Coffee Break #19 Any Fucking Thing You Love
Meno è meglio, ma quanto dobbiamo sottrarre, quanto e cosa è giusto togliere? Daniela Zangrando nel suo 19° Coffee Break lascia libero sfogo alla fantasia del meno tra montagne, uomini, alpinisti, artisti, maghi, parolieri, filosofi ma anche marionette, nuvole e rondini che... non tornano più.
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Any Fucking Thing You Love
© archive Tadiello-Zangrando
Tutto accadde nel tempo in cui le forme di vita del mondo erano giunte alla loro consumazione storica. Niente più battagliare di religioni. Infermate le culture. Esaurite tutte le epoche. Erano rimaste solo le montagne. Si erano aperte allo spazio, totali. Pura realtà. Esser pietra - della pietra.
Era un mondo strano quello delle montagne, un mondo privativo. Si sarebbe potuto parlare di un universo derubato, in cui ogni azione e ogni pensiero erano più difficili del dovuto. Si faceva fatica a raggiungere un qualsivoglia luogo e tutto sembrava sempre lontano; faceva sovente molto freddo ed era facile che si congelassero le tubature o ci si buscasse un raffreddore; ogni tanto, così, senza dar troppi preavvisi, prendeva fuoco un antico fienile o qualche bestia finiva diritta in un dirupo; per non parlare del vento, sempre sferzante! Inoltre, nonostante non fosse stato fatto preciso divieto d’incontrarsi a discorrere delle più alte filosofie, pareva che le menti migliori se ne fossero andate tutte, da tempo.
Si viveva dunque in un mondo striminzito? Forse. Ma, in cambio, guarda che meraviglia di tramonti, e di stelle! E guarda quei prati d’autunno! Paiono pellicce. E che dire di quei fiori carnosi? E la neve, non è superba la neve? Sa proprio, ... di neve!
Gli uomini, dal canto loro, dopo un primo attimo di stordimento, si erano riorganizzati. Sapevano bene che il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro, ma il derubato che piange ruba qualcosa a se stesso! L’aveva detto loro quell’abile paroliere dallo sguardo di incantatore, e non c’era motivo per non credergli. Anche chi prima non aveva mai degnato d’uno sguardo le cime, si era abituato alla loro presenza. In fondo bastava decidersi a vivere con poco. Con meno. Riuscite a figurarvi il meno? Ecco, ancora meno.
Il primo a testare il meno, fu Mago Merlino. Lo provò durante l’ennesimo duello con Maga Magò. Di fronte alla maga trasformata in coccodrillo, eccolo tartaruga e poi coniglio. Con la maga trasformata in volpe eccolo bruco. Unico attimo di grandezza, quello che lo vede tricheco di fronte alla maga gallina. Poi ancora topino di fronte alla Magò elefante, granchio con serpente, capra con rinoceronte. Acutissima l’idea con cui Merlino riuscì a chiudere il duello. Un vero colpo di genio sottrattivo. Maga Magò arrabbiatissima si fece drago viola e Merlino fu meno che minimo. Germe di una malattia molto rara, la Malaclipcalopterosis. Vittoria assoluta. A questo punto Merlino dettò legge. Non c’era altro da fare che risicarsi, restringersi, rimpicciolirsi, abbassar le pretese, viver di poco. Meno. Meno. Meno. Presiedette, egli stesso in persona, la sera stessa, ad un comizio per stabilire le due tre direttive di base. Ognuno, poi, era libero di prendere la questione a modo suo.
Sergio, ad esempio, che aveva sorriso con un po’ di cinismo di fronte al duello medievale del mago, aveva deciso che “meno” poteva anche stargli bene, ma come voleva lui. Non era tipo da lasciarsi condizionare dal parere comune. Faceva una vita dura. Doveva lavorare tutti i giorni in una fabbrica, per mantenere la famiglia. Ma era un alpinista! Voleva essere un alpinista! E fare vie su vie. Le aveva anche classificate tutte. Facili, difficili, molto difficili, estreme. Ne aveva percorse tantissime... chissà quante altre ne avrebbe fatte se quello stramaledetto lavoro... Il suo tempo era un tempo sempre ritagliato. Era scarsissimo. Sempre meno. Quasi all’improvviso, ripensandoci, si accorse che era sì un tempo quasi inesistente, ma di un’altissima qualità. Non doveva mica essere poi così idiota come sembrava quel Mago Merlino!
Manuel Efrim decise che era ora di star fermo. Il prossimo album sarebbe uscito otto anni dopo. Nemmeno un giorno prima.
Adriana aveva colto l’occasione per ritirarsi al Molinasso. Per fare, della sua, una vita eremitica. Non aveva nessuna intenzione di indulgere nell’arcaismo, né di coltivare nostalgie passatiste. Conosceva bene la città, il lavoro culturale, quello della scrittura. Conosceva il traffico, la mondanità. Ma nella cascina che aveva scelto come casa, costava troppo far arrivare la luce elettrica. Non la sdegnava mica, ma intanto aveva deciso di lasciarla dov’era. La sua non era una rinuncia, ma la precisa scelta di vivere in totale pienezza, con poco. Di curarsi degli animali, dell’orto, degli alberi da frutto, dei contadini che ogni tanto la aiutavano e le insegnavano i segreti della coltivazione, del silenzio. Per non morire di efficienza dimenticando la poesia.
I corpi delle sculture di Alberto, in quel periodo, erano diventati irriducibili. Non si capiva nemmeno se fossero sul punto di scomparire o se fossero appena apparsi. Si poteva dubitare anche fossero corpi. Forse, come raccontava John, rivelavano, nella profondità del loro essere corpo, una membrana, una pelle comune a fisico e metafisico. Anche il loro autore era diventato sottile. Lo si vide passare in una giornata di pioggia con indosso un impermeabile che sembrava preso a prestito. E sotto l’impermeabile, che si tirava sulla testa, non pareva aver altro che i pantaloni. Con naturalezza, portava la sua simbolica povertà.
Un giorno qualcuno chiese ad Alberto: «Quando alla fine le sue sculture devono lasciare lo studio, dove dovrebbero andare? In un museo?». E lui rispose: «No, seppellitele nella terra, così faranno da ponte tra i vivi e i morti.» Meravigliosa risposta della ritrazione.
Strano fu il caso di Giovanni Grando. Era un personaggio un po’ bizzarro lui! Per immaginarlo, figuratevi semplicemente uno di quelli con talmente tante idee e tanti grilli in testa che sembra sempre non concludere niente. Uno che un giorno vuol far l’artista e il giorno dopo lo sciatore. Uno sempre con un progetto in bocca. Quell’anno lì invece, sempre nell’ottica di lasciar perdere il superfluo e concentrarsi sul necessario, aveva lasciato da parte tutto e aveva imparato a fare il fuoco.
Magro risultato? A giudicare dalla sua soddisfazione, assolutamente no.
Grazie al suo fuocherello, riusciva a scaldare il camerone gelido dove dormiva, lavorava e mangiava pure. Dunque, faceva così. Prendeva due pezzetti d’abete tagliati a misura, li posava nella stufa ad una distanza di qualche centimetro l’uno dall’altro. Sopra, in diagonale, appoggiava cinque listelli sottili; due li faceva correre da sinistra a destra e tre da destra a sinistra, in modo che al centro risultassero incrociati. Bastava poi aggiungere sopra qualche altro pezzo d’abete – per aiutare la fiamma – e poi dei ceppi di faggio – più lenti a bruciare – e il gioco era fatto. A quel punto accendeva il suo castelletto di legna e stava a guardarlo ardere con una tale gioia! Da quando aveva eliminato i tradizionali e pretenziosi sistemi di riscaldamento, aveva visto anche un gran risparmio, di quelli con la R maiuscola. A forza di risparmio magari sarebbe anche diventato ricco, non era mica cosa da escludere! E poi quel fuoco era proprio proprio bello.
Questo modo di vivere, che nel tempo si era rafforzato e canonizzato, aveva preso il nome di battesimo di Estetica della Sussistenza, ed era innegabile che, in fondo, avesse realmente una propria intrinseca grazia.
Anche a livello pragmatico, tale Estetica pareva aver risolto tutto. Tranne la morte. Si moriva comunque, come marionette con il volto impiastricciato di verde.
Quando si finiva nella discarica dove tutti i malati e i moribondi finivano, con la schiena su barattoli di rame e scatolette di tonno, veniva spontaneo lanciare un ultimo occhio al cielo. Le nuvole!
Tutto un mondo riassunto in un minimo termine, in una minima forma.
Ah, straziante meravigliosa bellezza del creato! Massima espressione estetica del sussistere forse?
Sembrava rigasse tutto dritto. Dai più grandi problemi esistenziali alla condotta quotidiana, tutto rispondeva alla logica del Meno, sotto il conforto teorico dell’Estetica della Sussistenza. Nessuno si era posto il problema che il poco potesse esser magari troppo poco.
Quella primavera, non si fecero vedere nemmeno le rondini.
Daniela Zangrando
Personaggi in ordine di comparizione: Le montagne, Gli uomini, Il Paroliere (Domenico Modugno), Mago Merlino, Maga Magò, Sergio Ramella, Manuel Efrim Menuk, Adriana Zarri, Alberto Giacometti, John Berger, Giovanni Grando, Le marionette (Totò, Ninetto Davoli), Le nuvole, Le rondini.
L'intervento ha fatto parte della serata Altitudini. Storie da Condividere del 22 gennaio 2016 per il Feltre & Pedavena Winter Film 2016
>> Tutti gli articoli Coffee Break di Daniela Zangrando
Era un mondo strano quello delle montagne, un mondo privativo. Si sarebbe potuto parlare di un universo derubato, in cui ogni azione e ogni pensiero erano più difficili del dovuto. Si faceva fatica a raggiungere un qualsivoglia luogo e tutto sembrava sempre lontano; faceva sovente molto freddo ed era facile che si congelassero le tubature o ci si buscasse un raffreddore; ogni tanto, così, senza dar troppi preavvisi, prendeva fuoco un antico fienile o qualche bestia finiva diritta in un dirupo; per non parlare del vento, sempre sferzante! Inoltre, nonostante non fosse stato fatto preciso divieto d’incontrarsi a discorrere delle più alte filosofie, pareva che le menti migliori se ne fossero andate tutte, da tempo.
Si viveva dunque in un mondo striminzito? Forse. Ma, in cambio, guarda che meraviglia di tramonti, e di stelle! E guarda quei prati d’autunno! Paiono pellicce. E che dire di quei fiori carnosi? E la neve, non è superba la neve? Sa proprio, ... di neve!
Gli uomini, dal canto loro, dopo un primo attimo di stordimento, si erano riorganizzati. Sapevano bene che il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro, ma il derubato che piange ruba qualcosa a se stesso! L’aveva detto loro quell’abile paroliere dallo sguardo di incantatore, e non c’era motivo per non credergli. Anche chi prima non aveva mai degnato d’uno sguardo le cime, si era abituato alla loro presenza. In fondo bastava decidersi a vivere con poco. Con meno. Riuscite a figurarvi il meno? Ecco, ancora meno.
Il primo a testare il meno, fu Mago Merlino. Lo provò durante l’ennesimo duello con Maga Magò. Di fronte alla maga trasformata in coccodrillo, eccolo tartaruga e poi coniglio. Con la maga trasformata in volpe eccolo bruco. Unico attimo di grandezza, quello che lo vede tricheco di fronte alla maga gallina. Poi ancora topino di fronte alla Magò elefante, granchio con serpente, capra con rinoceronte. Acutissima l’idea con cui Merlino riuscì a chiudere il duello. Un vero colpo di genio sottrattivo. Maga Magò arrabbiatissima si fece drago viola e Merlino fu meno che minimo. Germe di una malattia molto rara, la Malaclipcalopterosis. Vittoria assoluta. A questo punto Merlino dettò legge. Non c’era altro da fare che risicarsi, restringersi, rimpicciolirsi, abbassar le pretese, viver di poco. Meno. Meno. Meno. Presiedette, egli stesso in persona, la sera stessa, ad un comizio per stabilire le due tre direttive di base. Ognuno, poi, era libero di prendere la questione a modo suo.
Sergio, ad esempio, che aveva sorriso con un po’ di cinismo di fronte al duello medievale del mago, aveva deciso che “meno” poteva anche stargli bene, ma come voleva lui. Non era tipo da lasciarsi condizionare dal parere comune. Faceva una vita dura. Doveva lavorare tutti i giorni in una fabbrica, per mantenere la famiglia. Ma era un alpinista! Voleva essere un alpinista! E fare vie su vie. Le aveva anche classificate tutte. Facili, difficili, molto difficili, estreme. Ne aveva percorse tantissime... chissà quante altre ne avrebbe fatte se quello stramaledetto lavoro... Il suo tempo era un tempo sempre ritagliato. Era scarsissimo. Sempre meno. Quasi all’improvviso, ripensandoci, si accorse che era sì un tempo quasi inesistente, ma di un’altissima qualità. Non doveva mica essere poi così idiota come sembrava quel Mago Merlino!
Manuel Efrim decise che era ora di star fermo. Il prossimo album sarebbe uscito otto anni dopo. Nemmeno un giorno prima.
Adriana aveva colto l’occasione per ritirarsi al Molinasso. Per fare, della sua, una vita eremitica. Non aveva nessuna intenzione di indulgere nell’arcaismo, né di coltivare nostalgie passatiste. Conosceva bene la città, il lavoro culturale, quello della scrittura. Conosceva il traffico, la mondanità. Ma nella cascina che aveva scelto come casa, costava troppo far arrivare la luce elettrica. Non la sdegnava mica, ma intanto aveva deciso di lasciarla dov’era. La sua non era una rinuncia, ma la precisa scelta di vivere in totale pienezza, con poco. Di curarsi degli animali, dell’orto, degli alberi da frutto, dei contadini che ogni tanto la aiutavano e le insegnavano i segreti della coltivazione, del silenzio. Per non morire di efficienza dimenticando la poesia.
I corpi delle sculture di Alberto, in quel periodo, erano diventati irriducibili. Non si capiva nemmeno se fossero sul punto di scomparire o se fossero appena apparsi. Si poteva dubitare anche fossero corpi. Forse, come raccontava John, rivelavano, nella profondità del loro essere corpo, una membrana, una pelle comune a fisico e metafisico. Anche il loro autore era diventato sottile. Lo si vide passare in una giornata di pioggia con indosso un impermeabile che sembrava preso a prestito. E sotto l’impermeabile, che si tirava sulla testa, non pareva aver altro che i pantaloni. Con naturalezza, portava la sua simbolica povertà.
Un giorno qualcuno chiese ad Alberto: «Quando alla fine le sue sculture devono lasciare lo studio, dove dovrebbero andare? In un museo?». E lui rispose: «No, seppellitele nella terra, così faranno da ponte tra i vivi e i morti.» Meravigliosa risposta della ritrazione.
Strano fu il caso di Giovanni Grando. Era un personaggio un po’ bizzarro lui! Per immaginarlo, figuratevi semplicemente uno di quelli con talmente tante idee e tanti grilli in testa che sembra sempre non concludere niente. Uno che un giorno vuol far l’artista e il giorno dopo lo sciatore. Uno sempre con un progetto in bocca. Quell’anno lì invece, sempre nell’ottica di lasciar perdere il superfluo e concentrarsi sul necessario, aveva lasciato da parte tutto e aveva imparato a fare il fuoco.
Magro risultato? A giudicare dalla sua soddisfazione, assolutamente no.
Grazie al suo fuocherello, riusciva a scaldare il camerone gelido dove dormiva, lavorava e mangiava pure. Dunque, faceva così. Prendeva due pezzetti d’abete tagliati a misura, li posava nella stufa ad una distanza di qualche centimetro l’uno dall’altro. Sopra, in diagonale, appoggiava cinque listelli sottili; due li faceva correre da sinistra a destra e tre da destra a sinistra, in modo che al centro risultassero incrociati. Bastava poi aggiungere sopra qualche altro pezzo d’abete – per aiutare la fiamma – e poi dei ceppi di faggio – più lenti a bruciare – e il gioco era fatto. A quel punto accendeva il suo castelletto di legna e stava a guardarlo ardere con una tale gioia! Da quando aveva eliminato i tradizionali e pretenziosi sistemi di riscaldamento, aveva visto anche un gran risparmio, di quelli con la R maiuscola. A forza di risparmio magari sarebbe anche diventato ricco, non era mica cosa da escludere! E poi quel fuoco era proprio proprio bello.
Questo modo di vivere, che nel tempo si era rafforzato e canonizzato, aveva preso il nome di battesimo di Estetica della Sussistenza, ed era innegabile che, in fondo, avesse realmente una propria intrinseca grazia.
Anche a livello pragmatico, tale Estetica pareva aver risolto tutto. Tranne la morte. Si moriva comunque, come marionette con il volto impiastricciato di verde.
Quando si finiva nella discarica dove tutti i malati e i moribondi finivano, con la schiena su barattoli di rame e scatolette di tonno, veniva spontaneo lanciare un ultimo occhio al cielo. Le nuvole!
Tutto un mondo riassunto in un minimo termine, in una minima forma.
Ah, straziante meravigliosa bellezza del creato! Massima espressione estetica del sussistere forse?
Sembrava rigasse tutto dritto. Dai più grandi problemi esistenziali alla condotta quotidiana, tutto rispondeva alla logica del Meno, sotto il conforto teorico dell’Estetica della Sussistenza. Nessuno si era posto il problema che il poco potesse esser magari troppo poco.
Quella primavera, non si fecero vedere nemmeno le rondini.
Daniela Zangrando
Personaggi in ordine di comparizione: Le montagne, Gli uomini, Il Paroliere (Domenico Modugno), Mago Merlino, Maga Magò, Sergio Ramella, Manuel Efrim Menuk, Adriana Zarri, Alberto Giacometti, John Berger, Giovanni Grando, Le marionette (Totò, Ninetto Davoli), Le nuvole, Le rondini.
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