Bocca del leone allo Sciliar di Ivo Rabanser e Maurizio Giordani
Osservare le mosse di chi ci precede, nel corso di una discesa da una cima dolomitica, facendo sicura con la corda in conserva, e contemporaneamente guardare una parete che ci sovrasta è quanto mai pericoloso, oltre che deontologicamente scorretto per una guida alpina!
Di ritorno dalla Punta Santner allo Sciliar, dopo la salita della classica "Glanvell", passando sotto la parete nord della Punta Euringer, invitai più volte Sibylle a fermarci per ammirare la vasta distesa dell’Alpe di Siusi, che si estendeva di fronte a noi, delimitando mirabilmente dal castello gotico del Sassolungo. Ma Sibylle fu perspicace, del resto mi conosceva già da tanti anni. Non le era sfuggito che, più delle praterie verdeggianti l’oggetto della mia attenzione erano le rocce giallastre che ci sovrastavano.
"Ti piace questa parete?", mi chiese, notando il mio sguardo rivolto all’insù. "Sì! Mi attira molto. Hai visto che slancio l’intera struttura dell’Euringer?" E provocatoriamente aggiunsi: "cosa noti osservando queste rocce?" "Noto che sono gialle e che quindi la parete strapiomba… e magari la roccia è pure friabile!" "E frontalmente, lungo quel pilastro a sinistra, cosa vedi?", insistetti come a voler stuzzicare la sua curiosità. "Giallo e strapiombante pure lì", concluse la mia cliente, con cui avevo percorso numerose salite in giro per le Dolomiti.
Riprendemmo la discesa che si prospettava ancora lunga e faticosa. All’alba eravamo partiti dai Bagni di Razzes per salire alla Punta Santner, alti sopra le ombrose foreste di Siusi. "Una parete gialla e strapiombante" pensai, mettendomi in moto. "Incisa da una successione di sottili fessure e diedri!" Immagazzinai quest’allettante opportunità tra le possibili vie da fare.
Un percorso nasce percorrendolo. Nella vita così come su di una parete rocciosa. Queste possibilità di scoprire terra incognita mi affascinano molto più degli itinerari già svelati e conosciuti. Le massime soddisfazioni in montagna le ho sempre vissute andando dove altri non si spingevano. E questo non per primeggiare su non so chi o cosa, ma per l’intimo appagamento di poter agire liberamente, senza un tracciato già segnato. Una parete intonsa offre l’opportunità il privilegio di agire creativamente: il percorso viene modellato e si forma passo dopo passo, adeguandosi e adattandosi alla morfologia della roccia. "Una via nuova va individuata, organizzata e poi salita", è stato uno degli insegnamenti di Marco Furlani.
Lo Sciliar è un gruppo che collega il regno del Catinaccio con le Dolomiti Gardenesi. Oltre alla conosciuta silhouette composta dalla Punta Santner e della Punta Euringer, una delle visioni simbolo del Sudtirolo, la parete del Monte Castello offre grandi attrattive all’arrampicatore. L’ambiente è poco battuto ma di armoniosa bellezza. E siccome tutte le cose preziose hanno un prezzo, in questo caso gli accessi agli attacchi delle varie arrampicate vanno tributati col sudore. D’altra parte però, un accesso prolungato e un ritorno complesso permettono maggiormente d’immergersi nell’ambiente, oltre a essere ingrediente essenziale di quell’esposizione, che differenzia l’alpinismo dall’arrampicata.
Dopo le immani faticate per concludere un itinerario iniziato anni addietro sul Croz dell’Altissimo nelle Dolomiti del Brenta, nel giugno del 2013 desideravo approcciarmi ad un percorso più corto e possibilmente di rapida esecuzione. E mi venne in mente la nord della Punta Euringer.
"Una salita breve ma intensa sullo Sciliar", proposi a Maurizio Giordani. Ero proprio desideroso di potermi legare in cordata con questo fuoriclasse dell’alpinismo dolomitico. Quando Maurizio percorse da solo e senza assicurazione alcuna Tempi Moderni in Marmolada – performance allora futurista – contavo quindici anni e il mio entusiasmo, la mia energia e il mio tempo erano rivolti alla verticale molto più che alle cose serie della vita. Mai avrei osato pensare allora di potermi un giorno legare alla sua stessa corda. Invece trovai in Maurizio una persona molto piacevole e disponibile.
Fu così che in una radiosa mattina di fine primavera arrancammo per le ripide serpentine che salgono allo Schlernbödele. Giunti al rifugio, in quella radura di idilliaca bellezza, ci fermammo per riprendere il fiato, per poi ripartire alla volta dell’attacco. Di tanto in tanto, tra i pini dell’ombrosa foresta si poteva intravedere la parete della Punta Euringer. Ma eravamo ancora troppo lontani per distinguere dettagli e riconoscere la linea di fessure che segnava la direttiva della linea ipotizzata. Ci vollero tre ore di fatiche per raggiungere la "Bocca del leone", un gigantesco blocco incastrato all’innesto della gola tra le due punte, rassomigliante alle fauci di un felino intento all’attacco.
Un grande franamento aveva reso la gola esposta a ripetute cadute di sassi. Velocemente ci togliemmo da quel posto inospitale, ansiosi di mettere le mani sulla roccia. Stabilimmo l’attacco della via su un pulpito erboso, punto ideale di partenza. Al di sopra la parete giallastra incombeva. L’aria sulla pelle si sentiva gradevole, quasi troppo calda per essere all’ombra. Maurizio partì per il primo tiro di corda. Ripide placche fecero da appropriata overture alla successione di diedri gialli che si inarcavano dritti verso il cielo blu cobalto. La roccia sotto le mani – dolomia dello Sciliar – era piacevole al tatto, ruvida e lavorata a buchi. Anche su in alto, dove era gialla sarebbe stata così?
Ora si trattava di risalire un diedrino svasato e strapiombante. Con ampie spaccate cercai di scaricare le braccia, rassicurato dalle ottime protezioni che piazzai sul fondo della fessura. Ci alternammo al comando della cordata e ai punti di sosta le manovre si svolsero in modo naturale e armonioso, come se da anni andassimo insieme a scalare. Qualche parola per scambiarci le nostre impressioni, nulla di più. Nella terza lunghezza il diedro giallo si fece più netto, terminando in un’ampia nicchia gocciolante. Studiando da sotto la parete avevo notato che a quest’altezza una fessura erogava un eterno pianto d’acqua. Cercammo di valutare meglio il terreno. Il successivo diedro grondava d’acqua, ma tant’era: di lì occorreva passare! Piantai un chiodo nello strapiombo poroso della nicchia e senza inibizione mi aiutai con esso uscendo da quel fastidioso stillicidio. La seguente fessura era fradicia ma ornata con ottime maniglie. Sulla destra, oltre lo spigolo che mi schiudeva la vista, sapevo un pulpito sospeso sopra gli strapiombi. Dovevo azzeccare il passaggio giusto per raggiungere questo punto di prosecuzione, uscendo dal diedro né troppo basso né troppo in alto. In fondo la traccia di un percorso è già segnata sulla parete: il gioco sta nel saper interpretare la trama di rughe e fessure, individuando i punti deboli della roccia, per collegarli come in un prezioso ricamo. Esercitare l’occhio, per cogliere e interpretare opportunamente la morfologia della pietra, è altrettanto importante per questo tipo di attività quanto le capacità arrampicatorie o la maestria manuale. Diceva Armando Aste, che una cosa è guardare, altra cosa è vedere.
Con un’altra lunghezza Maurizio raggiunse una cengia simile a un rosone, sopra la parte giallastra del dirupo. Seppure il dislivello superato non risultasse tanto alto, il senso del vuoto era sublimato dalle selvagge gole sottostanti, che in basso si spingevano verso altri abbissi, fin alla pineta che fungeva da mirabile contrasto.
Concentrati sull’arrampicata, sempre sostenuta e di soddisfazione, non avevamo notato che il cielo si andava oscurando rapidamente. Mentre m’incastravo lungo la seguente fessura mi sembrò di sentire il tuono di un fulmine. È risaputo tra gli iniziati che la zona dello Sciliar è esposta al maltempo che proviene dall’ovest. Basta osservare la cima tutta sfrantumata della Punta Santner per capire che un naturale parafulmine non era distante. La tranquillità di Maurizio mi rassicurò e anch’io mi diedi un contegno tranquillo. "Proviene dal Catinaccio", diagnosticai, come se il sapere dove stava il male lo avrebbe in un certo qual modo dissipato. Non mancava più molto – due lunghezze, azzardai. Ci consultammo sul da farsi, ma sarebbe stato irritante doversi ritirare così vicini alla conclusione della scalata. Uno strapiombo sbarrava l’accesso al quello che pensavo il diedro finale. Maurizio tentò prima sulla sinistra, poi lo superò direttamente lungo la direttiva di una fessura. Ora le corde scorrevano rapidamente, mentre altri tuoni fecero da sottofondo, sempre più vicini. Eppure nessuna goccia cadeva dal cielo. Il rombo dei fulmini, così come il sibilo di sassi che cadono, sono suoni che in montagna non vorresti mai sentire. E quanto è suggestivo lo spettacolo di un temporale, osservato in pantofole dalla finestra, così inquietante lo stesso scenario si rivela quando è sopra la testa, dove il cielo fa da tetto e sotto i piedi la parete sprofonda nell'abisso. A raccontarla dopo, magari col cipiglio del reduce, l’atmosfera epica del maltempo in montagna sortisce sempre effetto… Nel mentre però, in balia degli elementi, la preoccupazione prende il sopravvento…
Si trattava di fare presto. Un'altra placca sbarrava l’accesso alla cuspide sommitale. Guardingo traversai a sinistra e iniziai a salire su rocce lavorate a buchi. Se non fosse stato per l’ansia di procedere in fretta, questa lunghezza conclusiva coronava degnamente la scalata. Uscito sul ciglio della parete i chiodi entrarono in duetto. Maurizio mi raggiunse rapidamente. Una schiarita tra le nuvole si aprì come a volerci permettere di raggiungere la punta. Non ci fu molto tempo per manifestazioni di soddisfazione. Una veloce stretta di mano e alcune foto ricordo. Il libro di vetta era fradicio d’acqua. Occorreva fare presto, che attorno alle cime del Sassolungo si stava scaricando il prossimo temporale.
Con una serie di vertiginose corde doppie ci calammo lungo l’itinerario di salita. La parete, inarcata oltre la verticale, richiedeva dei pendoli per arrivare ai punti di sosta. Giunti nel canale terroso alla base iniziò a diluviare. Con tutto quel detrito, fra poco in quella forra incassata sarebbe cominciato un finimondo di pietre in caduta.
Ci rifugiammo nella Bocca del leone, sotto il gigantesco blocco incastrato nella gola. Dal fondo di questa provvidenziale grotta osservammo le scariche di pietre, che al ritmo di un'orchestra passavano a pochi metri di distanza. Acqua e sassi in uno scroscio continuo. Uno spettacolo davvero delizioso, visto dal nostro posticino al sicuro. Oltre all’arrampicatore eccezionale Maurizio si rivelò una persona di piacevole compagnia. Seguirono molte parole, scambi d’informazione, qualche pettegolezzo. Una sensazione benefica di complicità, come se da tempo fossimo in confidenza.
A poco a poco i tuoni si sentirono sempre più distanti. Il ruscello d’acqua che scendeva si andò assottigliando fino ad esaurirsi del tutto. C’era nell’aria un odore di pulito. Quel profumo tipico dopo le piogge in primavera. Proseguimmo la discesa lungo quelle forre caratteristiche dello Sciliar. Come un cenno di vita, di tanto in tanto si sentiva il fragore provocato dalle scariche di sassi, che poi si perdeva nel dedalo di vicine gole rocciose. Arrivammo al rifugio bagnati per la pioggia e di sudore.
Ci era andata bene. L’aver trovato nel momento opportuno riparo nella Bocca del leone, la grotta che ci aveva ospitato durante il temporale, era stata una fortuna, non certo un merito nostro. A dispetto delle dotte teorie filosofiche, dei discorsi sulla deontologia, nell’esposizione in un ambiente autarchico, occorre adeguarsi alle circostanze e alle concrete situazioni del momento. In ultima analisi l’arte della sopravvivenza è il sommo valore – ben più importante di tutti i principi etici.
di Ivo Rabanser
SCHEDA: Bocca del leone, Punta Euringer, Sciliar Dolomiti
Link: www.gardenaguides.it