Un solo Dio nell'arrampicata: il grado!

Prendendo spunto da diversi dibattiti su facebook, il climber e fotografo Riky Felderer condivide il suo punto di vista su un tema che non conosce fine: i gradi di difficoltà nell'arrampicata.
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Michele della Vigna su un celebre E3 6a chiamato 'Smear test' ai Roaches, UK
Riky Felderer

Leggo con piacere sui social un "simpatico" battibecco tra due climber italiani, e la cosa mi ha stuzzicato. A loro modo sono personaggi attivi e "creativi" nell'ambito del verticale sia nella fase operativa che in quella culturale. Questo battibecco in realtà sfocia in altre questioni, ma mi ha dato lo spunto per una riflessione.

Volevo rispondere inizialmente su FB, ma poi ho pensato che questa cosa potrebbe interessare più persone e contribuire a un dibattito comunque interessante che non conosce fine! E che di sicuro non la conoscerà grazie a me!

Ma veniamo al punto: negli ultimi anni, dopo un girovagare abbastanza intenso nel mondo del verticale, sono giunto a una personale conclusione per la quale, entro i limiti del ragionevole, dare i gradi con le scale che più si avvicinano allo stile di riferimento è la cosa più saggia. Non voglio entrare nel merito se abbiano fatto prima il VII° grado in Australia o nelle Alpi, ovvero non mi interessa (qui) aprire il dibattito su chi meriti di più la paternità di un certo stile o una certa etica.

Dico che per motivi di marketing culturale ci sono delle scale che sono "de facto" dei punti di riferimento. Spiego con esempi. Per un tiro a spit di tipo sportivo uso la scala francese, 6b, 9a quello che sia. Poi posso "tradurla" in tutte le scale, poco conta, ma l'identificarla con la scala francese mi da delle indicazioni ben precise. O quantomeno dovrebbe.

Per un tiro stile British Trad (o "hard grit", termine impropriamente usato, il Grit è una roccia, non uno stile), quindi a protezioni veloci e dove il fattore psicologico ha il suo peso, userò coerentemente la scala inglese. Diversamente per un tiro a protezioni veloci di fessura, che preveda un uso appropriato delle tecniche di incastro, mi piace usare, cosa che faccio, la scala americana (per l'annosa questione che un 5.10c di incastro NON è "traducibile" con un 6a+).

Andando avanti nei possibili macrogruppi, per una via in montagna di stampo classico con protezioni miste chiodi/friend, userò scala UIAA. Invece per le multipitch di stampo verdoniano, uso ancora la scala francese, magari (come spesso accade) inserendo l'obbligatorio e il tipo di proteggibilità. Questo è quello che faccio nel mio piccolo, e che mi piacerebbe diventasse un'abitudine diffusa. Soprattutto perché reputo che se un metodo del genere (non per forza questo) fosse diffusamente assimilato si potrebbe unire, e sintetizzare in una definizione corretta, lo stile alla difficoltà, fornendo inoltre al ripetitore un'associazione più precisa ai tiri o alle vie di riferimento.

Poi ci sono varie sfumature di grigio su cui discutere, etiche di apertura convulse e confuse, dal basso, dall'alto, da di fianco, stili complessi, retrobloting, debolting e ogni genere di variazione. Però, in un'ottica di rispetto dello stile e della sua sintesi alfanumerica (ovvero dell'unica divinità condivisa nel pianeta: il Grado!), credo che così potrebbe funzionare.

Non sono depositario del Sapere, questo è un mio piccolo spunto per pensare e ragionare su un modi di gradare le vie fatte e da fare, e contemporaneamente costringere magari i devoti del Dio Grado a guardare cosa c'è in giro per il mondo e magari scoprire cose interessanti e stimoli nuovi! E far riflettere i compilatori di guide e relazioni su un uso un minimo condiviso della valutazione.

di Riky Felderer





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