Etiopia, la fantastica scalata alla chiesa rupestre di Maryam Dengelat

Elisabetta Galli e Giorgio Mallucci e la scalata alla chiesa di Maryam Dengelat, una prima salita per varcare una soglia che da centinaia di anni era inaccessibile. Di Francesca Colesanti (pubblicato sul Venerdì di Repubblica del 28 Giugno 2019).

"Credete che si possa attrezzare una ferrata su questa parete?" La richiesta arriva inattesa tramite whatsapp, corredata da un'immagine che, pur in bassa risoluzione, sa essere tanto suggestiva quanto persuasiva: una magnifica parete di arenaria rossa, incorniciata in basso da un paio di piante d'alto fusto con un'esuberante chioma verde. In alto, un cielo blu che non dà adito a dubbi: siamo in Africa.

Comincia in questo modo un'avventura – la cui parola fine dev'essere ancora scritta – che si svolge in una terra fatta di bellezze naturali incomparabili e si nutre dei desideri di una popolazione custode di una lunga e genuina religiosità.

Incantati, Elisabetta e Giorgio guardano la fotografia, zoomano al centro per cogliere meglio i dettagli, scorrono col dito verso il basso, poi verso l'alto, a destra, a sinistra. Quella cavità nella roccia, a circa 35 metri da terra, che si intravvede poco sotto la metà della parete strapiombante, è una chiesa rupestre. Praticamente sospesa nel vuoto, irraggiungibile come un nido d'aquila. Una gigantesca frana, centinaia di metri cubi di arenaria precipitati al suolo secoli e secoli fa, l'ha completamente isolata. La leggenda narra che fu la stessa Madonna a provocarne il distacco per preservare la Chiesa dall'avanzata dei musulmani provenienti dall'Eritrea.

I due alpinisti conoscono bene l'Etiopia, la frequentano ormai da anni con una missione: formare ed istruire giovani etiopi alle tecniche di base della progressione su roccia per poter accompagnare i turisti a visitare chiese e monasteri annidati tra le spettacolari torri di arenaria del massiccio del Gheralta. Un'idea di Carlo Alberto Pinelli, alpinista, antropologo e presidente onorario di Mountain Wilderness, un'associazione internazionale che si batte per la salvaguardia del territorio montano. Ma questa volta l'obiettivo principale è un altro: permettere alla popolazione locale di tornare a pregare lassù, dopo quasi mezzo millennio di sofferta separazione dal loro luogo di culto.

Su diretto invito dell'Università di Adigrat - il cui Comitato di Scienze sociali e umane è impegnato su diversi fronti per conservare e promuovere il patrimonio artistico e culturale dell'Etiopia - ad Elisabetta Galli e Giorgio Mallucci viene chiesto di dare un contributo tecnico per la riqualificazione della chiesa rupestre di Maryam Dengelat, sito candidato all'Unesco come patrimonio universale dell'umanità, che si trova nella regione di Tigrè, nel nord-est dell'Etiopia. Una missione complicata, poiché, prima di manutenerla, la chiesa deve essere raggiunta, e non si tratta di un compito banale anche per alpinisti esperti, data la qualità infida della roccia.

Così, sulla base di quell'unica immagine, a Roma si preparano gli zaini: corde, rinvii, moschettoni, carrucole, staffe, trapano e lunghe punte da 25 centimetri. E poi ancora guanti, caschi, occhiali, sacchi a pelo e borracce. All'alba del primo marzo i due alpinisti caricano zaini e borsoni in auto, 4 colli per 100 chili complessivi, e si dirigono al parcheggio lunga sosta dell'aeroporto di Fiumicino. Costa meno del treno Leonardo: già, perché a parte un contributo economico di Mountain Wilderness la loro opera è assolutamente gratuita.

Da Addis Abeba, prima in auto fino al villaggio di Maryam Dengelat poi, con meno di un'ora di cammino, arrivano alla base della parete. L'impatto è impressionante e persino Elisabetta e Giorgio vacillano un istante: quanto avevano immaginato, calcolato e anche sognato viene improvvisamente velato dal dubbio, dalla paura di non farcela. Osservata dal basso la parete strapiomba molto più di quanto prevedessero e, peggio ancora, la roccia è estremamente friabile. Non solo: pur attesi dalla popolazione locale, i due alpinisti devono fare i conti con un naturale scetticismo iniziale, in particolare da parte di alcuni religiosi, custodi del luogo santo. Elisabetta e Giorgio sanno bene che il tempo a loro disposizione non è molto, 40 giorni in tutto. Ma la nozione temporale, si sa, in Africa subisce degli aggiustamenti: gli occidentali hanno l'orologio, gli africani hanno il tempo, recita un antico detto. Si tratta quindi di vincere questa resistenza rapidamente senza però urtare i sentimenti della popolazione.

La scommessa riesce anche grazie a tre figure che svolgono un ruolo decisivo in questa impresa: Hagos Gebremariam, Luigi Cantamessa e Berthe. Il primo è un professore di sociologia del turismo dell'università di Adigrat: figlio di un pastore, cresciuto sull'altopiano sovrastante la chiesa, da bambino macina ogni giorno chilometri a piedi per andare e tornare da scuola, studia con passione, fino a laurearsi. Poi non lascia la sua terra ma si adopera per renderla un posto migliore, per valorizzarne le risorse, scavando nel passato per costruire il futuro. E' il suo incontro con Luigi Cantamessa, un piemontese trapiantato in Etiopia, profondo conoscitore della cultura, della storia e della religione etiope, a far scattare la scintilla e a far nascere il progetto. E poi c'è Berthe, uno dei cinquanta giovani locali che Elisabetta e Giorgio avevano istruito nei viaggi precedenti. Lui è originario proprio della zona della Chiesa e la sua presenza rassicura la popolazione locale, oltre a dimostrarsi essenziale per le manovre in parete. Seguono tre settimane di sfibrante lavoro, appesi alle corde, sotto un sole africano, tra cavi metallici e staffe, trapano a tracolla, respirando polvere e piantando fittoni, sotto gli sguardi attenti e curiosi, divertiti e preoccupati di bambini, anziani, donne e uomini che giorno dopo giorno accompagnano dal basso, come possono, il lavoro in parete: portano acqua, doni, cibo, ma soprattutto sorrisi. Poi, finalmente, arriva il grande momento: Giorgio raggiunge la porta in legno della chiesa.

Subentrano due ordini di ostacoli, il primo di natura terrena: nel corso dei secoli gli unici a poter visitare la chiesa erano stati gli uccelli, che hanno nidificato e depositato almeno un metro di guano all'interno, tanto da ostruire la porta. Il secondo ostacolo invece è di natura spirituale: a varcare per primo quella soglia sacra deve essere ad ogni costo il custode religioso di quel luogo di culto. Si rende quindi necessario armare una carrucola su una corda statica, imbracare il sacerdote ed agganciarlo a un moschettone per sollevarlo fino al ballatoio da dove, guano permettendo, è possibile l'accesso. Operazione complicata e spettacolare, seguita con trepidazione da un centinaio di fedeli ammassati alla base della parete. Il lavoro di pulizia per consentire l'apertura della porta prende diverse ore, ed è poco piacevole soprattutto per Elisabetta che dal basso deve assicurare gli “spazzini”, vale a dire il sacerdote e Giorgio.

Ma lo spettacolo che si presenta ai loro occhi vale tutte le fatiche e i rischi di questa missione: le mura interne della chiesa sono affrescate con pitture risalenti al XVI-XVII secolo, che hanno conservato la brillantezza dei colori originali. Un ritrovamento di eccezionale importanza per gli studiosi di storia dell'arte, concreta testimonianza dell'evoluzione nei secoli dell'iconografia e dello stile della pittura religiosa etiope. Un repertorio pittorico estremamente ricco, probabilmente frutto della mano di più artisti. Fra le immagini dei vari santi anche una dedicata a San Frumenzio, il santo che introdusse il cristianesimo in Etiopia.

Più tardi, nel corso di una cerimonia, il vescovo di Adigrat ha ringraziato i due istruttori di Mountain Wilderness, “venuti da lontano ad aiutare la nostra religione, per arrampicarsi sulle nostre montagne come le api volano verso il loro alveare”. Il prossimo appuntamento è per ottobre, quando Elisabetta e Giorgio torneranno a Maryam Dengelat per mettere in sicurezza l'itinerario e rendere accessibile la chiesa ai fedeli e a coloro che la vorranno visitare.

Francesca Colesanti

Articolo pubblicato su Il Venerdì di Repubblica del 28 Giugno 2019




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