Everest, una lunga scalata verso la felicità. Di Luca Montanari
Non c’è alcun dubbio: la felicità gode della proprietà transitiva. Stabilisce una relazione binaria tra le persone che hanno in comune una passione, un sogno o un sentire e le mette in connessione tra loro. Ma va ben oltre un principio matematico: travalica gli insiemi, ne abbatte i confini e moltiplica i suoi effetti all’infinito. Questo fa la felicità, se condivisa.
Io e Andrea Lanfri abbiamo raggiunto la vetta dell’Everest il 13 maggio 2022 alle 5.40 ora locale. Quello che abbiamo realizzato è la dimostrazione di quanto può essere contagiosa la felicità, arrivando al cuore di chiunque abbia conosciuto e letto questa storia o se ne sia imbattuto per puro caso. Una storia di resilienza, tenacia, determinazione e di una passione condivisa, dove la parola ‘impossibile’ perde il suo significato e diventa solo un limite, come tanti, da superare. Sul tetto del mondo ci siamo arrivati davvero. E a ognuno di voi spero sia arrivato, forte e chiaro, il messaggio che volevamo consegnare: ‘siate felici. E alle vostre vite lasciate che ci pensi la Vita’.
Putha Hiunchuli, settembre 2019. La mia avventura con Andrea è cominciata nel 2019, quando l’ho conosciuto. Prima di allora, non sapevo la sua storia: colpito da una meningite fulminante all’età di 29 anni e rimasto senza arti inferiori e senza sette dita, Andrea è stato in grado di ripensare completamente la sua vita ricreando nuovi equilibri, nuove quotidianità e nuovi obiettivi. Non solo si è rimesso in gioco, ma nel giro di pochi anni ha ottenuto grandi successi sportivi, ottenendo una medaglia di bronzo ai campionati europei paralimpici sui 200 metri e un argento ai mondiali nella staffetta 4x400. Nel tempo si è avvicinato all’arrampicata e all’alpinismo, fino ad accarezzare progetti molto ambiziosi.
Quando ci siamo sentiti la prima volta, Andrea aveva già scalato un seimila in sud America e puntava al tetto del mondo. Tra di noi la sintonia è stata immediata: l’amore per la montagna, il fascino delle altissime quote e il gusto per un alpinismo di tipo esplorativo. Prima di affrontare il tema Everest, però, abbiamo convenuto che fosse meglio scalare un settemila di preparazione, per testare sia la quota che la gestione delle protesi nell’ambito di una spedizione decisamente più impegnativa di un seimila. Nel settembre dello stesso anno siamo partiti alla volta di Putha Hiunchuli (7234 metri), una vetta della catena del Dhaulagiri, nella regione del Dolpo, una zona piuttosto remota del Nepal Centrale.
Quell’esperienza è stata molto avvincente sotto ogni punto di vista: abbiamo avuto la possibilità di vivere una spedizione di altri tempi in un ambiente remoto e poco frequentato, abbiamo condiviso lo stesso modo di intendere la vita da spedizione e abbiamo creato un legame molto forte con il team di sherpa, gli stessi che ci hanno accompagnato anche sull’Everest.
Andrea ha fin da subito mostrato un grande adattamento alla vita di spedizione: il suo modo di essere positivo e sereno, la sua resilienza e la sua incredibile forza di volontà mi hanno fatto capire sin dal primo momento che non solo saremmo arrivati in cima al settemila, ma molto più in alto, in futuro. Quando abbiamo raggiunto la vetta dell’Hiunchuli, è stata un’esplosione di pura gioia: un grande traguardo per Andrea e una enorme soddisfazione per me come guida e come persona, perché mi sono sentito parte di un disegno davvero grande, dove ho percepito per la prima volta il senso dell’impossibile farsi piccolo, al punto da diventare qualcosa di veramente fattibile: un progetto da realizzare, un limite da superare, un obiettivo da raggiungere.
Dopo Putha Hiunchuli, il progetto Everest è diventato la priorità per entrambi, tenuto in standby dai due anni di pandemia e finalmente diventato realtà nel maggio di quest’anno.
Il Nepal, l’Everest e la sensazione di essere a casa. L’arrivo in Nepal, il caos ‘accogliente’ di Kathmandu, le facce familiari di collaboratori e amici che ormai conosco bene da più di 10 anni che mi sono mancati molto in questi due anni di assenza… tutto questo è per me un po’ una seconda casa e poter finalmente tornare, dopo due anni di assenza, è stato una boccata di ossigeno e di gioia.
Come sempre, il trekking di avvicinamento è un modo per entrare gradualmente nel vivo dell’ambiente e pregustare quella che sarà la vita al campo base. Una volta arrivati, abbiamo pianificato la nostra routine giornaliera e abbiamo iniziato a prepararci per l’acclimatamento.
Per testate il nostro stato fisico e migliorare l’acclimatamento, insieme agli Sherpa abbiamo salito il Lobuche East, una cima di 6120 metri ad un paio di giorni di distanza dal campo base. Quel warm up, come lo abbiamo scaramanticamente chiamato, è stato un modo per rompere il ghiaccio e una bella iniezione di fiducia ed adrenalina.
Le rotazioni dell’acclimatamento sono andate tutte secondo i nostri piani, permettendoci di completarlo nei tempi e modi stabiliti. Nella fase più delicata della spedizione, quella che precede la salita fino alla vetta, è fondamentale tenere la concentrazione alta e fare scorta di tanta energia e tanto entusiasmo che né io né Andrea ci siamo fatti mai mancare: l’emozione e la gioia di essere ad un passo dal tetto del mondo sono stati per noi fonte incredibile di forza e determinazione, insieme ai numerosissimi messaggi di familiari, amici e conoscenti che continuavano ad arrivare da casa.
La salita. La notte del 12 maggio abbiamo raggiunto quota 7900, il mitico Colle Sud dove si trova il campo 4. È la death zone, un posto che oserei definire davvero estremo, dove il vento si incanala ed è sempre fortissimo, al punto che è praticamente impossibile stare fuori dalle tende, ma anche riposare all’interno, dato il rumore continuo. Abbiamo cercato di riposare per qualche ora e poi, alle 19, è cominciata quella che sarebbe stata per me la salita più incredibile mai realizzata fino ad oggi: l’Everest, il tetto del mondo, la montagna più alta della terra, il sogno e l’ambizione di ogni alpinista.
Prima di partire ci siamo dedicati ad un lavoro di squadra certosino e ben oliato: in questi momenti non bisogna tralasciare nulla, è necessario verificare ogni punto della to-do-list prima di uscire dalla tenda, scaldare molto bene i piedi, indossare e allacciare bene gli scarponi, verificare tutone, guanti, passamontagna, fare il check dello zaino, acqua e barrette o gel nei tasconi del tutone a portata di mano e al caldo, fare il check dell’ossigeno.
In vetta! La notte della cima usciamo dalle tende, ci muoviamo come astronauti nei loro tutoni, ci guardiamo in faccia: io, Andrea, Mingma e Lakpa. Pronti, segno OK, si parte. Abbiamo l’ossigeno, ma i movimenti sono comunque lenti perché il fisico è provato dalla stanchezza e dalla quota. Il pendio si fa sempre più ripido, il mondo intorno a noi sembra essere quasi irreale. Passano le ore, avanziamo lenti, è ancora buio, il cielo stellato sopra di noi sembra incoraggiare i nostri passi. In lontananza si scorge qualche temporale, ma non ce ne curiamo: sono molto lontani. Quando arriviamo in cresta, attaccati alle corde fisse del passaggio più esposto dell’Hillary Step, riesco a dare un’occhiata in basso fino a scorgere le lucine del campo 2, ben 2400 metri sotto.
I momenti immediatamente precedenti la vetta sono caratterizzati da un vero e proprio stato di grazia: nonostante la fatica e il freddo, ci si ritrova ad un passo da un obiettivo sognato per tre anni, o meglio da tutta la vita. Ogni cosa va gestita in modo quasi chirurgico: il compagno di cordata, un passo dopo l’altro, il respiro, lo sguardo. Persino le emozioni vengono accompagnate nella salita con cura ed attenzione, perché un momento così intenso e fortemente voluto difficilmente sarà replicabile, sicuramente sarà indimenticabile.
Finalmente l’alba, il sole, la Vita. Con la prima luce il mio corpo si risveglia, la mia mente si riattiva ma qualcosa sembra trattenermi nel fare gli ultimi metri: non è la stanchezza, ma sono io stesso che mi lascio attraversare da un fiume di emozioni. Mentre faccio gli ultimi passi mi rendo conto che ho bisogno di rallentare, ho l’ossigeno ma mi manca il fiato, ho un groppo in gola che mi blocca, sento che sto per esplodere. Allora mi siedo, guardo la statua di Buddha sulla cima, mi giro verso l’alba e e mi ascolto. Mia moglie, il mio papà, la mia famiglia, i miei amici… li vedo tutti qui, insieme a me. Prendo coraggio, mi faccio uomo e lascio correre le lacrime sotto la maschera. Il groppo in gola si scioglie e io e Andrea ci abbracciamo finalmente sull’Everest, disegnando la curva della Terra con lo sguardo e condividendo tutta la felicità del mondo!
Molto più di un team: una vera alleanza. C’è qualcosa che non viene mai detto delle spedizioni, secondo me: è una sorta di vera alleanza che i compagni di cordata sperimentano e che, una volta scoperta, è impossibile abbandonare. Io, Andrea, Mingma e Lakpa siamo stati non solo una cordata vincente, ma anche protagonisti di un disegno molto più grande di noi, perché con questa vetta abbiamo forse toccato un pezzettino di felicità universale, riuscendo a condividerlo con tutti: amici, parenti, perfetti sconosciuti.
Dopo aver toccato il cielo "con tre dita", come ama dire Andrea, ho ancora più chiaro in mente che ognuno ha il suo Everest da scalare, che ogni percorso di vita costa sforzi, fatica e talvolta pericoli da superare. Ma con le persone giuste e le giuste connessioni, niente si disperde e ogni cosa torna al suo posto, preparando ognuno di noi alla sua salita più bella, nel momento giusto. In realtà il disordine che ci pervade, così come le mancanze che spesso lamentiamo, è solo apparente: la verità è che tutti noi abbiamo i numeri, la forza e le capacità per realizzare quello che vogliamo. Dobbiamo solo avere fiducia in noi, nelle persone, nella Vita e lasciarci guidare dalla felicità.
di Luca Montanari
Link: IG Luca Montanari, andrealanfri.com, IG Andrea Lanfri, FB Andrea Lanfri, Ferrino, La Sportiva