Giancarlo Dolfi, l'alpinismo e le Alpi Apuane
Vi risparmio la mia presentazione alla quale il Dolfi non senza una iniziale e giustificata diffidenza, si sottopone. Le parole chiave per superare l’ostacolo si rivelano essere nell’ ordine: Roberto Vigiani e Umberto Ghiandi personaggi con i quali ha condiviso più di una scorribanda alpina.
Da ultimo, del Dolfi avevo sentito parlare da un altro alpinista Toscano "Il Gallorini" (in Toscana si usa sempre mettere l’articolo davanti ad ogni nome), fatto questo che aveva già contribuito a rendermelo simpatico ancora prima di conoscerlo e di stringere la sua mano, che da sola è grande come due delle mie che…già non sono minuscole.
Combinato l’appuntamento, mi accoglie nella sua casa di Grassina vicino a Firenze, scendendo dal trattore. Ha 86 anni e mezzo e si lamenta che a causa dello slittamento di una vertebra sono tre anni che non arrampica. Per un istante provo ad immaginare come sarò io tra 34 anni ma soprassiedo e penso che evidentemente il trattore lo usa per fare fisioterapia.
Ci accomodiamo in casa dove, in nome della ormai conquistata fiducia, lo lascio raccontare a ruota libera cercando di cogliere i momenti più importanti di una vita divisa tra la sua professione di insegnante di educazione fisica e la sua passione per l’alpinismo. Nel giro di cinque minuti già non ci capisco più niente, mi ha raccontato così tante cose di un periodo talmente breve della sua attività, che mi impongo di cercare di guidarlo, solo che non ci vorrebbe uno scalzacani come me a indirizzarlo ma un giornalista di professione.
Mi ero ormai arreso quando, supportato dalla sua dolce signora anch’essa insegnante di educazione fisica, nel racconto mi infila un: ho inventato la settimana bianca per le scuole! Al che cercando di riacchiappare il bandolo della matassa, tra l’incredulo e lo stupito, lo blocco e gli chiedo cosa volesse dire. Voleva dire esattamente quello perché sino ad allora (anni ’60) a livello didattico nessuno aveva osato tanto e visto che doveva consegnare le relazioni delle attività svolte, il provveditorato degli studi, assunti i suoi dati, li estese a livello nazionale dando la possibilità a tutti di integrare le attività scolastiche con "la settimana bianca".
I racconti alpinistici partono dal 1953 quando si iscrive alla scuola Graffer di Trento allora diretta niente po pò di meno che da Marino Stenico. I primi anni della sua attività sono strettamente legati (e la corda ne è il suggello) al Melucci con il quale nel 1958 diviene istruttore nazionale di Alpinismo. Il suo debutto da primo di cordata avviene del tutto casualmente in quanto, durante un tentativo della via Gervasutti alle Fiamme di Pietra del Gran Sasso, una défaillance del compagno gli impone di tentare da capocordata il primo tiro pena il ritorno a casa. Vi riesce, portano a temine la salita e considerato che si trattava della quarta ripetizione la cosa ebbe una certa eco. Insomma fu un vero successo e la fiducia conquistata gli permise di riuscire nel 1955 nell’apertura della via Dolfi Melucci al Procinto. Itinerario questo già precedentemente tentato dal Melucci con un altro compagno, il quale, fortunatamente senza conseguenze, fece un bel volo.
Ormai il Dolfi inizia a farsi conoscere e la sua attività si divide tra le Alpi Apuane, il Gran Sasso e le Dolomiti. Proprio in queste ultime ebbe l’occasione di doversi ergere a paladino delle virtù femminili difendendo un gruppo di giovani ragazze insidiate da un "giovinotto" molto esuberante. Lo acchiappa per gli stracci, lo rinchiude nella grotta dove alloggiava il mulo del rifugio Brentei e getta via le chiavi. Purtroppo per lui quel ragazzo (con cui divenne grande amico) era Cesare Maestri il quale per "punizione" il giorno successivo lo fece girare nudo nei dintorni del rifugio.
Nel 1956 in cinque ore compie la prima ripetizione della via Oppio Colnaghi al Pizzo d’Uccello e nel 1959 ne effettua la prima solitaria senza utilizzare mai la corda… Sai l’avevo portata dietro ma fortunatamente non ho avuto bisogno ne di lei e ne del paio di chiodi che avevo appresso. Pensa mi dice, questa salita era tanto ambita che addirittura Alessandro Gogna alcuni anni dopo mi confessò che aveva pensato e sperato di averne fatto lui, la prima solitaria.
Ripete con Biasin la via Detassis al Crozzon di Brenta nel tempo record di 5 ore e ripete molte delle grandi classiche delle Alpi compiendo anche alcune prime di valore. Tra le quali la via sulla Torre Est del Vajolet insieme a Guido Ridi. Con la signorina Vittorina Frisman (che soccorse tempo prima sul Campanile Basso), ed insieme a Giulio Gabrielli tenta senza successo una via nuova sulla Sud Ovest della cima dei Bureloni, parete che da Predazzo si vede distintamente e che con il Cimon della Pala e con la punta Vezzana costituisce un bellissimo gruppo di vette. Purtroppo dopo una dura giornata di sforzi in artificiale, la cordata dovette arrendersi per la mancanza del materiale adatto ma i tre si lasciarono con il patto di tornare l’anno successivo a terminarla.
In una tragica giornata del settembre del 1959 in Marmolada, nonostante un operazione di soccorso che coinvolse oltre al Dolfi stesso i più bei nomi dell’ alpinismo locale da Stenico a Maestri, il Gabrielli scomparve. Per Giancarlo il patto restava valido quindi in onore dell’ amico decise di tornare sui Bureloni questa volta da solo, ignaro del fatto che pochi giorni prima la via era già stata portata a termine dalla cordata locale formata da Scalet, De Lazzer e Marmolada. Sicchè a soli due giorni dall’apertura dovette accontentarsi di dedicargli la prima ripetizione e la prima solitaria della via da loro incominciata. Sensibilmente emozionato mi soggiunge: Non avevamo portato il perforatore e fuori dal diedro strapiombante non si passava, così quando ero tornato da solo, mi ero portato dietro tutto l’ occorrente ma già dagli strapiombi c’era qualcosa di diverso, non c’era più nessuno dei chiodi che avevamo lasciato la prima volta. Che strano pensai, poi non senza alcuni patemi d’animo, una volta uscito da quella parte strapiombante, ecco spiegato il tutto, una fila di chiodi a pressione era li a testimoniare che ero stato "fregato".
Oramai il Dolfi è veramente conosciuto, nel 1962 apre una via nuova sulla Rocchetta alta di Bosconero, scala molto spesso con Rolly Marchi, con Detassis e viene invitato a Trento a far parte di un gruppo composto da 60 tra i migliori alpinisti dell’ epoca. In quel periodo un certo Francesco Delladio* di Tesero gli prese le misure per realizzare una scarpa da arrampicata su misura per lui, che un po sornione mi dice: chissà che le scarpette Mariacher non le abbiano poi prodotte su quella forma là…a me andavano a pennello!
Da istruttore Nazionale di Alpinismo cresce parecchie figure che diventeranno alpinisti di vaglia ed una su tutte è quella di Mario Verin del quale mi dice: un vero Fuoriclasse.
Il Rulli invece, allievo della scuola Tita Piaz di Firenze, viene testato sulla Steger in Catinaccio e superato l’esame, lo invita ad accompagnarlo al Procinto dove a furia di passare sotto alla parete est si era convinto si potesse salire. C’ero già andato con il Melucci ed avevamo fatto il primo tiro poi, purtroppo egli non riuscì più a venire ed allora mi risolsi di andare con il Rulli. Bivaccammo nella grotta di fronte alla parete, alle 8,30 si attaccò ed alle 19,30 eravamo in cima pronti a scendere dalla comoda via ferrata.
I suoi racconti si dipanano veloci e passano dal tentativo al monte Nona poi concluso dai fratelli Vaccari, alla via Rosy sul monolito del Corno Piccolo al Gran Sasso, realizzata nel 1962 insieme a Gigi Mario. Questi in seguito al primo tentativo ci ritornò da solo e forzò il tratto chiave della via attrezzandolo con barre e fil di ferro arrotolato. Fatto ciò, richiamò poi il Dolfi e gli concesse l’onore, di terminare la via in testa, in quanto questa, era stata da lui vista e concepita.
Oramai è un fiume in piena ed ascoltarlo è un piacere ma il tempo stringe ed ha un sacco di cose da fare tra le quali mettere al riparo il trattore perché ha iniziato a piovere.
Ma dai Giancarlo, ancora una ultima cosa, qual è la salita che in assoluto ti ha più segnato. Lui senza indugiare nemmeno un secondo mi risponde, la traversata solitaria e invernale delle Alpi Apuane. Cime per le quali denuncio la mia ignoranza non le conosco ed i loro nomi (pronunciati con l’accento Toscano) fatico persino a capirli.
La Roccandagia da Ovest a Est, la Tambura e l’Alto di Sella, chi le conosce alzi la mano, ma queste vette hanno lasciato un ricordo indelebile nell’animo di quest’uomo, il quale mi confessa: Avrei sempre voluto scrivere qualcosa su questa realizzazione ma ancora oggi tutte le volte che ci penso mi vengono le palpitazioni perché le apuane d’ inverno "sono di molto" pericolose. Dalla vetta della Roccandagia dovetti scendere disarrampicando su ghiaccio, sino alla sella est con un baratro di 400 metri sul versante nord est che domina Campocatino. Risalii poi abbastanza facilmente la Tambura anche se le condizioni invernali rendevano il tutto quanto mai precario e aleatorio, sino al canale di accesso all’ Alto di sella che,intasato di neve, non mi permetteva di poter arrivare alla cresta di questo colosso delle Apuane. Stetti un po a pensarci poi decisi di attaccare la parete direttamente ma dopo qualche metro gli appigli rovesci mi respinsero. La caduta fu immediata ma la molta neve attutì l’urto e non mi feci nulla, allora dopo una serie di bei respiri, piantai l’unico chiodo che avevo e riuscii a superare il passaggio raggiungendo finalmente la cresta che dopo due chilometri mi portò fuori dalle difficoltà. Ora via, devo mettere dentro 'sto trattore. E con uno scatto da centometrista (alla faccia del mal di schiena) mi semina senza darmi il tempo di fotografarlo mentre doma il suo cavallo meccanico.
Mi sarei ancora fermato delle ore ad ascoltare le avventure di quest’ uomo mite, modesto e moderno che con ironica leggerezza ma soprattutto senza retorica racconta le avventure di un epoca a più oramai quasi dimenticata.
Grazie Giancarlo è stato un privilegio raro poterti conoscere ed apprezzare.
di Elio Bonfanti
*Francesco Delladio fondatore de "La Sportiva ".
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