Aspettando il Melloblocco #1, Cieli ramati di Monolith di Popi Miotti
Un racconto di Giuseppe 'Popi' Miotti e le visioni di un arrampicatore tra la Val Masino – Val di Mello e lontanissime galassie verticali di puro granito.
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Melloblocco 2009
Giulio Malfer
Dicono che l'arrampicata genera visioni... così, aspettando il Melloblocco 2011, vi proponiamo questo racconto di Giuseppe 'Popi' Miotti che parla di arrampicata, ma anche di un posto che potrebbe essere la Val Masino - Val di Mello, e di qualcuno che potrebbe sembrare un climber. Prendetevi il giusto tempo, perché, se avrete la pazienza di arrivare fino in fondo, forse scoprirete il potere visionario, lento e potente, dell'arrampicata...
…CIELI RAMATI DI MONOLITH di Popi Miotti
«Monolith! Ooh, grande Monolith! Che abbiamo fatto per perdere la tua luce? Che abbiamo fatto per essere scaraventati quaggiù, su questo pianeta verdazzurro così diverso dal nostro che da te prende il nome? Da anni non vedo più sorgere e tramontare le lune gemelle Zefir e Russ. Mi mancano le tue albe color cremisi, i tuoi tramonti verdeggianti, i venti imperversanti che carezzavano i nostri corpi riempiendoci di vigore e ci lisciavano dolcemente. Da quando la nostra astronave è caduta in questa valle, stiamo cercando di capirne di più. Abbiamo scoperto formazioni cristalline piuttosto rozze, simili a noi, con le quali è stato possibile sia pur parzialmente comunicare. Ci hanno detto che gli esseri bipedi che sembrano l’unica espressione d’intelligenza avanzata sul pianeta le chiamano pietre, e che questo mondo alieno è chiamato Terra. E’ stato facile per noi mimetizzarci con questi primitivi: anch’essi hanno una struttura al silicio come la nostra, riprova della potenza di Monolith che ha riempito il cosmo di vita. In ogni caso, per precauzione abbiamo celato l’astronave modificando le sue strutture in modo che sembrasse un’enorme pietra: è la più grande fra tutte quelle che ci sono qui. Mentre i meccanici cercano di riparare il danno, stiamo esplorando il luogo da giorni.
Abbiamo scoperto che, nonostante l’alta presenza di silicio, su questo mondo domina un tipo di esistenza basato sul carbonio. Vi sono migliaia di esseri stranissimi quanto fragili ed effimeri: fortunatamente sembrano tutti assolutamente innocui per noi. Anche il tempo su questo illogico pianeta scorre secondo leggi diverse, tutto si svolge a ritmo frenetico: in un giorno di Monolith ho visto sorgere e tramontare il suo sole per 212 volte e ho visto la sua luna brillante roteare sfrenata nel cielo notturno. Per 212 volte albe, tramonti, buio e luce si sono succeduti in una girandola impazzita, mentre queste piccole vite al carbonio s’accendono per poi spegnersi in un attimo. Dopo qualche tempo alcuni dei bipedi intelligenti si sono interessati a noi. Molti membri dell’equipaggio sono stati aggrediti da questi esseri, ma la paura iniziale si è presto mutata in stupore e ilarità. Questi organismi erano inoffensivi: si limitavano a tentare di salirci sopra senza provocare danni! Al più ci sfregavano, si diceva piacevolmente, con degli strumenti che toglievano le croste della nostra pelle. In qualche caso avevano anche piantato degli strani ferri nelle nostre rughe o addirittura nella cute compatta, limitandosi tuttavia a darci solo un minimo fastidio. Per questo abbiamo deciso di subire pazienti questo strano gioco, forse uno sport locale».
Klynw, questo era il suo nome, giaceva un po’ appartato dagli altri della Splendente Crystal, l’astronave precipitata nel 1142 TT in Val Masino. Il bosco gli era cresciuto attorno e una verde radura erbosa si stendeva ai suoi piedi, sempre più stretta; per questo motivo era stato uno degli ultimi alieni a conoscere gli esseri dominanti del pianeta. Ma Klynw era anche il più triste: era stato distaccato in quella posizione perché il comandante aveva giudicato fosse la migliore per lanciare nei cieli il loro grido d’aiuto, così lui si trovava isolato dal resto del gruppo. Per l’ennesima volta stava lanciando il suo disperato SOS cosmico, quando rivide il bipede.
«Che ci fa di nuovo qui? - si disse - Se n’era appena andato. Ma è proprio lui?». Subito dopo, ricordando le leggi che governavano il pianeta verdazzurro, provò quasi un moto di compassione: «Non avevo mai avuto occasione di vedere come agiscono i processi dell’invecchiamento sui terrestri. Guarda come è mutato. Ha perso quasi tutta la folta peluria che aveva, e quel che resta ha cambiato colore. Mah! Che strana fisiologia: pochi secondi e sono già con un piede nei cieli di Monolith. Ma che sta facendo? Perché mi guarda così? La prima volta mi ha trattato come un minerale qualsiasi. E’ arrivato, ha cambiato i rivestimenti alla sua base, si è cinto una specie di sacchetto in vita, mi ha scrutato e poi, improvvisamente, ha tentato di… imporsi. Anche se i compagni della Crystal mi avevano avvisato, ammetto di essermi spaventato. Non riuscendo a montarmi in groppa al primo colpo ha provato e riprovato usando mille accorgimenti. Alla fine ce l’ha fatta, ma con grandissimo sforzo. Mi chiedo quale soddisfazione possano trarre queste creature da gesti tanto inutili. Non vedo, infatti, alcuno scopo logico in quel che fanno. Per Monolith! Ci riprova? Prima, quando ha strappato un’appendice di accrescimento che ancora non era matura mi ha fatto male! Le altre gli sono state utili per aggrapparsi, ma erano ancora nel mio corpo, ben salde, questa era in fase di espulsione, ma… insomma, non ancora del tutto. Comunque è vero: questo su e giù è stato quasi piacevole, mi ricordava un po’ l’andirivieni dei nostri parassiti, i crugs, là sul nostro mondo d’ambra e amaranto».
L’essere era arrivato ai piedi del grande macigno con grande fatica, arrancando fra la fitta vegetazione, frustato dai rami sul volto e sulle braccia, graffiato da prorompenti cespi di more, scivolando su tappeti di muschio che nelle zone d’ombra era spesso un palmo. Aveva impiegato un bel po’ per ritrovare quel sasso. Lo aveva pensato spesso in tutti quegli anni, bello, forte e ben piantato nel terreno, con quella vena di pegmatite che lo attraversava come una bandoliera. Ricordava ancora il piacere estetico che gli fece la prima volta che lo vide, con quelle fessurine sottili ed allineate, con quella elegante successione di appigli minuscoli che erano un chiaro invito alla salita. Su quel sasso ricordava di aver tracciato il suo passaggio più bello. Fin da giovane, salvo qualche eccezione, non scalava per la difficoltà fine a se stessa; piuttosto era attratto dalla bellezza. La bellezza era la sua ossessione: la perfezione delle linee, l’armonia di colori e sfumature, l’eleganza delle tessiture rocciose, la “personalità” che emanava dal sasso. Queste erano le cose che contavano e quindi III° grado o X° poco importava. Il segreto, per lui, era stare con la roccia, entrare in contatto con quella magnifica simmetria e goderne attraverso il gesto. Il problema era che bellezza e difficoltà erano spesso legate da una misteriosa legge per cui difficilmente un aspetto escludeva l’altro. Quel blocco non faceva eccezione. Per farlo, dodici anni prima, si era spelato le dita a furia di tentativi.
L’umano si sedette di fronte al sasso guardandosi attorno. La bella radura erbosa di un tempo si era ridotta ad uno stretto corridoio che cingeva la base della roccia. Tutto era cambiato: il bosco aveva preso il sopravvento, gli antichi sentieri erano quasi scomparsi e muoversi in quella cittadella di pietra era ormai difficilissimo. Alla base del masso lo scalatore perse tempo nel cercare il suo passaggio. Non fece fatica a ritrovarlo, la bella successione di appigli disegnava una linea di rara eleganza che portava sulla cima. Con la mano accarezzò i primi appigli, quasi contemplandoli. «Ma come ho fatto a tenere ste robe?» si chiese stupito. Provando a far forza sulle minuscole asperità le sue dita si piegarono come fossero di burro e le giunture scricchiolarono dolorose. Eppure, forse, con un po’ di pazienza e di tentativi ce l’avrebbe fatta: le nuove pedule garantivano prestazioni che le scarpe da ginnastica di un tempo certo non avevano. Rinfrancato, il bipede mise le scarpette, affondò le mani nel sacchetto di magnesite, e partì per un primo tentativo. Non si staccò da terra; il piede gli scivolò subito, ancor prima che le dita esercitassero il massimo sforzo. Ricacciò le mani nel sacchetto, guardò la ruvida superficie di pietra, pensò alla sequenza dei movimenti, pulì meglio le suole, le asciugò bene e ripartì. Mano destra su una reglette, mano sinistra in una conchetta, piede sinistro qui, piede destro là ed era partito. Il viaggio durò poco, giusto il tempo di afferrare una scaglia obliqua e la gravità prese di nuovo il sopravvento. Una decina di minuti terrestri dopo il gioco riprendeva.
Questa volta, mettendo in campo le astuzie imparate in una vita, l’uomo riuscì ad arrivare a metà della parete e a “tallonare” uno spiovente che, scaricando parte del peso, gli permise di arrivare quasi sul bordo della roccia. Quello fu però il limite massimo anche nei successivi tentativi. La forza e la motivazione lo stavano mollando, così come le sue dita mollavano le prese; decise infine di riposarsi ben bene per quello che sarebbe stato il suo ultimo tentativo. Molti pensieri gli attraversavano la mente, ma il più insistente lo costringeva a fare i conti con gli anni, con il tempo. Una brezza leggera gli carezzava la pelle e nel cielo azzurro correvano nuvole disordinate; quante volte quella bellezza lo aveva rapito, quante volte l’aveva trasportato in dimensioni lontane e immaginarie. Quante volte aveva gioito del calore della roccia, del perfetto gripp di giornate asciutte e fredde, della trionfante soddisfazione di un passaggio superato.
Silenzioso ed incombente Klynw osservava la scena. Il terrestre lo guardava con un’espressione di serena rassegnazione e sembrava ancora una volta volergli parlare. Fu forse in quel breve, portentoso e inspiegabile attimo che, per la prima volta, un monolith e un umano riuscirono in qualche modo ad entrare in contatto. L’alieno avvertì la frustrazione e la tristezza dell’altro, capì lo scorrere del tempo sulla Terra ed ebbe nuovamente compassione per quella minuscola, esile creatura che sembrava ricavare tanta gioia nell’inutilità di pochi gesti. Fu allora che si decise a fare ciò che mai avrebbe pensato di fare. Mentre l’essere sconfortato era distratto, Klynw animò la sua struttura cristallina: spinse i reticoli, aggiunse legami e, come se gonfiasse un potente torace, fece in modo che le scaglie di accrescimento fuoriuscissero un po' di più dal suo corpo; contemporaneamente, incavò leggermente le rientranze per gli scambi gassosi. Lo sforzo era enorme e le sue asperità si modificarono solo di pochi millimetri. Intanto l’uomo si era portato ancora una volta sotto il blocco, ammirandone la perfezione. Lo sguardo ripercorse la linea degli appigli e la mente disegnò per l’ennesima volta il movimento. La mano afferrò la prima tacca: «Strano – pensò – mi pare quasi meglio di prima. Forse ero freddo. Alla mia età ce ne vuole di tempo per scaldarsi». Il piede trovò subito maggiore aderenza e, senza troppa convinzione, lo scalatore sollevò l’altro braccio per dare il via al gesto. Le dita si strinsero in una rientranza dove per qualche millimetro trovò posto anche il mignolo, andando ad incrementare la tenuta. Il gesto successivo a prendere una lametta obliqua fu quasi facile. Stupito della folgorante partenza, l’umano prese brevemente fiato sugli appigli e, galvanizzato dal successo iniziale, proseguì la scalata. Ricordava perfettamente la sequenza, gli equilibri e le meccaniche necessarie.
In quelli che furono attimi, Klynw fece del suo meglio per concentrarsi e mantenere i reticoli cristallini nel loro nuovo, precario stato. Se avesse potuto - se fosse stato al carbonio - l’avremmo visto trattenere il fiato per lo sforzo. «Per Monolith - imprecò - la faccenda è insostenibile. Per quanto tempo ancora potrò dominare i reticoli? Per quanto tempo…?». Non riuscì a finire quel pensiero: un attimo di distrazione e i cristalli riacquistarono l’usuale conformazione. Il micro appiglio che il terrestre stava usando per l’ultimo decisivo slancio verso la cima si ritrasse impercettibilmente, ma abbastanza perché la presa divenisse impossibile per le sue dita. I minuscoli cristalli di un appoggio, sui quali aderivano pochi millimetri di suola, si fecero meno penetranti. Bastarono questi due soli invisibili, impercettibili cambiamenti a creare un grande sconvolgimento: quasi a corpo morto l’arrampicatore cadde di schiena, restando per qualche secondo intontito dall’urto che per fortuna fu ammortizzato dal praticello sottostante.
«OK! - disse ad alta voce - E’ andata. Basta, questa era l’ultima possibilità. Basta, quasi ti sei schiantato e alla tua età non ti conviene farti male. Stai tranquillo. Devi accettare che le cose cambiano. Hai fatto del tuo meglio. Hai goduto la giornata, ritrovato un vecchio amico, riassaporato le antiche atmosfere. Che vuoi di più?».
Già! Che voleva di più? Lo sapeva benissimo, ma sapeva altrettanto che ciò che ambiva era ormai irrealizzabile. Con tranquillità si tolse le pedule rimirando il suo vecchio capolavoro. Stette così per molti minuti, scrutando quella pietra immobile quasi a cercarne un improbabile sguardo. Alla fine si alzò imboccando l’incerta via del ritorno, ma prima di entrare nel bosco si voltò ancora una volta verso il monolite; poi fu inghiottito dal verde.
Klynw lo vide scomparire e per un attimo pensò che l’avrebbe rivisto, che sarebbe tornato presto. Per qualche istante quel bizzarro essere aveva rallegrato la sua solitudine; a modo suo ci si era quasi affezionato. Si ripromise che al suo ritorno si sarebbe fatto trovare pronto: si sarebbe gonfiato di nuovo e meglio, gli avrebbe concesso la soddisfazione di tornare sulla sua sommità. Così, per un paio di minuti il monolith restò fermo in speranzosa attesa. Nel frattempo mutarono i cieli, piovve, nevicò e riarse il sole, fu freddo e poi caldo e poi ancora freddo, molte volte i colori cangiarono. Infine, guardando alla sua base, Klynw vide la radura che lo cingeva farsi ancor più stretta e comprese che quei due minuti erano stati minuti del suo tempo: l’umano non sarebbe più tornato. Allora levò alta la sua maledizione contro le implacabili leggi che governavano quel pianeta e contro il destino che li aveva confinati in quel luogo pazzesco, dove gli esseri sono fatti di carbonio e non durano che pochi, risibili attimi. Poi, rassegnato, tornò di nuovo a concentrarsi e si predispose a lanciare ancora una volta il suo disperato segnale verso i cieli ramati di Monolith.
di Giuseppe “Popi” Miotti
Giuseppe "Popi" Miotti. Tra i primi frequentatori sistematici dei massi della Val Masino può essere considerato il padre del Bouldering in Valtellina. ?Storica fu la salita di Goldrake nel 1975 6b+ e del Nipote di Goldreke 7b nel 1981, è anche autore della ripetuta e bellissima Uomini e Topi alle Placche dell’Oasi nel 1977.? Guida alpina e laureato in agraria, è uno dei più accreditati storici dell'alpinismo delle Alpi centrali.
MELLOBLOCCO 2011 Val Masino - Val di Mello 5-8 maggio 2011
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…CIELI RAMATI DI MONOLITH di Popi Miotti
«Monolith! Ooh, grande Monolith! Che abbiamo fatto per perdere la tua luce? Che abbiamo fatto per essere scaraventati quaggiù, su questo pianeta verdazzurro così diverso dal nostro che da te prende il nome? Da anni non vedo più sorgere e tramontare le lune gemelle Zefir e Russ. Mi mancano le tue albe color cremisi, i tuoi tramonti verdeggianti, i venti imperversanti che carezzavano i nostri corpi riempiendoci di vigore e ci lisciavano dolcemente. Da quando la nostra astronave è caduta in questa valle, stiamo cercando di capirne di più. Abbiamo scoperto formazioni cristalline piuttosto rozze, simili a noi, con le quali è stato possibile sia pur parzialmente comunicare. Ci hanno detto che gli esseri bipedi che sembrano l’unica espressione d’intelligenza avanzata sul pianeta le chiamano pietre, e che questo mondo alieno è chiamato Terra. E’ stato facile per noi mimetizzarci con questi primitivi: anch’essi hanno una struttura al silicio come la nostra, riprova della potenza di Monolith che ha riempito il cosmo di vita. In ogni caso, per precauzione abbiamo celato l’astronave modificando le sue strutture in modo che sembrasse un’enorme pietra: è la più grande fra tutte quelle che ci sono qui. Mentre i meccanici cercano di riparare il danno, stiamo esplorando il luogo da giorni.
Abbiamo scoperto che, nonostante l’alta presenza di silicio, su questo mondo domina un tipo di esistenza basato sul carbonio. Vi sono migliaia di esseri stranissimi quanto fragili ed effimeri: fortunatamente sembrano tutti assolutamente innocui per noi. Anche il tempo su questo illogico pianeta scorre secondo leggi diverse, tutto si svolge a ritmo frenetico: in un giorno di Monolith ho visto sorgere e tramontare il suo sole per 212 volte e ho visto la sua luna brillante roteare sfrenata nel cielo notturno. Per 212 volte albe, tramonti, buio e luce si sono succeduti in una girandola impazzita, mentre queste piccole vite al carbonio s’accendono per poi spegnersi in un attimo. Dopo qualche tempo alcuni dei bipedi intelligenti si sono interessati a noi. Molti membri dell’equipaggio sono stati aggrediti da questi esseri, ma la paura iniziale si è presto mutata in stupore e ilarità. Questi organismi erano inoffensivi: si limitavano a tentare di salirci sopra senza provocare danni! Al più ci sfregavano, si diceva piacevolmente, con degli strumenti che toglievano le croste della nostra pelle. In qualche caso avevano anche piantato degli strani ferri nelle nostre rughe o addirittura nella cute compatta, limitandosi tuttavia a darci solo un minimo fastidio. Per questo abbiamo deciso di subire pazienti questo strano gioco, forse uno sport locale».
Klynw, questo era il suo nome, giaceva un po’ appartato dagli altri della Splendente Crystal, l’astronave precipitata nel 1142 TT in Val Masino. Il bosco gli era cresciuto attorno e una verde radura erbosa si stendeva ai suoi piedi, sempre più stretta; per questo motivo era stato uno degli ultimi alieni a conoscere gli esseri dominanti del pianeta. Ma Klynw era anche il più triste: era stato distaccato in quella posizione perché il comandante aveva giudicato fosse la migliore per lanciare nei cieli il loro grido d’aiuto, così lui si trovava isolato dal resto del gruppo. Per l’ennesima volta stava lanciando il suo disperato SOS cosmico, quando rivide il bipede.
«Che ci fa di nuovo qui? - si disse - Se n’era appena andato. Ma è proprio lui?». Subito dopo, ricordando le leggi che governavano il pianeta verdazzurro, provò quasi un moto di compassione: «Non avevo mai avuto occasione di vedere come agiscono i processi dell’invecchiamento sui terrestri. Guarda come è mutato. Ha perso quasi tutta la folta peluria che aveva, e quel che resta ha cambiato colore. Mah! Che strana fisiologia: pochi secondi e sono già con un piede nei cieli di Monolith. Ma che sta facendo? Perché mi guarda così? La prima volta mi ha trattato come un minerale qualsiasi. E’ arrivato, ha cambiato i rivestimenti alla sua base, si è cinto una specie di sacchetto in vita, mi ha scrutato e poi, improvvisamente, ha tentato di… imporsi. Anche se i compagni della Crystal mi avevano avvisato, ammetto di essermi spaventato. Non riuscendo a montarmi in groppa al primo colpo ha provato e riprovato usando mille accorgimenti. Alla fine ce l’ha fatta, ma con grandissimo sforzo. Mi chiedo quale soddisfazione possano trarre queste creature da gesti tanto inutili. Non vedo, infatti, alcuno scopo logico in quel che fanno. Per Monolith! Ci riprova? Prima, quando ha strappato un’appendice di accrescimento che ancora non era matura mi ha fatto male! Le altre gli sono state utili per aggrapparsi, ma erano ancora nel mio corpo, ben salde, questa era in fase di espulsione, ma… insomma, non ancora del tutto. Comunque è vero: questo su e giù è stato quasi piacevole, mi ricordava un po’ l’andirivieni dei nostri parassiti, i crugs, là sul nostro mondo d’ambra e amaranto».
L’essere era arrivato ai piedi del grande macigno con grande fatica, arrancando fra la fitta vegetazione, frustato dai rami sul volto e sulle braccia, graffiato da prorompenti cespi di more, scivolando su tappeti di muschio che nelle zone d’ombra era spesso un palmo. Aveva impiegato un bel po’ per ritrovare quel sasso. Lo aveva pensato spesso in tutti quegli anni, bello, forte e ben piantato nel terreno, con quella vena di pegmatite che lo attraversava come una bandoliera. Ricordava ancora il piacere estetico che gli fece la prima volta che lo vide, con quelle fessurine sottili ed allineate, con quella elegante successione di appigli minuscoli che erano un chiaro invito alla salita. Su quel sasso ricordava di aver tracciato il suo passaggio più bello. Fin da giovane, salvo qualche eccezione, non scalava per la difficoltà fine a se stessa; piuttosto era attratto dalla bellezza. La bellezza era la sua ossessione: la perfezione delle linee, l’armonia di colori e sfumature, l’eleganza delle tessiture rocciose, la “personalità” che emanava dal sasso. Queste erano le cose che contavano e quindi III° grado o X° poco importava. Il segreto, per lui, era stare con la roccia, entrare in contatto con quella magnifica simmetria e goderne attraverso il gesto. Il problema era che bellezza e difficoltà erano spesso legate da una misteriosa legge per cui difficilmente un aspetto escludeva l’altro. Quel blocco non faceva eccezione. Per farlo, dodici anni prima, si era spelato le dita a furia di tentativi.
L’umano si sedette di fronte al sasso guardandosi attorno. La bella radura erbosa di un tempo si era ridotta ad uno stretto corridoio che cingeva la base della roccia. Tutto era cambiato: il bosco aveva preso il sopravvento, gli antichi sentieri erano quasi scomparsi e muoversi in quella cittadella di pietra era ormai difficilissimo. Alla base del masso lo scalatore perse tempo nel cercare il suo passaggio. Non fece fatica a ritrovarlo, la bella successione di appigli disegnava una linea di rara eleganza che portava sulla cima. Con la mano accarezzò i primi appigli, quasi contemplandoli. «Ma come ho fatto a tenere ste robe?» si chiese stupito. Provando a far forza sulle minuscole asperità le sue dita si piegarono come fossero di burro e le giunture scricchiolarono dolorose. Eppure, forse, con un po’ di pazienza e di tentativi ce l’avrebbe fatta: le nuove pedule garantivano prestazioni che le scarpe da ginnastica di un tempo certo non avevano. Rinfrancato, il bipede mise le scarpette, affondò le mani nel sacchetto di magnesite, e partì per un primo tentativo. Non si staccò da terra; il piede gli scivolò subito, ancor prima che le dita esercitassero il massimo sforzo. Ricacciò le mani nel sacchetto, guardò la ruvida superficie di pietra, pensò alla sequenza dei movimenti, pulì meglio le suole, le asciugò bene e ripartì. Mano destra su una reglette, mano sinistra in una conchetta, piede sinistro qui, piede destro là ed era partito. Il viaggio durò poco, giusto il tempo di afferrare una scaglia obliqua e la gravità prese di nuovo il sopravvento. Una decina di minuti terrestri dopo il gioco riprendeva.
Questa volta, mettendo in campo le astuzie imparate in una vita, l’uomo riuscì ad arrivare a metà della parete e a “tallonare” uno spiovente che, scaricando parte del peso, gli permise di arrivare quasi sul bordo della roccia. Quello fu però il limite massimo anche nei successivi tentativi. La forza e la motivazione lo stavano mollando, così come le sue dita mollavano le prese; decise infine di riposarsi ben bene per quello che sarebbe stato il suo ultimo tentativo. Molti pensieri gli attraversavano la mente, ma il più insistente lo costringeva a fare i conti con gli anni, con il tempo. Una brezza leggera gli carezzava la pelle e nel cielo azzurro correvano nuvole disordinate; quante volte quella bellezza lo aveva rapito, quante volte l’aveva trasportato in dimensioni lontane e immaginarie. Quante volte aveva gioito del calore della roccia, del perfetto gripp di giornate asciutte e fredde, della trionfante soddisfazione di un passaggio superato.
Silenzioso ed incombente Klynw osservava la scena. Il terrestre lo guardava con un’espressione di serena rassegnazione e sembrava ancora una volta volergli parlare. Fu forse in quel breve, portentoso e inspiegabile attimo che, per la prima volta, un monolith e un umano riuscirono in qualche modo ad entrare in contatto. L’alieno avvertì la frustrazione e la tristezza dell’altro, capì lo scorrere del tempo sulla Terra ed ebbe nuovamente compassione per quella minuscola, esile creatura che sembrava ricavare tanta gioia nell’inutilità di pochi gesti. Fu allora che si decise a fare ciò che mai avrebbe pensato di fare. Mentre l’essere sconfortato era distratto, Klynw animò la sua struttura cristallina: spinse i reticoli, aggiunse legami e, come se gonfiasse un potente torace, fece in modo che le scaglie di accrescimento fuoriuscissero un po' di più dal suo corpo; contemporaneamente, incavò leggermente le rientranze per gli scambi gassosi. Lo sforzo era enorme e le sue asperità si modificarono solo di pochi millimetri. Intanto l’uomo si era portato ancora una volta sotto il blocco, ammirandone la perfezione. Lo sguardo ripercorse la linea degli appigli e la mente disegnò per l’ennesima volta il movimento. La mano afferrò la prima tacca: «Strano – pensò – mi pare quasi meglio di prima. Forse ero freddo. Alla mia età ce ne vuole di tempo per scaldarsi». Il piede trovò subito maggiore aderenza e, senza troppa convinzione, lo scalatore sollevò l’altro braccio per dare il via al gesto. Le dita si strinsero in una rientranza dove per qualche millimetro trovò posto anche il mignolo, andando ad incrementare la tenuta. Il gesto successivo a prendere una lametta obliqua fu quasi facile. Stupito della folgorante partenza, l’umano prese brevemente fiato sugli appigli e, galvanizzato dal successo iniziale, proseguì la scalata. Ricordava perfettamente la sequenza, gli equilibri e le meccaniche necessarie.
In quelli che furono attimi, Klynw fece del suo meglio per concentrarsi e mantenere i reticoli cristallini nel loro nuovo, precario stato. Se avesse potuto - se fosse stato al carbonio - l’avremmo visto trattenere il fiato per lo sforzo. «Per Monolith - imprecò - la faccenda è insostenibile. Per quanto tempo ancora potrò dominare i reticoli? Per quanto tempo…?». Non riuscì a finire quel pensiero: un attimo di distrazione e i cristalli riacquistarono l’usuale conformazione. Il micro appiglio che il terrestre stava usando per l’ultimo decisivo slancio verso la cima si ritrasse impercettibilmente, ma abbastanza perché la presa divenisse impossibile per le sue dita. I minuscoli cristalli di un appoggio, sui quali aderivano pochi millimetri di suola, si fecero meno penetranti. Bastarono questi due soli invisibili, impercettibili cambiamenti a creare un grande sconvolgimento: quasi a corpo morto l’arrampicatore cadde di schiena, restando per qualche secondo intontito dall’urto che per fortuna fu ammortizzato dal praticello sottostante.
«OK! - disse ad alta voce - E’ andata. Basta, questa era l’ultima possibilità. Basta, quasi ti sei schiantato e alla tua età non ti conviene farti male. Stai tranquillo. Devi accettare che le cose cambiano. Hai fatto del tuo meglio. Hai goduto la giornata, ritrovato un vecchio amico, riassaporato le antiche atmosfere. Che vuoi di più?».
Già! Che voleva di più? Lo sapeva benissimo, ma sapeva altrettanto che ciò che ambiva era ormai irrealizzabile. Con tranquillità si tolse le pedule rimirando il suo vecchio capolavoro. Stette così per molti minuti, scrutando quella pietra immobile quasi a cercarne un improbabile sguardo. Alla fine si alzò imboccando l’incerta via del ritorno, ma prima di entrare nel bosco si voltò ancora una volta verso il monolite; poi fu inghiottito dal verde.
Klynw lo vide scomparire e per un attimo pensò che l’avrebbe rivisto, che sarebbe tornato presto. Per qualche istante quel bizzarro essere aveva rallegrato la sua solitudine; a modo suo ci si era quasi affezionato. Si ripromise che al suo ritorno si sarebbe fatto trovare pronto: si sarebbe gonfiato di nuovo e meglio, gli avrebbe concesso la soddisfazione di tornare sulla sua sommità. Così, per un paio di minuti il monolith restò fermo in speranzosa attesa. Nel frattempo mutarono i cieli, piovve, nevicò e riarse il sole, fu freddo e poi caldo e poi ancora freddo, molte volte i colori cangiarono. Infine, guardando alla sua base, Klynw vide la radura che lo cingeva farsi ancor più stretta e comprese che quei due minuti erano stati minuti del suo tempo: l’umano non sarebbe più tornato. Allora levò alta la sua maledizione contro le implacabili leggi che governavano quel pianeta e contro il destino che li aveva confinati in quel luogo pazzesco, dove gli esseri sono fatti di carbonio e non durano che pochi, risibili attimi. Poi, rassegnato, tornò di nuovo a concentrarsi e si predispose a lanciare ancora una volta il suo disperato segnale verso i cieli ramati di Monolith.
di Giuseppe “Popi” Miotti
Giuseppe "Popi" Miotti. Tra i primi frequentatori sistematici dei massi della Val Masino può essere considerato il padre del Bouldering in Valtellina. ?Storica fu la salita di Goldrake nel 1975 6b+ e del Nipote di Goldreke 7b nel 1981, è anche autore della ripetuta e bellissima Uomini e Topi alle Placche dell’Oasi nel 1977.? Guida alpina e laureato in agraria, è uno dei più accreditati storici dell'alpinismo delle Alpi centrali.
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