporto materiale
Tra i tanti amici, menzione speciale a Giulio Masotti per il servizio taxi
Tommaso Goisis per il suo esserci, sempre.
Massimo Minotti e Cinzia Casali del Cai Milano, senza i quali l'elicottero non si sarebbe mai alzato in volo.
Maria Bespalova, console onorario d'Italia in Kyrgyzstan, per il fondamentale supporto in loco nella gestione dell'incidente.

- SCARICA LA RELAZIONE DI PILGRIMAGE (1000 years of Russian Christianity), Kara-su valley (Kyrgyzstan)




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