La notte fra i due inverni. Di Alberto Sciamplicotti
Da molti anni non leggo più libri di montagna perché la maggior parte di essi, lo dico senza polemica, sono davvero illeggibili. Alcuni in particolari, mainstream e scritti da alpinisti famosi, sono tutto ciò che la letteratura non dovrebbe essere: autoreferenziali, scritti male, celebrativi, permalosi e ammiccanti all'egocentrismo più sfrenato. Curiosamente, più gli alpinisti sono ingiustamente famosi, più si ritrovano queste negatività. Per esempio, il libro di Tommy Caldwell è un gran libro, ma lui appunto è giustamente famoso, così come Eravamo Immortali, quello di Manolo. Altre cose che mi sono arrivate, e che hanno anche venduto parecchio, non avrebbero passato un esame di maturità, non dico classica...
Ho letto questo libro perché, invece, Alberto scrive bene e non ha bisogno di ghostwriters e non ha un contratto che lo obbliga a pubblicare per forza. Non gliene frega nulla di accumulare denaro e lo ha scritto perché sentiva di avere qualcosa da dire.
La letteratura di montagna non ha mai avuto un Conrad e anche i famosi libri di montagna degli anni 30, 40, 50 e 60 sono intrisi di retorica e sono oggettivamente rovinosi dal punto di vista letterario. Questo è un ottimo libro con storie scritte bene e che si leggono volentieri, ne aspetti la fine e i dialoghi non sono strappalacrime o strappa applausi. Se ne assapora la fatica, di quello che è stato e che cosa ha significato scriverlo. In qualche modo apre gli occhi a chi l'Inverno, i bivacchi, la fatica di salire non l'ha mai veramente provata. Non c'entra nulla con Confessioni di un Serial Climber di Mark Twight, e neppure con la biografia di Andre Agassi; è un libro pacato, però non noioso e che intriga.
Inoltre, fa geograficamente scoprire i luoghi più remoti e isolati d'Italia, assolutamente scomparsi nelle Alpi, dove veramente a perdita d'occhio non vedi traccia umana per km. Forse resteranno per sempre così, non hanno peculiarità mainstream, e lo si evince da come scalano e dove dormono i protagonisti di Alberto. Non sono posti da prima pagina se non paesaggisticamente; sono anche duri e se vogliamo ostili, con una bellezza mozzafiato che sa di Mongolia, di Altopiani con Montagne rozze, di rifugio alpino che non c'è. Dico la verità, non sembra non solo a 100km in linea d'aria da Roma, ma neppure a 5000.
E poi ci sono i viaggi, scassati a "mordere la vita", con biondine pseudofighe, canne, amici in ritardo, pareti mai viste che incutono timore, la sensazione non recondita di essere inadeguato non solo alle difficoltà ma anche allo stile di vita. Chamonix è vera montagna? Caspita, è la culla dell'alpinismo, no? Però per strade e negozi sembra di essere in centro Roma, così che poi quando ti metti a scalare sei paradossalmente ancora più inadeguato.
E poi ci sono i momenti adolescenziali, che sono anche troppi, non nel libro, in generale per chi scala. Chi scala in un certo modo non matura mai, e io mi sono sempre difeso con una frase che conia anni fa, chi matura troppo tende a marcire. E nelle storie di Alberto i momenti di immaturità sono decine, centinaia. Mi ci sono ritrovato, anche perché ogni tanto mi lascio ancora andare ad essere un fesso, uno guardato torvo dal mainstream perché vestito male, scioccarello, etc etc. Credo che l'arrampicatore medio sia agli antipodi del golfista, per dire. E non ce l'ho con il golf, che è molto più tecnico e difficile dell'arrampicata: è un dato di fatto. In mezzo ci sono tutti gli altri sport, e forse più in là dell'arrampicata c'è il surf, per dire. Credo di essermi spiegato, o no? L'arrampicatore-alpinista è un "cattivo ragazzo" (Bad boys running wild, cit. Scorpions) mai troppo a suo agio con le convenzioni, e l'avvicinamento alla via parte da quando esce di casa e fa inevitabilmente rumore.
Ovviamente quelli degli anni '80 dicono che quei tempi erano migliori di adesso, e quelli degli anni '60 dicono lo stesso di quelli degli anni '80. La propria epoca fra i 18 e i 30 viene sempre considerata unica e inimitabile, e il dopo molto più convenzionale. E' così da un 2000 anni e l'arrampicatore è purtroppo spesso vittima di questa smania di essere vecchio dentro a tutti i costi recitando la parte del saggio che rimpiange i tempi andati.
Non è vero un cazzo, se mi posso permettere. Ogni tempo ha le sue unicità e da questo libro si vede e si sente che siamo sempre uguali, un pelo disadattati, molto immaturi, molto curiosi, molto riflessivi, casinari e trasandati. Quindi, non mainstream, a meno che non ti chiami Alain Robert e decidi di scalare cose mainstream, che per esempio sono anche gli 8000.
Ho girovagato un po' tra tante considerazioni per dirvi che è un buon libro diverso da quelli mainstream e che racconta di noi. Potevo cavarmela così, ma sono stato prolisso.
di Fabio Palma