Apertura senza fine. Storia dell’arrampicata romana nel libro di Emanuele Avolio
Come spesso mi accade, ho iniziato dalla fine: dopo aver scorso la "bibliografia parziale" e soppesato uno ad uno i "ringraziamenti", mi sono decisa ad avviare la lettura di "Apertura senza fine" da pagina uno. L'introduzione mi ha dato immediatamente conferma della buona volontà con la quale, l'autore, Emanuele Avolio, ha affrontato un'impresa non facile, quella di scrivere una storia dell'arrampicata romana. "Le fonti consultate – si legge infatti – sono sia scritte che orali": si parla di interviste "prolungate", di memorie personali, di libri e articoli pubblicati su riviste di varia natura, del ritrovamento di una copia miracolosamente salvata del blog Fuorivia e, soprattutto, dello "storico Quadernone della Sucai, su cui gli alpinisti romani hanno segnato le loro prestazioni e aperture". Nemmeno a dirlo, scrive Avolio, "l’accesso a questa preziosa fonte è stata ancora una volta merito di Gianni Battimelli, vero Petrarca (sic!) della Scuola di alpinismo romana".
Come tutte le storie che riguardano culture tribali, anche quella dell'arrampicata romana è complessa ed estremamente sfaccettata, ricostruirla equivale ad entrare nudi in un vespaio. Non so se Emanuele Avolio, che conosco solo di sfuggita, ne sia uscito vivo. Ma certamente, con curiosità, pazienza, fatica, tutto condito da una buona dose, immagino, di masochismo, ci ha fatto un bel regalo.
Si parte da Enrico Jannetta, "classe 1889, ragazzo avventuroso e intraprendente, chiamato alle armi con gli Alpini" che una volta rientrato a Roma "si diede a una notevole attività alpinistica"; si passa per i Consiglio, gli Alletto e i Cravino degli anni Quaranta, per l’incredibile epopea di Gigi Mario, si attraversa il "Piccolo cabotaggio", ci si lascia stravolgere dalla meteora Bini, e poi roteare dal Carosello degli anni Ottanta, fino a sbarcare nel nuovo millennio per farsi incantare dalle evoluzioni contorsionistiche di Laura Rogora: un secolo abbondante di salite, trasformazioni, involuzioni, rivoluzioni.
Pur risentendo ancora di una prospettiva "maschiocentrica" della storia dell’arrampicata e dell’alpinismo romani – le figure femminili, a cominciare da quelle che hanno segnato dei chiari punti di svolta come Chiaretta Ramorino, Germana Maiolatesi, Antonella Strano sono assenti o appena accennate, altre sono relegate alle note oppure presenti perché compagne di qualche alpinista maschio - questo libro ha di contro un grandissimo merito, che si riassume in un’unica parola: il contesto. L’autore è riuscito, sempre, ad intrecciare quanto accadeva sulle pareti verticali con l’humus sociale da cui emergeva e che lo circondava. Come raccontare diversamente le aule universitarie di fisica nel ’68, ricettacolo di studenti "sucaini" e la loro leggerezza nell’andar per monti; l’umorismo e la voglia di dissacrazione che si rispecchiava nei nomi delle vie, nella ricerca di nuovi itinerari, nello slancio verso i "nuovi mattini". Ugualmente, un paio di decenni dopo, la perforazione del mondo alpinistico radical chic romano da parte di un battaglione di adolescenti borgatari, tanto bravi quanto leggeri, che "con spirito goliardico e festaiolo" hanno a poco a poco fagocitato e rimodellato pareti, gradi, stili, difficoltà e mentalità, novelli Caronte verso l’arrampicata del nuovo millennio.
Ancora una lode per la ricca offerta fotografica, scelta con grande attenzione e poca retorica, parallelamente allo spirito del libro, sebbene la resa tipografica non sia all’altezza del resto del prodotto.
di Francesca Colesanti