Diario di una solitaria al Gran Sasso di Roberto Iannilli
Il 16 luglio 2011 Roberto Iannilli ha realizzato la prima solitaria di King Kong's Crack (240m, ED-, passi di VII) la via aperta nel 1988 da Roberto Barberi, Giuseppe Barberi e Paolo Abbate sulla parete sud de Le Strutture del Pizzo d'Intermesoli (Gran Sasso d'Italia). Il diario di questo lungo, sofferto e personalissimo viaggio che, tra andate, ritirate e ritorni, è lo specchio dell'alpinismo e di un uomo che sempre cerca di trovare se stesso.
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Solitarie al Gran Sasso. Storie tra andate, ritirate e ritorni,
archivio Roberto Iannilli
VADO! di Roberto Iannilli
Sabato 18 giugno 2011
"Vado!"
"Ti tengo, vai pure." Ivo accompagna la risposta con un segno di assenso.
Sgancio il moschettone a ghiera che mi assicura e inizio a scendere arrampicando nel canalino, proprio sotto la sosta. Traverso due o tre metri verso destra, in direzione della fessura, la famigerata fessura di King Kong's Crack. Da qui ancora non è visibile, è coperta dallo spigoletto del diedrino che è alla sua base.
"Occhio Ivo, non posso mette' gnente!"
"Vai Robbè, ti guardo!"
Studio il passaggio e poi capisco. Scendo ancora un poco e quindi, arrampicando ancora in orizzontale, supero lo spigoletto e mi ritrovo alla base della fessura. Non fa una bella impressione.
"Come ti sembra?" Mi chiede Ivo dalla sosta.
"Stronza assai!" La immaginavo più larga, ho infatti portato dei friend grandi, che a questo punto sono inutili.
Metto le gambe in opposizione sulle due facce del diedro, trovo la postura che mi permette di restare quasi in equilibrio, senza dover tirare con le braccia, e osservo quello che mi aspetta, cerco di intuire la difficoltà e il modo di risolverla.
Quasi trent' anni di arrampicate mi hanno insegnato a decifrare la roccia, a capire quanto difficile e pericoloso potrebbe essere il tratto che devo scalare. Non ci azzecco sempre, ma l' impressione che ne ricavo è generalmente abbastanza vicina alla realtà e quello che ora intuisco non mi piace affatto. Il piccolo diedro va a morire sotto uno strapiombetto ed è seguito da un tratto verticale e dall' aspetto davvero malevolo. Come se non bastasse la larghezza della fessura è troppo omogenea per sperare di piazzare friend e nut di misure diverse, avrei dovuto portare una serie di numeri uguali e non una mazzetta assortita. Ciò significa che dovrò mettere e togliere più volte la stessa protezione, in modo da riutilizzarla, e quindi trovarmi con tanta corda libera sotto i piedi. Oppure salire senza proteggermi, circostanza che non considero una opzione seria. In compenso, proprio sotto lo strapiombetto, vedo un moschettone: qualcuno si è calato. Questa cosa da un lato è positiva, ho un punto di riferimento, un approdo, dall' altro è un evidente segnale che è molto difficile. Bene, intanto raggiungiamo il moschettone, poi si vedrà.
"Vado! Attento che mi sto già cagando sotto."
Vado? Ma dove vado se la pompa non mi regge. Come mi capita sempre più spesso, quando sono impegnato in parete desidero di essere in un altro posto, perdo ogni interesse per la scalata che sto compiendo e vorrei fuggire. La determinazione, qualità che mi ha sempre aiutato a risolvere i momenti di esitazione, è scomparsa. Ma ormai sono qui, devo almeno provare.
Mi alzo un po', faccio un paio di passaggi scalando in modo contratto e tremebondo. Non è estremo, ma la sensazione di precarietà demolisce ogni mia residua volontà di mettermi alla prova.
In qualche modo arrivo al moschettone abbandonato e, senza pensarci su, lo abbranco, consapevole che se non ci fosse stato è probabile che non avrei neppure fatto questo tratto. E' agganciato ad un vecchio friend incastrato in modo tale che non lo tirerebbe fuori neppure il padreterno. Mi ci appendo con tutto il mio peso.
"Blocca bene! Do un' occhiata al tratto successivo."
E' evidente che le difficoltà aumentano. Se in questo primo pezzo di fessura ho sofferto così tanto, oltre che mi aspetta?
E' un attimo, un cedimento aspettato, quello che restava del piacere di fare alpinismo è scomparso. Sempre peggio, ormai abbandono al primo ostacolo, quasi non provo neppure.
"Ivo!"
"Si, che c' è Robbè?" Ha già capito.
"Io non me la sento, non mi viene proprio di proseguire." Sono parole che escono da me spontanee e liberatorie.
"Sei sicuro? Fai almeno una prova."
"Ma che provo e provo, ho paura. Sto scalando malissimo, controvoglia, non me la sento proprio."
"Che dici, provo io?"
Ivo non ha molta esperienza in montagna, ma è bravo del suo, sono certo che se provasse passerebbe, ma io sono travolto da un vero è proprio disgusto a proseguire.
"Lascia perde', è sostenuta, con il materiale che abbiamo oggi è difficile da protegge'. Credevo fosse più larga e ho portato i friend grandi, che qui non servono a niente. E di medi e piccoli non ne ho abbastanza."
Quello che dico ha un fondo di verità, in effetti il materiale a disposizione non è quello giusto, ma Ivo passava, lo so che passava, anche con i friend sbagliati. Lo ammetto, sono un vigliacco imbroglione, sto rovinando la giornata di arrampicata al mio amico per puro egoismo.
"Robbè, sei tu l' esperto, se mi dici così allora è meglio scendere."
"Si! Si! E' meglio." Ivo perdonami, dovrei vergognarmi ed invece sono sollevato.
Lunedì 20 giugno 2011
Ci deve essere un meccanismo cortocircuitato nella mia testa di alpinista, altrimenti non mi spiego perché solo quarantott' ore fa ero in preda di una vera è propria crisi di rigetto ed ora sto pensando di tornare, magari da solo. Eppure si, in questo momento ho la chiara percezione che con il materiale della giusta misura posso farcela, che la crisi è passata.
Conosco bene questa sensazione, è ormai una costante di tutte le mie ritirate e ritorni, mi incita a ripartire. Lassù, in parete scapperei, ma come tornato a terra, sull' orizzontale, dimentico le incertezze e la voglia di riprovare mi assale, prepotente, irresistibile. Guardo la foto della guida del Gran Sasso, il disegno del tracciato della via, rileggo ancora la relazione e mi convinco. Devo, è più forte di me, sabato vado. Non sono ancora finito come alpinista.
Sabato 25 giugno 2011
"Che intenzioni hai per domani?" Mi domanda Patrizia.
"Una via sull' Intermesoli, ma non è lunga, dovrei far presto." Rispondo mentre sto al volante del nostro scassatissimo pick-up.
"Vedi di stare attento."
"Ultimamente sto pure troppo attento, basta niente e rinuncio."
Arriviamo ai Prati di Tivo. Dopo l' abituale pellegrinaggio enogastronomico da Gina, ci salutiamo, lei sale al rifugio Franchetti, mentre io resto, dormirò nel pick-up indiano.
Domenica 26 giugno 2011
Il cinguettio mattutino proveniente dal bosco mi sveglia. Tiro fuori dalla borsa una merendina e il succo di frutta per la colazione; la sveglia del cellulare attacca a suonare. Mi domando perché continuo a predisporla, mi desto sempre prima io. Faccio la rapida colazione, metto lo zaino in spalla e sono pronto, mi avvio verso la Val Maone. Tra un' ora e mezza sarò sotto le Strutture, all' attacco di King Kong' s Crack.
Da soli si congettura molto, si rimugina, e quello che penso non mi piace, mi pare di percepire qualcosa che si sta incrinando. Tutta la baldanza dei giorni appena trascorsi è passata e inizio a sentire il peso della scalata da fare. No, devo ragionare in modo diverso, devo ignorare questa incertezza mattutina. D' altronde questa è un' incertezza abituale agli alpinisti, che sempre la avvertono appena usciti dal rifugio, dalla tenda, dal bivacco o, come nel mio caso, dal cassone del pick-up. E' il primo passaggio difficile della via, a volte il più duro da superare. Un movimento dinamico da risolvere con determinazione, un boulder che spesso si rivela troppo duro da superare e ti costringe alla retromarcia ancora prima di partire. Ma io vado, come sono sempre andato, per caparbietà, perché dopo mi domanderei perché non sono andato, ma anche per inerzia.
Il percorso per la Val Maone l' avrò fatto mille volte, è ormai diventato un susseguirsi di immagini legate ad impressioni. Lascio il piazzale della cabinovia ancora deserto e prendo il sentiero che solca un enorme prato, un oceano di immense onde di maremoto verde. Sulla destra un terrificante albergo sembra un transatlantico in cemento armato, ormeggiato sul molo di asfalto del porto/piazzale dei Prati di Tivo, pronto per un improbabile varo verso la valle. In alto, sulla sinistra, la sagoma delle Spalle del Corno Piccolo è la schiena curva di un gigantesco dinosauro pietrificato. Entro nella faggeta ancora in penombra e solo per un caso non incontro un elfo o un folletto. Supero lo stazzo delle pecore con i cani che abbaiano al mio passare e immagino il pastore macedone che dorme nella vecchia roulotte, disperatamente solo e lontano dalla sua vera casa. Proseguo per il saliscendi della strada sterrata, ferita nel bosco aperta per la conduttura dell' acquedotto, offesa alla natura nel nome della comodità. Supero la presa d' acqua e arrivo alle sorgenti del Rio Arno, esile pisciatina residua di giganteschi ghiacciai estinti.
Riempio la borraccia. Finalmente entro nella parte naturale della valle, segnata solo dal sentiero e dalle tracce invisibili lasciate dagli alpinisti sulle pareti che la contornano. Sulla destra i primi contrafforti delle Strutture di Pizzo d' Intermesoli, sulla sinistra la Terza Spalla del Corno Piccolo, così alta, così scontrosa. La Val Maone prosegue, fino a Campo Pericoli, invece io sono arrivato e salgo il pendio segnato dai residui delle valanghe, verso la Grotta dell' Oro. Tutti sanno che non c' è traccia di metalli preziosi, eppure un' occhiata tanto vale darla.
Non sono arrivate le sette e trenta e sono alla base di King Kong' s Crack. In me non c' è entusiasmo, voglia o interesse, riesco a superare le incertezze dell' alpinista solo grazie all' inerzia. Un'inerzia che mi fa agire come fossi un' automa, in automatico, senza pensare, se ragionassi già sarei con la zaino in spalla verso casa. Eppure altre volte mi sono sentito come fossi una macchina per arrampicare, gli ingranaggi giravano lisci e il motore spingeva forte, oggi l' impressione è quella una batteria ormai scarica, che va, va ancora, ma non so per quanto.
Svolgo i riti della solitaria con la mia abituale attenzione e vado.
Il primo e secondo tiro non mi creano problemi, non sono difficili, devo solo stare attento a non tirare qualche appiglio non saldo. Arrivo alla sosta della rinuncia. Il motore deve essersi scaldato e funziona bene, non sento particolari patemi di animo e inizio il terzo tiro di corda, quello della fessura. Faccio il breve e delicato traverso, aggiro lo spigoletto ed eccomi nel diedrino. Come l' altra volta mi metto in equilibrio e guardo il moschettone abbandonato. Forte dell' esperienza passata lo raggiungo con meno impaccio e mi ci appendo. Osservo.
E' difficile, davvero molto difficile, di sicuro più del grado dato dai fratelli Barberi, che con il loro complice Abbate hanno aperto questa ed altre belle vie al Gran Sasso. I Vermi li chiamano, ma non in modo dispregiativo. L' origine di tale soprannome è un mistero, ma per tutti ormai sono i Vermi. Medio Verme, ovvero Roberto, e Gaston, alias Giuseppe, perfino la moglie di Roberto chiama il marito Medio, con il verme sottinteso. In ogni caso, soprannome o meno, quei tre lo facevano apposta a tenere strette le valutazioni. Quando li incontro gliene dico quattro; limortacciloro.
La vista del resto della fessura mi fa dimenticare quel poco di voglia di arrampicare residua e a questo punto non è più la sindrome dell' incertezza mattutina, è la strizza di mezza mattina, o meglio, voglia di andarmene. Mannaggia, sto di nuovo pensando e invece devo agire, devo essere una macchina per arrampicare che non pensa, va e basta. Questa fessura è ampiamente nelle mie possibilità, ho scalato calci nelle palle ben più difficili e pericolosi e non ho più neppure la scusa dei friend troppo grandi, ha le misure giuste. Vado, non ho alternative dignitose.
Lascio la certezza del friend incastrato e mi avvio lungo la fessura.
Fatico, mi maledico, odio l' arrampicata e l' alpinismo in genere, ma guadagno centimetro su centimetro, lottando contro l' insicurezza, la voglia di lasciar perdere. Vado, non so neppure io il perché, forse solo per non abbandonare un altro friend per calarmi, costa troppo.
Un chiodo! C' è un chiodo sulla sinistra. Un po' troppo a sinistra, messo li non può essere che la sosta. Non ci arrivo, è troppo lontano. Certo che come sosta è particolare, in placca, senza appoggio per i piedi. Ma non c' erano alternative, quando i Vermi sono arrivati a questo punto dovevano per forza fermarsi, il materiale è esaurito per me, per loro era la stessa cosa.
Faccio un passaggio delicato e arrivo al chiodo. Mi fido? Sarà buono? Meglio aggiungerne un secondo, altrimenti che sosta è. Dall' imbrago prendo quello della misura giusta, lo appoggio in una fenditura e picchio col martello con ritmo e forza. Perfetto! Anni ed anni di chiodi martellati in fessure e buchi a qualcosa saranno serviti?
Mi assicuro alla sosta e osservo il proseguo. Il prossimo tiro di corda dovrebbe essere praticamente una formalità rispetto a quello appena salito, ma l' apparenza non mi pare conforme al grado dato dai tre perfidi apritori. La vista di cosa mi aspetta, e la sosta, perfetto ancoraggio per una calata, fa spegnere in me le superstiti volontà e mi arrendo. La diga dell' ostinatezza crolla sotto il peso della demotivazione. Ho deciso, mi fermo, non me ne frega niente di questa via, della prima solitaria, dell' alpinismo. Basta! Che ci faccio qui?
"Che ci faccio qui!" Quante volte mi sono fatto questa domanda? E' forse proprio la ricerca di una risposta che mi ha portato a fare tante scalate, a ficcarmi nei guai così spesso. Ma io ora lo so che ci faccio, faccio una cosa per forza qui, ecco la risposta. Questo non è il mio posto, per lo meno non lo è più.
Non ho alcuna esitazione, ho solo il desiderio di andarmene, una netta repulsione a proseguire, senza rimorsi, senza rimpianti per la scalata rinunciata. Voglio andarmene, non mi interessa continuare a soffrire ed aver paura, se potessi chiamerei un elicottero per prelevarmi.
Mi calo in corda doppia, dispiaciuto per aver perso tempo, contento per aver preso la decisione.
Lunedì 27 giugno 2011
Ma perché sono sceso? Un tempo mi ci voleva ben altro per rinunciare ed ora basta una sosta invitante e mi calo in corda doppia. Un tiro difficile mi mancava e poi diventava più arrampicabile, più normale, cosa mi ha impedito di tenere duro e continuare? Ma è inutile cercare di cambiare i fatti, devo soltanto accettare con rassegnazione questa mia sopraggiunta inadeguatezza, invece di soffrirne come se avessi perso un' altra occasione.
Mercoledì 6 luglio 2011
Sono le 20 e arrivo sul piazzale dei Prati, mi sento più solo che mai. Patrizia lavora (qualcuno dovrà pur portare i soldi a casa) e Gina è chiusa per riposo settimanale. C' è solo la luce del bar La Gran Baita, ma dalle vetrine si nota che non c' è nessun avventore. L' umidità lasciata dalla leggera pioggia di oggi, la scarsa illuminazione, e la totale mancanza di forme di vita bipedi, accentuano l' atmosfera malinconica e fanno salire in me la sensazione di smarrimento. Solo Macchia, il cagnone inquilino fisso dei Prati di Tivo - sia in estate che inverno - sdraiato nel mezzo del deserto rivendica la legittima proprietà della piazza con regolari e profondi abbai alla luna. Non mi pongo la solita domanda senza risposta, lo so il perché sono qui: la mia ostinazione è ancora sufficiente a bilanciare la demotivazione. Ostinazione in parte dovuta all' incapacità di accettare i naturali cambiamenti sopraggiunti con gli anni.
Parcheggio lungo la strada che sale verso Cima Alta, in uno slargo piatto e lontano dall' illuminazione del piazzale. Tiro giù la sponda del cassone e salgo su. Mangio senza entusiasmo del pane con formaggio e bevo una birra. Sono incerto se uscire dalla tana per prendere un caffè alla Gran Baita, ma poi l' immagine di desolazione che c' è fuori di qui mi mette troppa tristezza e rinuncio. Mi lavo i denti affacciato dal deflettore. Non propriamente affacciato, ma sempre dal deflettore, piscio, attento a non irrorare il paraurti posteriore del pick-up. Chiudo il vetro e mi sistemo nel sacco a pelo. Sono appena le 21, meglio dormire e non pensare a quello che sto facendo, potrei arrendermi ancora prima di provare.
Giovedì 7 luglio 2011
La corda è legata tramite un moschettone a ghiera alla sosta, passa attraverso il cinch che ho all' imbrago e i primi 15 metri che ne escono formano un lunga asola, fermata ad un t-block sul porta materiale. Anche lo zaino è agganciato alla sosta, sistemato in maniera da fare da contrappeso. Sistemo con attenzione il resto della corda in terra, in modo che non si possa impigliare mentre arrampico, sono solo e non ho un compagno che la possa districare. Allaccio le scarpette e sono pronto.
Vado!
Attacco la via malvolentieri. La cosa non mi preoccupa, capita spesso di iniziare con questa sensazione, salendo mi passerà e inizierò a prenderci gusto.
Nonostante i primi passaggi siano facili mi sento impacciato, l' umidità ha reso scivolose le rocce e i ciuffi di erba che le contornano. Devo fare attenzione. Salgo una ventina di metri, supero quel passaggio strano che anche l' altra volta mi ha creato disagio e … Accidenti, non viene, la corda si è incastrata. Cerco una posizione stabile e provo a tirare senza esagerare, perdere l' equilibrio sarebbe deleterio, ho messo solo un nut per proteggermi ed è lontano. Provo a spostarla a destra a sinistra, ma niente, la corda resta bloccata. Devo scendere per liberarla. Pianto un chiodo e lo accoppio con un friend piccolo, attrezzo la sosta, mi ci assicuro, sgancio il cinch, lo giro per il verso della calata e inizio a scendere.
Arrivato allo zaino cerco il punto in cui la corda si è incastrata. Non lo trovo, la corda è libera, si vede che sollecitata verso l' alto si infilava in qualche fessura ed ora ne è uscita da sola, la bastarda. La rimetto in ordine e risalgo utilizzando le jumar. Torno al punto di calata, mi sistemo di nuovo per riprendere ad arrampicare: vado! Ma che… di nuovo bloccata. Ma porca mignotta zozza lurida (quando ce vo ce vo), non è possibile! Mi innervosisco un po', sono abituato ai contrattempi nelle solitarie, sono una costante, ma oggi la mia calma lascia a desiderare e questo non è un buon segno. Di nuovo attrezzo la sosta, mi appendo e smonto il cinch che sfugge dalle mie mani di burro e vola verso il basso. Nooooooo! Lancio un ululato nella valle. Basta, questo è troppo, lasciamo perdere, oggi non è giornata. Mi calo in corda doppia, deciso ad andarmene anche se trovassi il cinch, che era anche nuovo.
Setaccio palmo a palmo il terreno alla ricerca dell' autobloccante, ma niente, sembra scomparso. Dopo più di un'ora decido che deve essere stato rubato da qualche talpa ed ora fa da comò nella sua tana.
Questa volta non sono avvilito come la precedente, lo stato di animo è più sull' incazzato. Non sono stato io ad arrendermi, ma gli eventi mi ci hanno costretto, quindi non ho nessuna remora a progettare già una ennesima rivincita, magari dopo aver comperato un nuovo cinch.
Sabato 16 luglio 2011
Cammino con passo veloce, come se avessi fretta. Infatti un po impazienza ce l' ho, sono al quarto tentativo su questa via e ho premura di chiudere la faccenda. Transito sotto lo Spigolo Giallo delle Strutture, un' enorme prua strapiombante di roccia liscia, e subito dopo ecco King Kong' s Crack. Mentre risalgo il ripido pendio che porta all' attacco, perlustro il terreno nella vana speranza di rintracciare il mio attrezzo. Niente, la talpa ladra, dopo averlo sistemato a mo' di comò in sala da pranzo, lo avrà abbellito con un centrino fatto a mano, con sopra un vaso in ceramica, con dentro una noce come frutta. Mi immagino Enrico la Talpa, con gli occhi a forma di croce e sua moglie, la Cesira, che si affacciano dalla loro tana e mi fanno: "Ehilà Beppe! Vieni giù, ti faccio vedere il mio nuovo comò." Ed io che rispondo "Non mi chiamo Beppe, ma Lupo Alberto." … Mi sa che mi sto immedesimando troppo nella striscia a fumetti di Silver.
Dimentico l' attrezzo smarrito e inizio ad arrampicare. I primi due tiri sono normale amministrazione, la corda non si incastra ed io filo veloce su queste difficoltà. Anche il terzo, la perfida fessura, lo risolvo senza particolari guai. Arrivo alla sosta della fuga e mi organizzo per la lunghezza di corda successiva.
Sono sospeso nel vuoto e devo fare in maniera che la corda scorra via liscia, senza pesare troppo e senza impigliarsi. Perciò la posiziono a larghe falde, messa a cavallo dello zaino appeso e quindi proseguo con la solita gestualità dell' arrampicata solitaria. Controllo di non aver fatto baggianate. Sono Pronto.
Prima di avviarmi tiro fuori la fotocopia della relazione e leggo per l' ennesima volta: "Ancora lungo la fessura che si tramuta in uno stretto camino dal quale si esce in ultimo a sinistra e subito sopra si sosta comodamente." Da quel che c' è scritto dopo la fessura sono fuori, il camino non dovrebbe essere difficile. Vado.
Maledetti Vermi, lo sapevo che c' era la fregatura. La fessura è difficile almeno, se non più, di quella sotto ed è anche più larga, occorrono vari doppioni di friend grandi ed ne ho solo due.
Mettendo e levando, imprecando e pregando, arrivo al suo termine, sotto uno strapiombetto e trovo un chiodo. Verifico la solidità e gli do un paio di martellate rinforzanti, aggancio la corda e mi appendo. Sono stremato e poi è meglio controllare bene, voglio vedere di che razza di camino si tratta.
Osservo.
Intanto non è un camino ma uno stretto diedro, liscio, breve e dall'aspetto affatto semplice. A questo punto però c' è poco da studiare, occorre andare.
Supero lo strapiombetto ed entro nel diedro. E' davvero liscio e faccio fatica a restare in posizione, mi sento scivolare. Prendo l' ultimo friend rimasto e tento di incastralo nella fessura. Verifico la solidità e do una strattonata. L' attrezzo esce di botto e per poco non volo. La misura è sbagliata e non ne ho altri. I chiodi ed i nut sono inutilizzabili con questa dimensione di fessura.
Sento le braccia sempre più stanche, devo riposare altrimenti cado. Decido che l' unica azione fattibile prima dell' inevitabile caduta è scendere arrampicando fino al chiodo, dove mi riposerò. Disperatamente attaccato alla roccia torno sui miei passi e raggiungo il chiodo, unica alternativa ad un volo troppo lungo.
Ci sono due modi di fare alpinismo. Quello del piacere, in cui si sperimenta il gusto di sentirsi vulnerabili ma si ha la relativa certezza che non puoi farti male e tutto sembra sotto controllo, e quello dell' avventura totale, dove vai senza sapere come ne uscirai, dove l' epilogo dell' ascensione ha come possibilità anche la tragedia. Nel primo modo vivi sereno il tuo alpinismo e ne trai una piacevole e gratificante soddisfazione. Nel secondo ti stressi da morire – e a volte capita di morirne – ma dopo hai la consapevolezza di aver fatto qualche cosa di speciale, hai provato il tuo limite. A me, per scelta o per forza, è capitato spesso di praticare il secondo genere e la percezione di rasentare la catastrofe mi ha sempre dato un effetto contraddittorio. Ho paura e non vorrei che accadesse più, ma ho anche esaltazione e vorrei ripetere ancora questa esperienza .
Riposo il tempo sufficiente per ridare al mio respiro un po' di regolarità e poi riparto. Mentre supero il diedro la mia sensazione è appunto di essere vicino al limite, mi sento scivolare e non cado per pura disperazione. Ma passo, vado oltre, sono fuori, salvo, estenuato e contento. Contento perché non sono caduto, ma anche perché l'ho fatto, nonostante le titubanze, le fughe poco lusinghiere, i conflitti interni. In conclusione sono riuscito a superare i limiti imposti al mio agire dalla mia ragione.
Nella mia vita di alpinista ho compiuto tante salite in solitaria, alcune decisamente più impegnative di questa, ma partivo con più risorse, mentre oggi avevo sulle spalle uno zaino pesante, zavorrato dagli anni che passano. Forse anche per questo mi è sembrata tanto difficile. Ma questo non importa, importa l' emozione che ne ricavi, solo quella.
Mi fermo, riprendo fiato, aspetto che le pulsazioni rallentino. Guardo il panorama fatto di pareti di roccia e valli, assaporo l' attimo, il piacere di esserci, finalmente tornato dopo tanta voglia di fuggire. Poi mi scuoto. La via non finisce qui, prosegue più abbordabile, adatta ad un alpinismo del primo genere, e torno ai ritmi della scalata, riprendo il mantra della solitaria: attrezzo la sosta, sistemo il materiale, allaccio le scarpette, mi preparo per proseguire e … vado!
Roberto Iannilli - 21 aprile 2012
Gran Sasso, Pizzo d'Intermesoli, Le Strutture, parete sud: Via King Kong ‘s Crack, Roberto Barberi, Giuseppe Barberi e Paolo Abbate, il 4 giugno 1988. 240 metri, ED-, passi di VII (valutazione originale VII-, limortacciloro)
Sabato 18 giugno 2011
"Vado!"
"Ti tengo, vai pure." Ivo accompagna la risposta con un segno di assenso.
Sgancio il moschettone a ghiera che mi assicura e inizio a scendere arrampicando nel canalino, proprio sotto la sosta. Traverso due o tre metri verso destra, in direzione della fessura, la famigerata fessura di King Kong's Crack. Da qui ancora non è visibile, è coperta dallo spigoletto del diedrino che è alla sua base.
"Occhio Ivo, non posso mette' gnente!"
"Vai Robbè, ti guardo!"
Studio il passaggio e poi capisco. Scendo ancora un poco e quindi, arrampicando ancora in orizzontale, supero lo spigoletto e mi ritrovo alla base della fessura. Non fa una bella impressione.
"Come ti sembra?" Mi chiede Ivo dalla sosta.
"Stronza assai!" La immaginavo più larga, ho infatti portato dei friend grandi, che a questo punto sono inutili.
Metto le gambe in opposizione sulle due facce del diedro, trovo la postura che mi permette di restare quasi in equilibrio, senza dover tirare con le braccia, e osservo quello che mi aspetta, cerco di intuire la difficoltà e il modo di risolverla.
Quasi trent' anni di arrampicate mi hanno insegnato a decifrare la roccia, a capire quanto difficile e pericoloso potrebbe essere il tratto che devo scalare. Non ci azzecco sempre, ma l' impressione che ne ricavo è generalmente abbastanza vicina alla realtà e quello che ora intuisco non mi piace affatto. Il piccolo diedro va a morire sotto uno strapiombetto ed è seguito da un tratto verticale e dall' aspetto davvero malevolo. Come se non bastasse la larghezza della fessura è troppo omogenea per sperare di piazzare friend e nut di misure diverse, avrei dovuto portare una serie di numeri uguali e non una mazzetta assortita. Ciò significa che dovrò mettere e togliere più volte la stessa protezione, in modo da riutilizzarla, e quindi trovarmi con tanta corda libera sotto i piedi. Oppure salire senza proteggermi, circostanza che non considero una opzione seria. In compenso, proprio sotto lo strapiombetto, vedo un moschettone: qualcuno si è calato. Questa cosa da un lato è positiva, ho un punto di riferimento, un approdo, dall' altro è un evidente segnale che è molto difficile. Bene, intanto raggiungiamo il moschettone, poi si vedrà.
"Vado! Attento che mi sto già cagando sotto."
Vado? Ma dove vado se la pompa non mi regge. Come mi capita sempre più spesso, quando sono impegnato in parete desidero di essere in un altro posto, perdo ogni interesse per la scalata che sto compiendo e vorrei fuggire. La determinazione, qualità che mi ha sempre aiutato a risolvere i momenti di esitazione, è scomparsa. Ma ormai sono qui, devo almeno provare.
Mi alzo un po', faccio un paio di passaggi scalando in modo contratto e tremebondo. Non è estremo, ma la sensazione di precarietà demolisce ogni mia residua volontà di mettermi alla prova.
In qualche modo arrivo al moschettone abbandonato e, senza pensarci su, lo abbranco, consapevole che se non ci fosse stato è probabile che non avrei neppure fatto questo tratto. E' agganciato ad un vecchio friend incastrato in modo tale che non lo tirerebbe fuori neppure il padreterno. Mi ci appendo con tutto il mio peso.
"Blocca bene! Do un' occhiata al tratto successivo."
E' evidente che le difficoltà aumentano. Se in questo primo pezzo di fessura ho sofferto così tanto, oltre che mi aspetta?
E' un attimo, un cedimento aspettato, quello che restava del piacere di fare alpinismo è scomparso. Sempre peggio, ormai abbandono al primo ostacolo, quasi non provo neppure.
"Ivo!"
"Si, che c' è Robbè?" Ha già capito.
"Io non me la sento, non mi viene proprio di proseguire." Sono parole che escono da me spontanee e liberatorie.
"Sei sicuro? Fai almeno una prova."
"Ma che provo e provo, ho paura. Sto scalando malissimo, controvoglia, non me la sento proprio."
"Che dici, provo io?"
Ivo non ha molta esperienza in montagna, ma è bravo del suo, sono certo che se provasse passerebbe, ma io sono travolto da un vero è proprio disgusto a proseguire.
"Lascia perde', è sostenuta, con il materiale che abbiamo oggi è difficile da protegge'. Credevo fosse più larga e ho portato i friend grandi, che qui non servono a niente. E di medi e piccoli non ne ho abbastanza."
Quello che dico ha un fondo di verità, in effetti il materiale a disposizione non è quello giusto, ma Ivo passava, lo so che passava, anche con i friend sbagliati. Lo ammetto, sono un vigliacco imbroglione, sto rovinando la giornata di arrampicata al mio amico per puro egoismo.
"Robbè, sei tu l' esperto, se mi dici così allora è meglio scendere."
"Si! Si! E' meglio." Ivo perdonami, dovrei vergognarmi ed invece sono sollevato.
Lunedì 20 giugno 2011
Ci deve essere un meccanismo cortocircuitato nella mia testa di alpinista, altrimenti non mi spiego perché solo quarantott' ore fa ero in preda di una vera è propria crisi di rigetto ed ora sto pensando di tornare, magari da solo. Eppure si, in questo momento ho la chiara percezione che con il materiale della giusta misura posso farcela, che la crisi è passata.
Conosco bene questa sensazione, è ormai una costante di tutte le mie ritirate e ritorni, mi incita a ripartire. Lassù, in parete scapperei, ma come tornato a terra, sull' orizzontale, dimentico le incertezze e la voglia di riprovare mi assale, prepotente, irresistibile. Guardo la foto della guida del Gran Sasso, il disegno del tracciato della via, rileggo ancora la relazione e mi convinco. Devo, è più forte di me, sabato vado. Non sono ancora finito come alpinista.
Sabato 25 giugno 2011
"Che intenzioni hai per domani?" Mi domanda Patrizia.
"Una via sull' Intermesoli, ma non è lunga, dovrei far presto." Rispondo mentre sto al volante del nostro scassatissimo pick-up.
"Vedi di stare attento."
"Ultimamente sto pure troppo attento, basta niente e rinuncio."
Arriviamo ai Prati di Tivo. Dopo l' abituale pellegrinaggio enogastronomico da Gina, ci salutiamo, lei sale al rifugio Franchetti, mentre io resto, dormirò nel pick-up indiano.
Domenica 26 giugno 2011
Il cinguettio mattutino proveniente dal bosco mi sveglia. Tiro fuori dalla borsa una merendina e il succo di frutta per la colazione; la sveglia del cellulare attacca a suonare. Mi domando perché continuo a predisporla, mi desto sempre prima io. Faccio la rapida colazione, metto lo zaino in spalla e sono pronto, mi avvio verso la Val Maone. Tra un' ora e mezza sarò sotto le Strutture, all' attacco di King Kong' s Crack.
Da soli si congettura molto, si rimugina, e quello che penso non mi piace, mi pare di percepire qualcosa che si sta incrinando. Tutta la baldanza dei giorni appena trascorsi è passata e inizio a sentire il peso della scalata da fare. No, devo ragionare in modo diverso, devo ignorare questa incertezza mattutina. D' altronde questa è un' incertezza abituale agli alpinisti, che sempre la avvertono appena usciti dal rifugio, dalla tenda, dal bivacco o, come nel mio caso, dal cassone del pick-up. E' il primo passaggio difficile della via, a volte il più duro da superare. Un movimento dinamico da risolvere con determinazione, un boulder che spesso si rivela troppo duro da superare e ti costringe alla retromarcia ancora prima di partire. Ma io vado, come sono sempre andato, per caparbietà, perché dopo mi domanderei perché non sono andato, ma anche per inerzia.
Il percorso per la Val Maone l' avrò fatto mille volte, è ormai diventato un susseguirsi di immagini legate ad impressioni. Lascio il piazzale della cabinovia ancora deserto e prendo il sentiero che solca un enorme prato, un oceano di immense onde di maremoto verde. Sulla destra un terrificante albergo sembra un transatlantico in cemento armato, ormeggiato sul molo di asfalto del porto/piazzale dei Prati di Tivo, pronto per un improbabile varo verso la valle. In alto, sulla sinistra, la sagoma delle Spalle del Corno Piccolo è la schiena curva di un gigantesco dinosauro pietrificato. Entro nella faggeta ancora in penombra e solo per un caso non incontro un elfo o un folletto. Supero lo stazzo delle pecore con i cani che abbaiano al mio passare e immagino il pastore macedone che dorme nella vecchia roulotte, disperatamente solo e lontano dalla sua vera casa. Proseguo per il saliscendi della strada sterrata, ferita nel bosco aperta per la conduttura dell' acquedotto, offesa alla natura nel nome della comodità. Supero la presa d' acqua e arrivo alle sorgenti del Rio Arno, esile pisciatina residua di giganteschi ghiacciai estinti.
Riempio la borraccia. Finalmente entro nella parte naturale della valle, segnata solo dal sentiero e dalle tracce invisibili lasciate dagli alpinisti sulle pareti che la contornano. Sulla destra i primi contrafforti delle Strutture di Pizzo d' Intermesoli, sulla sinistra la Terza Spalla del Corno Piccolo, così alta, così scontrosa. La Val Maone prosegue, fino a Campo Pericoli, invece io sono arrivato e salgo il pendio segnato dai residui delle valanghe, verso la Grotta dell' Oro. Tutti sanno che non c' è traccia di metalli preziosi, eppure un' occhiata tanto vale darla.
Non sono arrivate le sette e trenta e sono alla base di King Kong' s Crack. In me non c' è entusiasmo, voglia o interesse, riesco a superare le incertezze dell' alpinista solo grazie all' inerzia. Un'inerzia che mi fa agire come fossi un' automa, in automatico, senza pensare, se ragionassi già sarei con la zaino in spalla verso casa. Eppure altre volte mi sono sentito come fossi una macchina per arrampicare, gli ingranaggi giravano lisci e il motore spingeva forte, oggi l' impressione è quella una batteria ormai scarica, che va, va ancora, ma non so per quanto.
Svolgo i riti della solitaria con la mia abituale attenzione e vado.
Il primo e secondo tiro non mi creano problemi, non sono difficili, devo solo stare attento a non tirare qualche appiglio non saldo. Arrivo alla sosta della rinuncia. Il motore deve essersi scaldato e funziona bene, non sento particolari patemi di animo e inizio il terzo tiro di corda, quello della fessura. Faccio il breve e delicato traverso, aggiro lo spigoletto ed eccomi nel diedrino. Come l' altra volta mi metto in equilibrio e guardo il moschettone abbandonato. Forte dell' esperienza passata lo raggiungo con meno impaccio e mi ci appendo. Osservo.
E' difficile, davvero molto difficile, di sicuro più del grado dato dai fratelli Barberi, che con il loro complice Abbate hanno aperto questa ed altre belle vie al Gran Sasso. I Vermi li chiamano, ma non in modo dispregiativo. L' origine di tale soprannome è un mistero, ma per tutti ormai sono i Vermi. Medio Verme, ovvero Roberto, e Gaston, alias Giuseppe, perfino la moglie di Roberto chiama il marito Medio, con il verme sottinteso. In ogni caso, soprannome o meno, quei tre lo facevano apposta a tenere strette le valutazioni. Quando li incontro gliene dico quattro; limortacciloro.
La vista del resto della fessura mi fa dimenticare quel poco di voglia di arrampicare residua e a questo punto non è più la sindrome dell' incertezza mattutina, è la strizza di mezza mattina, o meglio, voglia di andarmene. Mannaggia, sto di nuovo pensando e invece devo agire, devo essere una macchina per arrampicare che non pensa, va e basta. Questa fessura è ampiamente nelle mie possibilità, ho scalato calci nelle palle ben più difficili e pericolosi e non ho più neppure la scusa dei friend troppo grandi, ha le misure giuste. Vado, non ho alternative dignitose.
Lascio la certezza del friend incastrato e mi avvio lungo la fessura.
Fatico, mi maledico, odio l' arrampicata e l' alpinismo in genere, ma guadagno centimetro su centimetro, lottando contro l' insicurezza, la voglia di lasciar perdere. Vado, non so neppure io il perché, forse solo per non abbandonare un altro friend per calarmi, costa troppo.
Un chiodo! C' è un chiodo sulla sinistra. Un po' troppo a sinistra, messo li non può essere che la sosta. Non ci arrivo, è troppo lontano. Certo che come sosta è particolare, in placca, senza appoggio per i piedi. Ma non c' erano alternative, quando i Vermi sono arrivati a questo punto dovevano per forza fermarsi, il materiale è esaurito per me, per loro era la stessa cosa.
Faccio un passaggio delicato e arrivo al chiodo. Mi fido? Sarà buono? Meglio aggiungerne un secondo, altrimenti che sosta è. Dall' imbrago prendo quello della misura giusta, lo appoggio in una fenditura e picchio col martello con ritmo e forza. Perfetto! Anni ed anni di chiodi martellati in fessure e buchi a qualcosa saranno serviti?
Mi assicuro alla sosta e osservo il proseguo. Il prossimo tiro di corda dovrebbe essere praticamente una formalità rispetto a quello appena salito, ma l' apparenza non mi pare conforme al grado dato dai tre perfidi apritori. La vista di cosa mi aspetta, e la sosta, perfetto ancoraggio per una calata, fa spegnere in me le superstiti volontà e mi arrendo. La diga dell' ostinatezza crolla sotto il peso della demotivazione. Ho deciso, mi fermo, non me ne frega niente di questa via, della prima solitaria, dell' alpinismo. Basta! Che ci faccio qui?
"Che ci faccio qui!" Quante volte mi sono fatto questa domanda? E' forse proprio la ricerca di una risposta che mi ha portato a fare tante scalate, a ficcarmi nei guai così spesso. Ma io ora lo so che ci faccio, faccio una cosa per forza qui, ecco la risposta. Questo non è il mio posto, per lo meno non lo è più.
Non ho alcuna esitazione, ho solo il desiderio di andarmene, una netta repulsione a proseguire, senza rimorsi, senza rimpianti per la scalata rinunciata. Voglio andarmene, non mi interessa continuare a soffrire ed aver paura, se potessi chiamerei un elicottero per prelevarmi.
Mi calo in corda doppia, dispiaciuto per aver perso tempo, contento per aver preso la decisione.
Lunedì 27 giugno 2011
Ma perché sono sceso? Un tempo mi ci voleva ben altro per rinunciare ed ora basta una sosta invitante e mi calo in corda doppia. Un tiro difficile mi mancava e poi diventava più arrampicabile, più normale, cosa mi ha impedito di tenere duro e continuare? Ma è inutile cercare di cambiare i fatti, devo soltanto accettare con rassegnazione questa mia sopraggiunta inadeguatezza, invece di soffrirne come se avessi perso un' altra occasione.
Mercoledì 6 luglio 2011
Sono le 20 e arrivo sul piazzale dei Prati, mi sento più solo che mai. Patrizia lavora (qualcuno dovrà pur portare i soldi a casa) e Gina è chiusa per riposo settimanale. C' è solo la luce del bar La Gran Baita, ma dalle vetrine si nota che non c' è nessun avventore. L' umidità lasciata dalla leggera pioggia di oggi, la scarsa illuminazione, e la totale mancanza di forme di vita bipedi, accentuano l' atmosfera malinconica e fanno salire in me la sensazione di smarrimento. Solo Macchia, il cagnone inquilino fisso dei Prati di Tivo - sia in estate che inverno - sdraiato nel mezzo del deserto rivendica la legittima proprietà della piazza con regolari e profondi abbai alla luna. Non mi pongo la solita domanda senza risposta, lo so il perché sono qui: la mia ostinazione è ancora sufficiente a bilanciare la demotivazione. Ostinazione in parte dovuta all' incapacità di accettare i naturali cambiamenti sopraggiunti con gli anni.
Parcheggio lungo la strada che sale verso Cima Alta, in uno slargo piatto e lontano dall' illuminazione del piazzale. Tiro giù la sponda del cassone e salgo su. Mangio senza entusiasmo del pane con formaggio e bevo una birra. Sono incerto se uscire dalla tana per prendere un caffè alla Gran Baita, ma poi l' immagine di desolazione che c' è fuori di qui mi mette troppa tristezza e rinuncio. Mi lavo i denti affacciato dal deflettore. Non propriamente affacciato, ma sempre dal deflettore, piscio, attento a non irrorare il paraurti posteriore del pick-up. Chiudo il vetro e mi sistemo nel sacco a pelo. Sono appena le 21, meglio dormire e non pensare a quello che sto facendo, potrei arrendermi ancora prima di provare.
Giovedì 7 luglio 2011
La corda è legata tramite un moschettone a ghiera alla sosta, passa attraverso il cinch che ho all' imbrago e i primi 15 metri che ne escono formano un lunga asola, fermata ad un t-block sul porta materiale. Anche lo zaino è agganciato alla sosta, sistemato in maniera da fare da contrappeso. Sistemo con attenzione il resto della corda in terra, in modo che non si possa impigliare mentre arrampico, sono solo e non ho un compagno che la possa districare. Allaccio le scarpette e sono pronto.
Vado!
Attacco la via malvolentieri. La cosa non mi preoccupa, capita spesso di iniziare con questa sensazione, salendo mi passerà e inizierò a prenderci gusto.
Nonostante i primi passaggi siano facili mi sento impacciato, l' umidità ha reso scivolose le rocce e i ciuffi di erba che le contornano. Devo fare attenzione. Salgo una ventina di metri, supero quel passaggio strano che anche l' altra volta mi ha creato disagio e … Accidenti, non viene, la corda si è incastrata. Cerco una posizione stabile e provo a tirare senza esagerare, perdere l' equilibrio sarebbe deleterio, ho messo solo un nut per proteggermi ed è lontano. Provo a spostarla a destra a sinistra, ma niente, la corda resta bloccata. Devo scendere per liberarla. Pianto un chiodo e lo accoppio con un friend piccolo, attrezzo la sosta, mi ci assicuro, sgancio il cinch, lo giro per il verso della calata e inizio a scendere.
Arrivato allo zaino cerco il punto in cui la corda si è incastrata. Non lo trovo, la corda è libera, si vede che sollecitata verso l' alto si infilava in qualche fessura ed ora ne è uscita da sola, la bastarda. La rimetto in ordine e risalgo utilizzando le jumar. Torno al punto di calata, mi sistemo di nuovo per riprendere ad arrampicare: vado! Ma che… di nuovo bloccata. Ma porca mignotta zozza lurida (quando ce vo ce vo), non è possibile! Mi innervosisco un po', sono abituato ai contrattempi nelle solitarie, sono una costante, ma oggi la mia calma lascia a desiderare e questo non è un buon segno. Di nuovo attrezzo la sosta, mi appendo e smonto il cinch che sfugge dalle mie mani di burro e vola verso il basso. Nooooooo! Lancio un ululato nella valle. Basta, questo è troppo, lasciamo perdere, oggi non è giornata. Mi calo in corda doppia, deciso ad andarmene anche se trovassi il cinch, che era anche nuovo.
Setaccio palmo a palmo il terreno alla ricerca dell' autobloccante, ma niente, sembra scomparso. Dopo più di un'ora decido che deve essere stato rubato da qualche talpa ed ora fa da comò nella sua tana.
Questa volta non sono avvilito come la precedente, lo stato di animo è più sull' incazzato. Non sono stato io ad arrendermi, ma gli eventi mi ci hanno costretto, quindi non ho nessuna remora a progettare già una ennesima rivincita, magari dopo aver comperato un nuovo cinch.
Sabato 16 luglio 2011
Cammino con passo veloce, come se avessi fretta. Infatti un po impazienza ce l' ho, sono al quarto tentativo su questa via e ho premura di chiudere la faccenda. Transito sotto lo Spigolo Giallo delle Strutture, un' enorme prua strapiombante di roccia liscia, e subito dopo ecco King Kong' s Crack. Mentre risalgo il ripido pendio che porta all' attacco, perlustro il terreno nella vana speranza di rintracciare il mio attrezzo. Niente, la talpa ladra, dopo averlo sistemato a mo' di comò in sala da pranzo, lo avrà abbellito con un centrino fatto a mano, con sopra un vaso in ceramica, con dentro una noce come frutta. Mi immagino Enrico la Talpa, con gli occhi a forma di croce e sua moglie, la Cesira, che si affacciano dalla loro tana e mi fanno: "Ehilà Beppe! Vieni giù, ti faccio vedere il mio nuovo comò." Ed io che rispondo "Non mi chiamo Beppe, ma Lupo Alberto." … Mi sa che mi sto immedesimando troppo nella striscia a fumetti di Silver.
Dimentico l' attrezzo smarrito e inizio ad arrampicare. I primi due tiri sono normale amministrazione, la corda non si incastra ed io filo veloce su queste difficoltà. Anche il terzo, la perfida fessura, lo risolvo senza particolari guai. Arrivo alla sosta della fuga e mi organizzo per la lunghezza di corda successiva.
Sono sospeso nel vuoto e devo fare in maniera che la corda scorra via liscia, senza pesare troppo e senza impigliarsi. Perciò la posiziono a larghe falde, messa a cavallo dello zaino appeso e quindi proseguo con la solita gestualità dell' arrampicata solitaria. Controllo di non aver fatto baggianate. Sono Pronto.
Prima di avviarmi tiro fuori la fotocopia della relazione e leggo per l' ennesima volta: "Ancora lungo la fessura che si tramuta in uno stretto camino dal quale si esce in ultimo a sinistra e subito sopra si sosta comodamente." Da quel che c' è scritto dopo la fessura sono fuori, il camino non dovrebbe essere difficile. Vado.
Maledetti Vermi, lo sapevo che c' era la fregatura. La fessura è difficile almeno, se non più, di quella sotto ed è anche più larga, occorrono vari doppioni di friend grandi ed ne ho solo due.
Mettendo e levando, imprecando e pregando, arrivo al suo termine, sotto uno strapiombetto e trovo un chiodo. Verifico la solidità e gli do un paio di martellate rinforzanti, aggancio la corda e mi appendo. Sono stremato e poi è meglio controllare bene, voglio vedere di che razza di camino si tratta.
Osservo.
Intanto non è un camino ma uno stretto diedro, liscio, breve e dall'aspetto affatto semplice. A questo punto però c' è poco da studiare, occorre andare.
Supero lo strapiombetto ed entro nel diedro. E' davvero liscio e faccio fatica a restare in posizione, mi sento scivolare. Prendo l' ultimo friend rimasto e tento di incastralo nella fessura. Verifico la solidità e do una strattonata. L' attrezzo esce di botto e per poco non volo. La misura è sbagliata e non ne ho altri. I chiodi ed i nut sono inutilizzabili con questa dimensione di fessura.
Sento le braccia sempre più stanche, devo riposare altrimenti cado. Decido che l' unica azione fattibile prima dell' inevitabile caduta è scendere arrampicando fino al chiodo, dove mi riposerò. Disperatamente attaccato alla roccia torno sui miei passi e raggiungo il chiodo, unica alternativa ad un volo troppo lungo.
Ci sono due modi di fare alpinismo. Quello del piacere, in cui si sperimenta il gusto di sentirsi vulnerabili ma si ha la relativa certezza che non puoi farti male e tutto sembra sotto controllo, e quello dell' avventura totale, dove vai senza sapere come ne uscirai, dove l' epilogo dell' ascensione ha come possibilità anche la tragedia. Nel primo modo vivi sereno il tuo alpinismo e ne trai una piacevole e gratificante soddisfazione. Nel secondo ti stressi da morire – e a volte capita di morirne – ma dopo hai la consapevolezza di aver fatto qualche cosa di speciale, hai provato il tuo limite. A me, per scelta o per forza, è capitato spesso di praticare il secondo genere e la percezione di rasentare la catastrofe mi ha sempre dato un effetto contraddittorio. Ho paura e non vorrei che accadesse più, ma ho anche esaltazione e vorrei ripetere ancora questa esperienza .
Riposo il tempo sufficiente per ridare al mio respiro un po' di regolarità e poi riparto. Mentre supero il diedro la mia sensazione è appunto di essere vicino al limite, mi sento scivolare e non cado per pura disperazione. Ma passo, vado oltre, sono fuori, salvo, estenuato e contento. Contento perché non sono caduto, ma anche perché l'ho fatto, nonostante le titubanze, le fughe poco lusinghiere, i conflitti interni. In conclusione sono riuscito a superare i limiti imposti al mio agire dalla mia ragione.
Nella mia vita di alpinista ho compiuto tante salite in solitaria, alcune decisamente più impegnative di questa, ma partivo con più risorse, mentre oggi avevo sulle spalle uno zaino pesante, zavorrato dagli anni che passano. Forse anche per questo mi è sembrata tanto difficile. Ma questo non importa, importa l' emozione che ne ricavi, solo quella.
Mi fermo, riprendo fiato, aspetto che le pulsazioni rallentino. Guardo il panorama fatto di pareti di roccia e valli, assaporo l' attimo, il piacere di esserci, finalmente tornato dopo tanta voglia di fuggire. Poi mi scuoto. La via non finisce qui, prosegue più abbordabile, adatta ad un alpinismo del primo genere, e torno ai ritmi della scalata, riprendo il mantra della solitaria: attrezzo la sosta, sistemo il materiale, allaccio le scarpette, mi preparo per proseguire e … vado!
Roberto Iannilli - 21 aprile 2012
Gran Sasso, Pizzo d'Intermesoli, Le Strutture, parete sud: Via King Kong ‘s Crack, Roberto Barberi, Giuseppe Barberi e Paolo Abbate, il 4 giugno 1988. 240 metri, ED-, passi di VII (valutazione originale VII-, limortacciloro)
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