Divine Providence sul Grand Pilier d'Angle e la prima invernale del 1992. Il ricordo di Roberto Bressan

Il ricordo di Roberto Bressan della prima invernale di 'Divine Providence' sul Grand Pilier d'Angle, effettuata insieme Saverio Occhi e Paolo Tamagnini nel gennaio del 1992. Sbucati in cima al pilastro, per via del maltempo i tre sono stati costretti a scendere. Aperta nel 1984 dai francesi Patrick Gabarrou e François Marsigny, ancora oggi rimane una via di riferimento nel gruppo del Monte Bianco.
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Sui tiri chiavi della 'Divine Providence' sul Grand Pilier d'Angle (Monte Bianco) durante la prima invernale fino in cima al Grand Pilier d’Angle, effettuata da Roberto Bressan, Saverio Occhi e Paolo Tamagnini nel gennaio del 1992
archivio Roberto Bressan

In quattro giorni del luglio 1984 Patrick Gabarrou e François Marsigny hanno aperto quello che nel corso degli anni sarebbe diventato uno dei assoluti simboli d’alpinismo mondiale,  la via Divine Providence al Pilier d’Angle del Monte Bianco. Gradata originariamente ABO la via offriva, e offre tutt’ora, un’arrampicata difficile e tecnica in un ambiente austero e remoto e, sebbene siano passati praticamente 40 anni, Divine Providence rimane un ambito progetto per alpinisti proveniente da tutto il mondo. Nel 1990 la via era stata salita in libera per la prima volta da Alain Ghersen e Thierry Renault, mentre due anni più tardi tre 25enni aspiranti guide alpine, Roberto Bressan, Saverio Occhi e Paolo Tamagnini, hanno compiuto la prima salita invernale, fino in cima alla Gran Pilier d'Angle prima di dover scendere sul versante ovest per via del maltempo. La prima invernale fino alla cima del Bianco, passando attraverso la Cresta de Peuterey, viene poi portata a termine in 5 giorni nel dicembre del 1992 dagli inglesi Brendan Murphy e Dave Wills. Ancora oggi la salita di Bressan, Occhi e Tamagnini, nonostante l'importanza, è assai poco conosciuta e ci è sembrato giusto riviverla attraverso i ricordi dell'alpinista padovano. Non solo per fare un tuffo nel passato, ma anche per interrogarci su alcune questioni pertinenti anche nel presente.

DIVINE PROVIDENCE IN INVERNO di Roberto Bressan

Sono passati 32 anni. La mente scava nei ricordi e a fatica riproduce immagini confuse. Ci eravamo conosciuti ai Corsi Nazionali di Guida Alpina e avevamo il fuoco della passione per ogni attività che si svolgeva in montagna. Saverio e Paolo più occidentalisti e io più climber dolomitista.

Una sera ricevo una telefonata da Paolo “Saverio e io vorremmo andare a fare Divine Providence sul Pilier d’Angle tra dicembre e gennaio, ci manca un terzo, verresti?”. La risposta che gli detti mi fa ancora raggelare il sangue! “Sì volentieri, vengo”. Non ci pensai un istante, anche se non sapevo neanche di che cosa si trattasse… io sul Bianco prima di allora avevo fatto, mi pare di ricordare, la Kuffner, la cresta di Peuterey, qualcosa sulla Lachenal, Aguille Du Diable e poco altro.

Ricordo il viaggio in autostrada da Padova fino a Courmayer senza gli anabbaglianti, in quanto entrambi fulminati il giorno prima. Mi verrebbe da dire che i fulminati erano tre, i due anabbaglianti ed io! Ricordo anche la selezione del materiale alla base della funivia, la salita al Torino, le parole del gestore e i suoi occhi che alla domanda “Dove andate?” si è sentito rispondere “Divine Providence” ci guardò come dei condannati a morte; non lo biasimo, avrei pensato lo stesso vedendo tre ragazzotti sconosciuti. In realtà Paolo e Saverio avevano già un curriculum alpinistico su Occidentali e non solo di tutto rispetto, ma erano entrambi molto riservati sulle imprese che facevano.

Mentre scrivo mi sale una vena di tristezza. Eh sì, perché quel ricordo è legato in maniera indelebile ad un altro. Qualche mese dopo la nostra salita passavo in soggiorno di casa e per caso l’orecchio cade sulle notizie che sta dando il cronista del telegiornale. ”Precipita alpinista sul Monte Rosa e perde la vita: il suo nome è Saverio Occhi.” È come se avessi ricevuto una pugnalata al cuore e da quel giorno tutto è cambiato. Sì, perché come ha già detto Manolo, noi “credevamo di essere immortali….”

Nei giorni seguenti il funerale straziante e gli occhi della mamma. Mi sentivo quasi colpevole di far parte di quel mondo che in un attimo le aveva portato via il figlio. Saverio un concentrato di potenza, entusiasmo e tecnica. Come Paolo d’altronde, infatti non c’è dubbio che debba a loro la riuscita dell’impresa. Mi avevano chiamato perché forse al tempo facevo un grado più elevato di loro in arrampicata e pensavano che magari sarei potuto tornare utile nei passaggi più difficili…niente di più sbagliato. Io finii per fare il gregario e Paolo indossò le scarpette d’arrampicata per troppo tempo con conseguente congelamento alle dita dei piedi, curato nei mesi successivi con un elettrostimolatore portatile collegato alla spina dorsale che dava continui impulsi per stimolare la circolazione periferica.

Ricordo la salita alla Fourche, il breve riposo, la discesa in Brenva, il superamento di un seracco che, siccome avevamo solo tre piccozze, uno saliva con due e poi calava le picche all’altro! I tre bivacchi in parete, sempre scomodi (l’ultima notte al Torino il termometro aveva segnato -27°) e con le luci di Courmayer che sembravano così vicine e così sbeffeggianti… il caldo e la comodità erano lì e si prendevano quasi gioco di noi. I tiri di corda sempre molto lenti, laboriosi e pieni di imprecazioni. Le risalite sulla mezza corda che con il peso dello zaino sembrava un cordino da 6mm. Il guanto che mi cadeva e mi faceva capire la verticalità dello scudo. L’ultima notte che veniamo svegliati da una fitta nevicata e quindi prendiamo la decisione di salire fino alla cima del Pilier per poi ridiscendere senza passare per la cima del Bianco… si rivelerà una saggia decisione in quanto la nevicata poi metterà giù più di un metro di neve, e se avessimo proseguito per la cima non avremmo fatto altro che avverare il pronostico del gestore del rifugio Torino! Ricordate i tre condannati a morte?

Ricordo ancora lo sfinimento che mi prese prima di risalire alla Fourche e la medicina che mi diede Saverio (una bomba che in poco tempo mi fece resuscitare e che gli aveva dato il suo amico medico di cui non ricordo il nome che lo accompagnava in ogni sua impresa e che in quei giorni ci seguiva dal rifugio Torino). Le corde doppie finali dalla Fourche e l’emozione perché capivamo che ce l’avevamo fatta! Eravamo salvi, poi c’era il calvario della risalita al Torino con sci e pelli di foca che ci avevano portato amici che ci erano venuti incontro. Ognuno con il suo passo in silenzio, con un misto di gioia e amarezza. Sì perché quei giorni ci avevano svuotato sia nel corpo che nella mente. Avevamo percepito che avevamo sfiorato il limite e forse anche superato. E che fortunatamente come dice Vasco “io sono ancora qua…” E poi la notte al Torino insonne per tutti e tre causa adrenalina e sete. Sì, ero completamente svuotato tanto che in quel periodo ero allenato e facevo abbastanza tranquillamente la trazione monobraccio, mentre nei 15 giorni successivi non riuscivo neanche a fare una trazione con due braccia!

E poi gli articoli su Alp e sulle testate locali a cui davamo sempre le poche foto disponibili perché il sottoscritto ha scattato le foto con la sua Minox senza rullino inserito…. Vi ricordate i tre fulminati? I due anabbaglianti e il sottoscritto… E poi, appunto, quel triste periodo successivo che sicuramente ha portato sia me che Paolo a vivere la montagna in maniera differente. L’anno successivo sono andato in Patagonia, ma comunque qualche cosa era cambiato.

Siamo stati come alcuni calciatori che esordiscono in serie A e poi più nulla, tant’è che poi negli anni successivi nasce la diatriba se fosse o meno la prima invernale, visto che l’anno dopo degli inglesi più blasonati di noi la fecero andando sino in cima al Bianco. Questione a cui sia io che Paolo non abbiamo mai risposto. Mi pare che in qualche guida come prima invernale siano nominati solo loro. Sinceramente non mi interessa e per me non ha importanza, ma mi sono sempre domandato se per Saverio non sarebbe stato più corretto mettere i puntini sulle “i”. La mia non vuole essere una polemica, a distanza di 32 anni sarebbe ridicolo, ma solo uno spunto di riflessione; pensate che non so nemmeno se i primi salitori o chi fece la prima solitaria o la prima libera sia poi passato per la cima del Bianco (probabilmente sì, ma non è mai interessato).

Nell’alpinismo è un tema molto sentito, tant’è che erano stati messi in discussione i 14 ottomila di Messner; ormai il Pesce (via Attraverso il Pesce – Marmolada) spesso viene fatto fino alla fine delle difficoltà, o quante volte ho fatto il Gran Muro al Sass dla Crusc con i clienti senza mai andare in cima alla croce, e pensandoci bene facendo le vie sono più le volte che non si arriva fino in vetta rispetto a quelle in cui questo avviene. Qual è allora la linea di demarcazione? Io penso che debba prevalere il buon senso.

Nel nostro caso ritengo che vadano menzionate entrambe le prime invernali, sia la nostra che quella degli inglesi specificando una fino al Pilier e l’altra fino alla cima del Bianco, come debbano essere riconosciuti i primi 14 ottomila a Messner. Per tutte le altre salite ognuno in cuor suo sa che cosa ha fatto, e per quanto mi riguarda, ognuno deve vivere la sua esperienza godendosi ogni attimo della salita, della discesa e del rapporto con il/i compagno/i. Viviamo l’esperienza per noi stessi e non per gli altri; non puntiamo ad una collezione di salite ma pensiamo a vivere il presente assaporando tutti i profumi, i colori e le emozioni che l’arrampicata o anche la passeggiata sono in grado di offrirci.

Mi trovo a scrivere questo articolo in un periodo della mia vita in cui, a quasi sessant'anni, ho riscoperto il piacere e la voglia di accompagnare le persone in montagna. Da giovane cercavo di accompagnare i clienti su vie più impegnative possibili ed ero più orientato al blasone della via e al grado; ora ho un approccio completamente diverso, volto alla persona/cliente e voglio trasmettergli le sensazioni positive e i benefici che può dare un’arrampicata, una salita su ferrata o una passeggiata sia sul piano fisico che su quello interiore. E mi piace pensare che in ogni gita che andrò a fare mi porterò dietro un po' di Saverio, del suo entusiasmo, della sua forza, del suo amore per la montagna e della sua etica.

di Roberto Bressan

Divine Providence, Grand Pilier d’Angle, Monte Bianco
Prima salita: Patrick Gabarrou, François Marsigny, 5 - 8 agosto 1984
Prima ripetizione: Michel Fauquet, Pierre-André Rhem, David Ravanel, Jérôme Ruby 07/1989
Prima libera: Alain Ghersen e Thierry Renault 13-14/07/1990, terza salita
Prima solitaria: Jean Christophe Lafaille, 4-5/08/1990, quarta salita
Prima invernale fino in cima al Grand Pilier d’Angle: Roberto Bressan, Saverio Occhi e Paolo Tamagnini, 05-08/01/1992. Per via del maltempo sono stati costretti a tornare indietro
Prima invernale completa: Brendan Murphy, Dave Wills 24-28/12/1992
Prima solitaria invernale: Alain Ghersen 10-14/02/1993
Prima femminile: Nina Caprez, insieme a Merlin Benoit 07/2016




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