Walter Bonatti e la nuova via in solitaria invernale al Cervino, l’ultima grande impresa

In 5 giorni, tra il 18 e il 22 febbraio 1965, Walter Bonatti aprì una nuova via sulla parete nord del Cervino. Il suo modo per salutare l’alpinismo estremo e per celebrare il centenario dalla prima salita della Gran Becca. Da solo, in inverno, su una delle grandi nord delle Alpi, affrontando temperature fino a -30 gradi sotto zero. L’ultima grande avventura verticale.
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Walter Bonatti accanto alla croce di vetta del Cervino al termine della nuova, grandiosa via in solitaria invernale sulla parete Nord, 22 febbraio 1965
Archivio Walter Bonatti - Centro Documentazione Museo Nazionale della Montagna - CAI Torino.

Sono da poco passate le 3 del pomeriggio del 22 febbraio 1965 quando Walter Bonatti sbucò, stanco di fatica, sulla cima del Cervino dopo cinque giorni di solitudine estrema. Davanti a lui il sole calante e, a pochi passi, la croce di vetta a cui si strinse in un abbraccio materno come a voler ringraziare la montagna in un liberarsi di emozioni inespresse. Fu la pennellata finale di una carriera alpinistica breve ma intensa.

Nel 1965, sul Cervino, Bonatti decise di salutare l’alpinismo estremo. Volle farlo con una via nuova, centrale alla parete nord, in solitaria invernale, nell’anno del centesimo anniversario dalla prima ascensione della montagna, compiuta il 14 luglio 1865 da Edward Whymper e compagni.

Al tempo Bonatti aveva solo 35 anni, ma il suo nome era già parte della storia. Nel 1951, con Luciano Ghigo, salì l’inviolata parete est del Grand Capucin, uno dei grandi problemi alpinistici del tempo. Due anni dopo, con Carlo Mauri, si rese protagonista della prima invernale della parete nord della Cima Ovest di Lavaredo. E ancora la memorabile solitaria al pilastro sud-ovest del Petit Dru, nel 1955; la prima ascensione del Gasherbrum IV, nel 1958; il Pilone Centrale del Frêney, nel 1961; e le Grandes Jorasses. Insomma, la sua fu una carriera carica di successi, ma non del tutto. Gli accadimenti del K2, nel 1954, avevano aperto una ferita che con buona probabilità non fu mai davvero sanata. E poi c’era la fama, quella mediatica, che in qualche modo lo stava stringendo in una morsa. La testa, quella che gli aveva permesso di uscire dalle situazioni più difficili, stava chiedendo uno stop e non era più capace di trovare e immaginare una nuova dimensione per il suo alpinismo. Così decise di dedicarsi all’esplorazione del mondo orizzontale, prima però volle salutare a modo suo le verticalità più estreme. "Ho deciso, contravvenendo alle mie promesse, aprirò una parentesi e la richiuderò subito dopo senza rimpianti. Tenterò dunque la nuova via sulla parete nord, e sarà necessariamente d’inverno: quest’estate un oceano mi separerà dal Cervino". Un regalo a se stesso, il suo modo per celebrare il centenario di quello che fu l’ultimo tassello della "conquista" delle Alpi, come si diceva al tempo.

Il primo tentativo
Nei piani di Bonatti non c’era una solitaria, anzi. Fin da subito condivise il suo progetto con il friulano Alberto Tassotti e con l'abruzzese Gigi Panei, i compagni con cui poi si sarebbe trovato a Zermatt, sul versante svizzero della montagna, nei primi giorni di febbraio. I tre aspettarono per qualche giorno che si aprisse una buona finestra meteo, quindi il 10 febbraio si prepararono ad attaccare la parete. Fu Bonatti a salire per primo i ripidi pendii che caratterizzano la base della montagna. E senza esitazione scalarono per tre giorni sulle placche nere, riuscendo a superare la difficile "Traversata degli Angeli". Un lungo traverso di 120 metri, così battezzato da Walter, che dalla base del Naso di Zmutt porta al centro della parete permettendo di aggirare un enorme strapiombo. Poi ecco che il barometro iniziò a scendere, sempre più velocemente. Bassa pressione significa tempesta, quella che nel giro di poco travolse il loro bivacco notturno. Meglio rinunciare, pensarono all’unisono e così via, veloci verso le luci di Zermatt.

Il rientro a Zermatt
Rientrato a Zermatt per Walter non ci fu più pace. La notizia del tentativo si era diffusa e i media iniziarono a bersagliarlo: "La stampa continua a sbandierare a grandi titoli il nostro sfortunato tentativo" scrisse Bonatti. "L’importanza della nuova via invernale sul Cervino, la concomitanza con l’anno del centenario, e perché no il ‘fallimento di Bonatti’, sono tre elementi che fanno notizia". Bisognava riprovare! Prima che qualcuno si mettesse in testa di tentare "là, dove Bonatti ha fallito". Nel frattempo però Bonatti era rimasto solo, senza più compagni di cordata. Tassotti, maresciallo della Scuola Militare Alpina venne richiamato al dovere; Panei, allenatore della squadra nazionale juniores di sci doveva occuparsi dei suoi ragazzi, ma lasciò intendere che forse sarebbe ritornato. Probabilità che alla fine non si verificò. "Ebbene, allora partirò solo!" fu la secca e decisa replica di Bonatti, infuriato con l’amico. Un’idea folle su una parete come quella, in inverno, su una via nuova. Folle, ma non troppo. "Perché mai non averci pensato fin dall’inizio?" si domandò. Decisione presa, non rimaneva che aspettare la giusta finestra di bel tempo.

Il secondo tentativo
Osservato speciale a Zermatt Bonatti preparò il nuovo tentativo in gran segreto. Il 18 febbraio poi, insieme agli amici Guido Tonella, Daniel Pannatier e Mario De Biasi finse una gita scialpinistica, per sfuggire all’attenzione dei media sopraggiunti nel frattempo ai piedi del Cervino. Fu una giornata lunga per lo scalatore, carica di emotività e di incertezza. A ogni passo, scrisse, la sua mente vagava alla ricerca di un motivo per dire: no, meglio non andare. Eppure le condizioni erano perfette, il freddo intenso e la solitudine sempre più incombente come l’ombra della Gran Becca. Tonella e Pannatier si fermarono allo Shwarzsee, De Biasi lo accompagnò fin sotto la nord lasciandolo a preparare la piazzola per la tenda. D’improvviso Bonatti fu solo nel silenzio dell’inverno. Magari un calo di pressione, magari una bella tormenta di neve nella notte. Una scusa per lasciar perdere e tornare verso le luci di Zermatt che lentamente si accendevano mentre il cielo si rabbuiava.

Ogni esitazione si perse quando finalmente la sua mano incontrò la gelida roccia della montagna, all’alba del 19 febbraio. Con movimenti automatici, ben impressi nella sua memoria, iniziò subito a portarsi verso l’alto. Al suo zaino lo guardava Zizì, l’orsacchiotto di pezza regalatogli dalla figlia di Pannatier. Il suo unico compagno di cordata, un confidente silenzioso, fondamentale per non impazzire.

Con la testa svuotata iniziò a compiere quelle operazioni che sarebbero diventate routinarie nei giorni a seguire: salire per una lunghezza di corda, fissare una sosta, scendere al punto di partenza, recuperare il saccone con l’attrezzatura, e risalire. Questo era l’unico modo per poter gestire con una minima dose di sicurezza una salita in solitaria, ma voleva anche dire spendere preziose energie. In parole povere si scalava la parete tre volte: due in salita e una in discesa. Così fino a sera quando, trovato un buon punto per il bivacco, tirò fuori la torcia e rimase in attesa di un segnale luminoso dal fondovalle. Con l’amico De Biasi era rimasto d’accordo per un contatto giornaliero. Poi la notte scese e con lei il freddo si fece ancora più intenso, così come la solitudine.

La luce del nuovo dì riportò l’azione sulla nord del Cervino e con lei la pace ristorante della concentrazione, durante la scalata non c’era tempo per pensare. Verso mezzogiorno raggiunse nuovamente la "Traversata degli Angeli", il passaggio più delicato dell’intera salita. Lo superò con delicatezza, misurando ogni passo, mentre dal cielo lo raggiungeva un rombo meccanico, fastidioso. Un piccolo aeromobile aveva iniziato a volteggiare attorno alla parete, in cerca di qualcosa. Fine del segreto, ma non della solitudine, che si faceva ogni giorno più pressante, alleviata solo dagli occhi del piccolo Zizì a cui confidare i propri segreti prima di addormentarsi stremati dall’azione. Senza ovviamente dimenticare il consueto appuntamento con De Biasi: era la sera del 20 febbraio, il termine del secondo giorno in parete, un momento chiave per la riuscita dell’impresa. Bonatti attese il segnale luminoso dal fondovalle, poi tirò fuori dallo zaino un razzo segnalatore bianco e verde e lasciò che la sua luce riempisse la notte. Il significato era chiaro a entrambi: si continua. Poco dopo lasciò cadere nel vuoto quello rosso, ormai inutile, avrebbe segnalato una rinuncia.

La decisione di lanciare il razzo al secondo bivacco fu dettata dalle difficoltà che avrebbero ingaggiato Bonatti al terzo giorno, gli strapiombi della nord. Una volta superati sarebbe stato impossibile tornare indietro. Quando li guardò da vicino, all’alba del 21 febbraio, come prima cosa prese a svuotare lo zaino. Pesava troppo, così si liberò di tutto il superfluo. Poi di nuovo verso l’alto, su quelle rocce lisce e difficili, immerse in un ambiente così ostile e lontano dalla vita. "Mi sento talmente fuori dal mondo che quando penso a qualcosa di bello e umano, vengo afferrato dall’emozione".

La cima
La notte tra il 21 e il 22 febbraio passò insonne, tormentato da un freddo allucinante. "Una corona di ghiaccioli mi incornicia il volto. Al loro contatto mi sento la pelle bruciare. Il piccolo termometro appeso alla giacca a vento segna 30 gradi sotto zero" scrisse. "Anche questa notte non ho dormito: sulla parete nord del Cervino dormire è un’utopia". Bonatti era sfinito, ma lucido. Freddo e solitudine lo stavano massacrando fisicamente e psicologicamente. "Sono seduto su un terrazzino di trenta centimetri liberato dal ghiaccio. La schiena è appoggiata alla parete verticale, i piedi ciondolano nel vuoto. […] Le mani da almeno mezz’ora stringono nervosamente la piccola lampadina elettrica in attesa di rispondere al segnale luminoso di Mario De Biasi. […] Mancano ormai pochi minuti al momento convenuto. […] Adesso non ho che questo pensiero: vedere i suoi segnali luminosi e rispondergli. Tre o quattro accensioni lente, e poi tante rapide per dirgli che sono vivo, che ho resistito anche questa notte e che lotterò ancora fino in vetta. Non ho mai sofferto tanta spaventosa solitudine, e quella piccola luce dell’amico che sale dal fondovalle, duemila metri più sotto, è l’unico calore umano che da tre giorni e tre notti mi accompagna".

Quello che stava nascendo doveva essere l’ultimo giorno di scalata, doveva raggiungere la vetta. La ripresa della salita fu lenta e faticosa. Prima di andare Bonatti alleggerì ulteriormente il suo zaino. Lo aspettava uno strapiombo di oltre 30 metri, poi il terreno si sarebbe fatto via via più facile, fino alla vetta. Nel frattempo in cielo ricomparve l’aereo dei primi giorni, e con lui altri. Con il loro frastuono accompagnarono ogni passo dello scalatore, ingordi di notizie. Curiosi di sapere come stesse progredendo il solitario.

"Verso mezzogiorno mi sembra di udire, tra le raffiche del vento, delle grida umane. Pochi minuti dopo le voci si ripetono. Non ci sono dubbi: qualcuno è lassù. Ma dove? Sulla cima o su una delle due creste? Allora grido anch’io: Chi siete? Dove siete?". Nessuna risposta. Solo più avanti avrebbe scoperto che si trattava di due guide alpine salite per la normale a sistemare per il suo arrivo la croce di vetta, piegata qualche giorno prima da una tempesta. Il loro personale omaggio a Bonatti. "Sono ancora solo con la mia fatica. Gli sforzi di tutti questi giorni e l’aria sempre più rarefatta appesantiscono il sacco in maniera insopportabile. Mi sembra di essere diventato un personaggio biblico, condannato, per i suoi peccati, a salire eternamente". Poi, verso le 3 del pomeriggio ecco la croce apparire come una torcia infuocata dal sole. "Gli aerei, che finora mi hanno assordato con il loro rombo, sembrano intuire la solennità del momento. Forse per discrezione, si allontanano per un po’ e mi lasciano percorrere gli ultimi metri in silenzio, completamente solo". Così eccolo, Walter Bonatti, abbracciato a quella croce metallica, finalmente baciato dal calore del sole, pronto a dire addio all’alpinismo estremo negli stessi giorni in cui la sonda spaziale Ranger VIII avrebbe lasciato la Terra per raggiungere la Luna. Anche lei destinata a un’esplorazione carica di solitudine mentre il mondo intero l’avrebbe guardata con la stessa commozione che fu riservata al mito di Walter Bonatti destinato, con questa salita a diventare leggenda.

di Gian Luca Gasca

Link: www.museomontagna.org




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