Alex Walpoth, solitaria di Vint ani do in Dolomiti
VINT ANI DO SOLO IN SOLITARIA di Alex Walpoth
Quest’estate ho accarezzato l’idea di cimentarmi nell’arrampicata solitaria. Speravo di raggiungere più indipendenza e di allargare la sfera della mia attività alpinistica. Innanzitutto ho studiato ed imparato la tecnica e presto mi sono appropriato della sicurezza necessaria. In agosto, dopo tre giorni di servizio per il soccorso alpino, la motivazione era giunta al punto giusto. Mi decisi per la via “Vint ani do”, perché rappresentava un obiettivo prezioso e la conoscevo già benissimo. Infatti, l’avevo già salita quattro volte per riuscire nella libera del tetto orizzontale di 4 metri, gradato 8a.
Durante quelle salite mi avevano accompagnato dei miei cari amici, però questa volta ho scelto consapevolmente di rinunciare alla loro assicurante presenza. Trovarsi da solo davanti all’attacco è stata una sensazione insolita, che mi mi ha trasmesso anche delle paure. Con l’aiuto di un breve monologo ho trovato la sicurezza necessaria. Le prime due lunghezze le ho salite senza problemi, anzi, stavo benissimo. Ho scalato, fissato la corda, sono sceso e poi sono salito di nuovo con i jumars. La terza lunghezza supera una placca compatta e difficile, ero convinto di salirla in libera, e nonostante l’autoassicurazione disturbasse il flusso dell’arrampicata, ci sono riuscito.
I tiri successivi li avevo valutati più facili, ma i traversi mi hanno costretto ad adottare qualche manovra che mi è costata tempo e soprattutto molta forza. In prossimità del tetto mi sono fermato per qualche minuto, ed è stato qui che mi sono reso conto che cosa significasse arrampicare da solo in una parete alta oltre 300 metri. Non potevo contare sulle parole incoraggianti di un compagno, ero stanco sia fisicamente che mentalmente. Cominciavo già a pensare alla seconda corda che avevo portato in un secondo zaino per un’eventuale calata. Ma con una grande forza di volontà ho scacciato quel pensiero e ho continuato lungo l'esaltante diedro che finisce direttamente sotto il tetto che, come le altre volte, era impressionante.
Avevo già escluso la libera in precedenza: nell’orizzontale la tecnica di assicurazione adottata nelle altre lunghezze sarebbe stata assai complicata e insicura. Così mi sono tirato da chiodo a chiodo, in un’azione poco elegante. Al margine del tetto ho provato intense emozioni di esposizione e solitudine. Dopo aver tolto di nuovo i rinvii da questo difficile tiro, ho fatto un notevole pendolo nel vuoto.
Le ultime due lunghezze sono stati ancora una dura prova fisica, ma fortunatamente i dubbi erano spariti e i movimenti ormai automatizzati. Dopo sette ore di impegno continuo, ho raggiunto la vetta e in un primo momento ho dovuto confrontarmi con un’insolita sensazione di delusione: da solo non riuscivo a godermi la conquista, perché sono abituato a dividere la gioia con i compagni di scalata. Per un momento ho addirittura dubitato sul senso di tutto ciò e mi sono perso addirittura in pensieri negativi.
Sono scesi ancora prima dell’imbrunire e ho incontrato alcuni amici che praticavano l’arrampicata sportiva. Solo più tardi riuscii a capire l’importanza di questa esperienza che mi ha aperto nuove prospettive, non solo in termini alpinistici, ma soprattutto a livello mentale.
Un ringraziamento a Mountain Hardwear per l’abbigliamento tecnico.