Francesco Salvaterra e la Traversata dei Puffi, una delle salite più impegnative della Presanella

Il racconto di Francesco Salvaterra della traversata dei Puffi sul Monte Gabbiolo, una delle ascensioni più impegnative della Presanella, effettuata per la prima volta nel 1986 da Urbano Dell’Eva e Danilo Marinolli
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Traversata dei Puffi, Monte Gabbiolo: Piero Onorati lungo lo sperone
Francesco Salvaterra

Con qualche riga vorrei raccontare quella che è stata forse la scalata più emozionante delle molte che ho avuto la fortuna di vivere questa estate. Si tratta di un progetto nato l’anno scorso, nell’agosto 2018. Quella volta io e Piero ci siamo trovati ad aprire una via nuova sulle verticali fessure della Torre Bignami, in val Gabbiolo. Abbiamo chiamato la via Ganita, perché nel quarto superiore della scalata abbiamo preso un micidiale temporale con tanto di grandinata… in ogni caso siamo riusciti a completare la via e la giornata è stata un successo.

Scendendo abbiamo dato uno sguardo alla lunga cresta erta di gendarmi che fa capolino nella parte alta della valle, portando fino in cima alla calotta nevosa del Monte Gabbiolo. Da anni guardavo quelle cime e mi domandavo se qualcuno ci fosse mai salito, dalla bibliografia disponibile pareva di no, è bastato poco per catalizzare anche l’attenzione di Piero e qualche tempo dopo abbiamo fatto un tentativo. Un disastro: nella instabile estate che rimaneva ci siamo arrischiati in una giornata dal meteo instabile infatti dopo 5 ore di avvicinamento e scalata sul complesso zoccolo basale ha iniziato a piovere. Per dare un senso alla giornata abbiamo messo all’asciutto sotto un masso tutto il materiale, è stato un buon sistema per costringerci a trovare il tempo per tornare prima della neve.

Gli impegni sono tanti per entrambi, riusciamo a prenderci solo un giorno e una sera. Partiamo alle 17 dalla val Genova e alla luce delle frontali percorriamo lo zoccolo basale, fino a raggiungere la ripida selletta dove parte la scalata vera e propria. Con perizia da muratori costruiamo dei muretti a secco (i sassi sono tra le poche cose che abbondano) e nei sacchi a pelo, sdraiati nei comodi letti "del pastore", passiamo una notte fredda ma confortevole. L’indomani la scalata inizia con l’attraversamento di un pericoloso canalone e con un paio di tiri che ripercorrono più o meno una recente frana, la roccia è lontana dall’essere bella.

Siamo sulla parete giusta, sulla direttiva dello spigolo della prima torre, che raggiungiamo con alcuni passaggi di 5+. Il sole che ci scalda fa sembrare tutto piacevole ma l’ambiente è veramente severo: siamo nel cuore della valle, tutto attorno guglie slanciate e orridi canaloni, il telefono non prende ma abbiamo con noi una radio con le frequenze del rifugio Bedole e del soccorso.

Nella traversata vorremmo salire tutte le torri, o perlomeno quelle che riusciamo, il nostro ego è troppo tentato all’idea di mettere piedi per primi su una spina di granito alta duecento metri. In breve attrezziamo una sosta a pochi metri dalla prima cima, un blocco di granito squadrato e molto verticale. Seguo un bel diedro lungo una fessurina che si restringe sempre di più, fino a non lasciare posto per le dita. Con la scusa di non perdere tempo piazzo un paio di microfriends e li tiro per arrivare al bordo del piano sommitale, ribaltina poco elegante e… la cima è proprio piccola, come un tavolino da bar, per fortuna presenta un’unica fessura che prende due nut incastrati, ci serviranno per calarci.

Tempo dopo Piero dedicherà questa torre a suo padre, ora si chiama Torre Carletto. Dalla forcella un traverso molto esposto ci porta ad una seconda cima, facile, e in breve ai piedi di una piastra di granito abbastanza allucinante. Alta almeno cinquanta metri e quasi verticale, con ben poche rughe. Per fortuna sulla destra sembra che si possa passare ma abbiamo un tentennamento. Sono le 14 passate e la traversata sembra ancora molto lunga, troppo lunga. Non ce la sentiamo, per scalare leggeri abbiamo lasciato i sacchi a pelo alla base e il giorno dopo abbiamo entrambi impegni, decidiamo di scendere. Verso ovest, appena sotto la piastra iniziamo ad attrezzare una serie di doppie, circa 7 o 8, che ci riportano all’attacco, un po' più leggeri quanto chiodi e stopper.

Settembre 2019
E’ stata una bellissima estate, ho avuto la fortuna di accompagnare i miei clienti in belle scalate che hanno riempito entrambi di soddisfazione, ho scoperto che facendo la guida posso trovare un notevole ingaggio anche scalando ampiamente sotto il mio grado limite e che la felicità del mio compagno è contagiosa! Rispetto all’anno prima ci sono state grandi news: a primavera è nata ia piccola Greta e ad agosto io e Chiara ci siamo sposati. Sono felice, allenato e psicologicamente ben focalizzato sulla salita. Anche Piero non ha smesso di pensarci nel corso dell’anno e di allenarsi, un piccolo infortunio al dito è acqua passata. L’unica cosa che scarseggia è il tempo a disposizione ma nell’unico buco di due giorni che abbiamo il tempo è perfetto, alta pressione e temperature sopra la media stagionale. Riduciamo il materiale al minimo: un sacco a pelo in due con brevetto artigianale "patagonico", fornello, una serie di friends, una piccozza/martello, 4 chiodi, ramponi di alluminio e una piccola scelta di "hook e pecker" * per passare su ipotetici tratti difficili.

Partenza alle 4.30 dal rifugio Stella Alpina, le gambe per un po' vanno da sole, conoscono la strada, ma nella parte finale dell’avvicinamento bisogna stare attenti: si arrampica sul facile ma è abbastanza ripido per farsi del male. Superiamo il punto del nostro precedente bivacco e siamo all’attacco. Nel primo tratto non riesco a ricordarmi dove eravamo passati, manca una sosta… un’altra frana ha sconvolto la parete ma con un traverso ghiaioso si riesce comunque a passare bene, non c’è da preoccuparsi di appigli che si staccano, qui si parla di tavole da surf di svariati quintali che proprio per il loro peso sembrano relativamente stabili.

Sempre alla stessa ora dell’anno scorso raggiungiamo il punto più alto, ma questa volta abbiamo ancora un giorno e mezzo per completare la via. Seguiamo un bellissimo camino verticale di 5+, al margine destro della piastra, in questo e altri tratti simili ci assicuriamo su una sola corda e con l’altra recuperiamo gli zaini. Segue un tiro abbastanza difficile e siamo alla base del cubo finale, all’apparenza insuperabile se non con una piramide umana che si potrebbe imbastire con un paio di cordate da tre climbers… peccato. Proseguiamo con una breve calata e un tratto di cresta. Alle 18 siamo alla base di un gendarme dall’evidente forma di frate e accade il fattaccio...

Piero mi fa: "ma quello è un chiodo?" Io dico subito:"impossibile, spuntato dal nulla!?" Faccio una foto alla fessura lontana una ventina di metri, zoom e… maledizione è proprio un chiodo! Le domande su dove, come e chi ci accompagnano mentre liberiamo dalla neve l’unico piccolo terrazzino disponibile e prepariamo la cena. Un’ottima busta liofilizzata a testa, nei miei vari viaggi in Patagonia ne ho mangiati a carrelli: indipendentemente dal gusto che si scelga hanno più o meno tutte lo stesso sapore, ma quale squisitezza quando si ha scalato tutto il giorno mangiando un pugno di frutta secca!

Le temperature andrebbero bene, il sacco a pelo modificato è sufficiente, però la suite è abbastanza scomoda… abbiamo il sedere su una piastra sporgente verso il basso e la schiena appoggiata alla parete. Ad un certo punto per evitare di ciondolare continuamente con la testa mi costruisco una specie di fascia da samurai che ancoro a un friends. Facciamo una lunga serie di micro sonnellini guardando spesso l’orologio, tutto sommato come diceva Mark Twight: "se in un bivacco sei molto comodo, vuol dire che hai sbalgliato qualcosa e sei troppo pesante!"

Alle prime luci, godendoci un’alba strepitosa sul gruppo dell’Adamello, sorseggiamo un caffè con biscotti, giusto prima di scaldarci le dita sul tiro dei chiodi misteriosi. E’ l’unica linea logica, un sistema di fessure strapiombanti e lichenose con quattro chiodi, un bong e un nut incastrato. Saliamo per alcuni metri in artificiale per poi proseguire in libera fino a un buon punto di sosta. Come spesso capita sul granito i chiodi dondolano nelle crepe e si levano quasi con le mani. Un tiro sempre difficile ci porta appena al lato del gendarme del frate e da qui un filo di cresta porta sotto l’ultimo gendarme: bello, verticale e solcato da fessure dall’aria molto difficile. Quando lo raggiungiamo scopriamo che è facilmente aggirabile sulla destra, seguiamo la logica e con una breve doppia scendiamo nel canale e aggiriamo la cima fino allo spigolo opposto.

Non è tardi e decidiamo di scalare lo spigolo N per arrivare in cima alla slanciata torre che successivamente battezzeremo "del vecchio" (il perché lo potrà scoprire un acuto osservatore). Un buon 4+, la cima vera e propria è troppo grande per passarci attorno una fettuccia e non ha fessure quindi scaliamo in discesa fino a uno spuntone. Ci caliamo da una fettuccia che testimonierà il nostro passaggio. Ormai ci siamo, seguendo un canale detritico sbuchiamo sul filo di cresta del Monte Gabbiolo a circa 3400m. Il panorama cambia di botto, da terreno molto ripido e roccia si passa a un ghiacciaio e a pareti molto più morbide, ci sono delle postazioni militari risalenti alla prima guerra mondiale.

Un primo tratto di ghiacciaio a tratti anche ripido ci porta a incrociare la via normale della Presanella da nord, che sale alla sella di F, e in breve al passo Cercen. Tanto ci ha impegnato la salita quanto ora possiamo rilassarci, ci aspetta un lungo trekking, di quelli che schiantano le ginocchia, ma dopo un’avventura così lo zaino è leggero come lo spirito.

TESSERE MANCANTI.
POST-SCRIPTUM

Tornato a casa ho iniziato l’indagine: interpellato l’amico Matteo Bertolotti (biblioteca dell’alpinismo vivente) è riuscito a scovare un trafiletto pubblicato su "Lo Scarpone" nel 1988. Ecco scoperto di chi sono i chiodi. Urbano dell’Eva è stato uno dei maggiori frequentatori di queste montagne negli anni '70 e '80, le sue vie sono sempre logiche e dai gradi stretti, è morto circa quindici anni fa. Una breve chiamata al comune di Malè mi permette di rintracciare il numero di telefono di Danilo Marinolli, suo compagno in quella avventura. Danilo si ricorda perfettamente della scalata e in più ha delle bellissime diapositive che scansiona e mi invia. La foto di Urbano in alto nel diedro a destra della piastra del grande puffo è spettacolare e, avendolo scalato, sono impressionato dalle corde libere al vento: nessuna protezione su un tiro di 40 metri di 5+. Sicuramente i due andavano molto forte, ripetere la loro realizzazione è stato un piacere e un’avventura memorabile.

di Francesco Salvaterra 6 ottobre 2019

*Cliffhanger e picchi sono materiale da artificiale che si piazzano su esili tacche o in fessure molto sottili.


SCHEDA: Traversata dei Puffi, Monte Gabbiolo, Adamello


Salvaterra ringrazia per il supporto: Climbing TechnologyFerrino, Zamberlan, Lizard, Salice

Info: www.francescosalvaterra.comFB Francesco Salvaterra




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