Daniele Caneparo. Una storia di montagne, uomini e cani
Il 23 novembre scorso, il torinese Daniele Caneparo, 55 anni, si incamminava da solo e sotto una fitta nevicata sulle montagne di Champorcher in Valle d’Aosta. Da allora di lui non si sono avute più notizie, nonostante le ricerche del Soccorso Alpino nei giorni immediatamente successivi e degli amici e ancora del Soccorso dopo la fine del lock down. Il 24 giugno, finalmente, un escursionista nota uno sci spuntare sotto una lingua di neve e avverte le autorità. Il corpo viene identificato nei giorni successivi. In questa settimana ci sarà il funerale a Torino.
Descritto come uno “sci alpinista esperto montanaro” dalla stampa di massa, Daniele era sicuramente qualcosa in più. Accademico del Club Alpino Italiano, centinaia e forse migliaia di prime salite di roccia e ghiaccio al suo attivo, un’attività veramente notevole che toccava tutte le specialità dell’arrampicata e dell’alpinismo, dal free solo allo sci estremo. Più di 40 anni passati in montagna in ogni minuto di tempo libero, sovente quella meno conosciuta e più lontana dalle folle. Tanto che per Daniele la montagna era una dimensione quasi trascendente, discreta, intima: la solitudine non era per lui un peso o una necessità, ma piuttosto una scelta di libertà. Con Daniele ho condiviso i miei “giorni grandi”, avventure naturalmente pericolose, con la pazzia che solo il furore dei vent’anni può giustificare. Quindici giorni prima di scomparire nel nulla ci eravamo visti a cena e mi aveva confidato di volersi prendere un giorno in più dal lavoro durante la settimana, per stare ancora di più in montagna, naturalmente da solo. Conoscendolo, noi amici intimi avremmo preferito fosse rimasto per sempre disperso sulle montagne che tanto amava e conosceva come le sue tasche. Certi che questo sarebbe stato anche il suo desiderio, come è quello della maggiorparte degli alpinisti. Ma in questi giorni un pensiero va anche alla famiglia e a tutti i suoi affetti, che tanto hanno sperato che il suo corpo fosse infine ritrovato.
Marco Levetto, collega medico di Caneparo e suo compagno di tante salite in montagna, ha deciso di condividere in questa triste circostanza un aneddoto che descrive la straordinaria umanità di Daniele, al di là del suo carattere schivo ed introverso, che talvolta non lasciava trasparire il suo buon cuore e l’altruismo che si portava dentro. Ringrazio Marco di averci raccontato questa semplice storia di montagna, di cani e di uomini. (Maurizio Oviglia - CAAI)
UNA MAIL DI DANIELE
Avevo messo per iscritto questi pensieri tempo fa, dopo che ricevetti la tua mail. Allora mi invitasti a pubblicarli. Non lo feci. Fu egoismo il mio. Ora è giusto che si sappia di te e del tuo cuore puro, mio caro amico Daniele, e anche del cuore puro di Lucy, vecchio cane.
STORIA DI MONTAGNE, UOMINI E CANI
Ometterò nomi e luoghi, non sono importanti qui, ma la storia è vera. La settimana scorsa apro una mail dal titolo interessante: "un cane di nostra conoscenza", inviatami dal caro amico D., compagno di salite, forte ed esperto montanaro, in una parola colui che vorresti avere di fianco quando le cose si mettono male. Così recitava:
"Domenica abbiamo fatto il B..., probabilmente in compagnia della stessa cagnetta, di nome L..., che ci aveva accompagnato nel giro di V... di quasi otto anni fa... Se non la portavamo giù noi moriva di freddo. In paese ci hanno detto che si tratta di un cane da valanga che pare abbia contribuito a trovare ben 5 dispersi. Al proprietario, tal F..., pare che di questo vecchio cane di 14 anni non importi più nulla, così S... [uno degli scialpinisti che ha partecipato al soccorso] l’ha adottata. Spero che adesso possa godersi un'onorata pensione anche se ho il sospetto che, alla casa di riposo, avrebbe preferito la morte per assideramento sulle sue montagne..."
Correndo con il pensiero a quella gita di otto anni fa, ho ritrovato le vecchie foto e le immagini di L., oggi vecchia e canuta, allora cane da valanga nel pieno delle forze, tanto da averci accompagnato lungo un tour di oltre duemila metri di dislivello e diversi chilometri di sviluppo, raggiungendo una vetta di tremila metri in inverno...
La settimana successiva siamo nuovamente insieme per una scialpinistica, i luoghi sono prospicienti per un lato alla montagna teatro del recente salvataggio, per l’altro alla vetta salita otto anni orsono, il freddo pungente, il cielo tersissimo, la neve gelida e asciutta, in quantità come non se ne vedeva da molto tempo.
Salendo, riviviamo la gita compiuta con L. in precedenza (d’abitudine si è sempre aggregata spontaneamente agli escursionisti e scialpinisti che partivano dal paese); ricordo che scendendo dalla punta del V... per un lungo e ripido pendio di neve compatta, la nostra compagna occasionale prese un liscio di almeno cento metri, arrestandosi poco sopra il colle, fortunatamente senza danni ma incapace per la paura di riprendere il cammino e traversare nella direzione giusta per divallare. Allora scesi fino a lei e, ponendomi a valle, grazie alla maggiore stabilità assicurata dalle lamine affilate degli sci, la accompagnai tenendola per il collare lungo il traverso, fino a raggiungere pendii più sicuri.
Nulla rispetto a domenica quando invece, racconta il mio amico, sorpresa in punta dalla scomparsa del sole e da un freddo atroce, la povera vecchia L.-salvatrice-di-uomini, incapace di reggersi sulle zampe e battendo i denti come una mitragliatrice, ha avuto bisogno degli uomini per tornare a valle viva. E qui successe un fatto.
Alternandosi nel compiere i quasi mille metri di dislivello in discesa con L. a spalle, che pesa almeno venti chili, nel passarsi la bestiola semiassiderata dopo averla deposta di volta in volta nella neve profonda, il mio amico D. tenta di sollevarla per il collare, probabilmente procurandole dolore, ed ottenendo come risposta prima un debole morso poi, al secondo tentativo di caricarsela nello stesso modo, una azzannata più decisa alla mano. Capito il messaggio, il gruppo si prodiga nel sollevarla via via con cautela, afferrandola da sotto il ventre.
Così giunti finalmente a valle ormai al buio, e dopo aver inutilmente tentato di rintracciare il padrone, si decide per l’adozione, celebrata con mille feste alla gloriosa cagnetta dal capannello dei soccorritori, dal quale il mio generoso amico si tiene un po’ in disparte temendo di contrariare il vecchio cane.
Fu a quel punto che L. prese l’iniziativa e, lasciando il gruppo, si avvicinò spontaneamente a D. con la coda tra le gambe, il muso basso e due occhi espressivi che solo una montagna di neuroni a specchio e un cuore puro da cane accendono, a cercare una sua carezza di riconciliazione. Ti chiedo scusa se ti ho fatto male, ma lassù non ce la facevo proprio a dirtelo altrimenti! Mi perdoni?
Questo mi confidò D., sapendo che quegli occhi gli rimarranno dentro per tutta la vita, e questo vi ho voluto raccontare, della purezza del cuore di L., salvatrice degli uomini, che per quell’unica volta ha temuto di aver fatto del male all’uomo.
Marco Levetto, dicembre 2017