Walter Bonatti 2005, l'intervista
L'intervista a Walter Bonatti raccolta nel 2005 da Erminio Ferrari in cui il grande alpinista appena scomparso racconta la sua vita ma anche le sue radici.
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Walter Bonatti (a sx) con Pierre Mazeaud
archivio Trento Film Festival
Mentre il mondo dell'alpinismo, domani sabato 17/09 e domenica 18/09, si prepara per dare l'ultimo saluto a Walter Bonatti ci è sembrato interessante pubblicare quest'intervista, raccolta da Ermino Ferrari nel 2005, in cui Walter Bonatti si racconta. Ci sembra un bel documento sul pensiero di Bonatti, alpinista e uomo, ma anche una testimonianza sull'epoca in cui i suoi sogni (di uomo e alpinista) sono nati e maturati...
WALTER BONATTI
di Erminio Ferrari (intervista apparsa su La Regione Ticino del 14 maggio 2005)
Chiedetelo a Walter Bonatti cos’è un dopoguerra, come si cresce mentre il mondo si infiamma, e si diventa uomini quando ancora fumano le macerie di un continente. Poi chiedetegli delle sue salite, del suo avventurarsi, solo perlopiù, dove nessuno aveva ancora osato, mentre altri uomini si preparavano a lanciarsi nell’inesplorato spazio. E capirete che la luna di Neil Armstrong aveva da spartire con il pilastro del Dru molto di più di quanto potrebbe apparire. “Sono stato fortunato”, dice un Bonatti che i suoi settantacinque anni li porta come un ragazzo; e bisogna conoscere un po' della sua vita per sapere che la fortuna di cui parla non è mai gratis. Bonatti lasciò l’alpinismo di vertice quarant’anni fa con una salita che fece epoca: la via nuova, aperta in solitaria invernale, sulla parete nord del Cervino. Coronamento di una carriera che da sola costituisce un capitolo della storia mondiale dall’alpinismo, e drammatica espressione di un inimitabile modo di essere. Nel suo Journal des 4000, Maurice Chappaz raccontava di un incontro ad alta quota con un giovane Bonatti nel cui sguardo “c’è l’avventura”. Occhi aperti su un cuore che “vedeva” prima di loro, e che ha portato Bonatti a tracciare vie storiche sulle Alpi negli anni 50/60, dal Grand Capucin, al Dru, ai Pilastri del Monte Bianco, dal Brouillard al Grand Pilier d’Angle; e a esprimersi ai vertici assoluti in Himalaya (dal K2, nel 1954, al Gasherbrum IV, una delle salite più impegnative a uno dei più difficili giganti del Karakorum, nel 1958). Non finì tuttavia sul Cervino l'avventura di Bonatti, che prese a girare il mondo con analogo stile. Foreste, deserti di sabbia e di ghiaccio, popolazioni sconosciute. Una vicenda alpinistica, esplorativa ma soprattutto umana, di un giovane uomo del Novecento messo alla prova in uguale misura dalla propria irrequieta voglia di avventura, e da un mondo di cui ha presto misurato la tragedia, la speranza e la miseria morale. Di volta in volta testimone di rivolgimenti storici traumatici, oggetto e preda di un’informazione senza scrupoli, pietra d’ingombro (e perciò da scartare) delle istituzioni alpinistiche ufficiali, Bonatti ha sempre cercato, praticato la via della coerenza. Qualità sospetta oggigiorno, e che gli vale la fama di persona “difficile”. Oggi lui sorride degli uomini facili. Tra bufalo e locomotiva, canta De Gregori, la differenza salta agli occhi: Bonatti non avrebbe mai scelto una strada già segnata. Il bufalo “può scartare di lato”, e cercarsi la propria, costi quel che costi. E la sua se l’è tracciata, come racconta in questo incontro, in un’epoca piena di aspettative, dopo l’esperienza tragica di una guerra devastante.
Si è mai sentito partecipe di questa ansia di rinascita?
“Assolutamente sì. Ho vissuto fino ai quindici anni tutto ciò che ti impongono un regime e una guerra. Poi, al crollo del fascismo, mi sono reso conto che tutti i valori che ci erano stati imposti erano stati spazzati via. Non sapevo più chi ero: a scuola ci facevano gridare viva il duce e viva il re, e ora vedevo l’epilogo di quella vicenda nell’otto settembre, nelle fucilazioni dei partigiani, nelle esecuzioni dei fascisti”.
Come in un romanzo di formazione, che però non si ha il tempo di leggere perché lo si sta vivendo...
“In un mondo disfatto, la mia sensibilità mi ha portato a crearmi una mia ragione d’essere, a cercare un riscatto attraverso la montagna. L’input mi è venuto fin dall’infanzia dalla mia grande curiosità, dalla fantasia, dal senso dell’avventura: gli elementi costitutivi del mio essere. Io sognavo, e il Po era l’oceano, la sabbia delle sue rive erano i deserti, i pioppeti erano le jungle. Mi aiutavano le letture, da Melville a London. Vi ho trovato princìpi e valori che un giorno avrebbero dato materia ai miei sogni, alle mie emozioni”.
L’alpinismo fu il primo passo in quel “sogno”, e dopo il primo vennero tutti gli altri, quelli che lo avrebbero fatto “diventare Bonatti”. Una figura che, come tutte le grandi figure della storia della musica o dell’arte, hanno portato a coronamento un periodo, anticipando la via di quello che sarebbe seguito. Una tensione tra classicità e modernità feconda di visioni e realizzazioni...
“Il mio è stato un alpinismo classico, ispirato alle salite degli anni '30. Quel periodo è stato il mio riferimento, il metro per misurare cosa sarei diventato. Sono sempre stato coerente con questa ispirazione, ho sempre combattuto l’alterazione introdotta da un uso smodato dei mezzi tecnici. Il senso storico, il sentimento del bello erano irrinunciabili per me e mi hanno formato come uomo prima che alpinista. Mi è toccato conoscere la tragedia della guerra, una esperienza che mi ha costruito. Ho capito in tempo che nulla è regalato e che tutto va conquistato. Anche per questo, il mio cuore è sempre stato avanti, e la mia fantasia mi ha sempre portato a concepire scalate che anticipavano i tempi. E bada che la cosa più impegnativa era concepirle, poi la realizzazione seguiva in maniera logica”.
Parliamo di un mondo che lanciava i primi uomini nello spazio mentre Bonatti saliva il Dru, il Gran Capucin, i Piloni del Bianco. Giorni e giorni appeso a una parete, con la vita sulla punta delle dita, lui; giorni in orbita, in una capsula, al di fuori della quale la vita è impossibile, Gagarin e poi tutti gli altri. Erano due forme di esplorazione incomparabili o parte di un comune desiderio di oltrepassare un limite?
“Erano, sono, entrambe espressione della stessa spinta, il mio alpinismo e l’avventura dello spazio, pur più composita e necessariamente non solitaria. Non è un caso, del resto, che i primi astronauti, i primi uomini sulla luna fossero della mia stessa generazione”.
Cresciuti, vuol dire, nella stessa storia, educati dallo stesso Novecento. Quando poi Bonatti smise con l’alpinismo, conscio dell’eredità “pesante” che una figura come la sua lasciava dietro di sé, indicò nelle altissime quote il terreno su cui un alpinismo altrettanto classico avrebbe potuto svilupparsi. Oggi però il suo è uno sguardo pieno di dubbi.
“Messner (il primo salitore di tutti i 14 Ottomila himalayani, ndr) è stato un grande, Kukuczka (il secondo) anche, ma dopo di loro si è tornati nella consuetudine, nei luoghi comuni e nel compromesso. O meglio: nella non considerazione dell’alterazione avvenuta dal profilo tecnico e psicologico nella pratica alpinistica. L’avventura è stata riposta in cose che avventurose non sono più. Siamo arrivati all’esasperazione della tecnica, tanto che spesso penso, forse ingenerosamente, che le cosiddette imprese non siano altro che il successo dei mezzi tecnici impiegati anziché dell’uomo”.
Non a caso, Bonatti ha sempre insistito, nei suoi testi e nelle sue conferenze, sulla necessità di “salvaguardare l’impossibile”. Si tratta di un riconoscimento della finitezza umana o non è piuttosto la rivendicazione di uno spazio per l’immaginazione?
“Le due cose insieme. L’impossibile, per avere un senso deve essere conquistato, non può essere demolito. Molte volte ho l’impressione che lo si demolisca, con la presunzione di averlo superato. Non è una cultura in cui mi riconosco”.
E d’altra parte Bonatti dell’alpinismo ha conosciuto l’esperienza più esaltante e il volto più meschino (basti accennare alla desolante vicenda del K2). Quale lezione trarne?
“L’alpinismo mi ha fatto maturare. Se non avessi praticato l’alpinismo a quel livello, e con quella concezione, non avrei mai potuto avventurarmi poi negli spazi vergini del mondo. È stato poco capito il fatto che io non ho lasciato una attività per un’altra: è stata una trasposizione della mia avventura alpinistica, con tutte le sue componenti psicologiche, al di fuori della verticale, in una dimensione nuova, forse meno spettacolare, ma ugualmente totalizzante. Solitudini di mesi e mesi, incontri con popolazioni mai avvicinate, nature da alba del mondo. Non avrei mai potuto affrontare certe prove estreme se non fossi venuto da quell’alpinismo. Per me si è trattato di una continuazione del tutto naturale, connaturata al mio essere. Alla fin fine, i veri spazi inesplorati sono quelli interiori. E, grazie a dio, questa ricerca sarà inesauribile: non riusciremo mai a conoscere del tutto il nostro io, a meno di ritenerci dio noi stessi. E non mi sembra il caso”.
Subito sotto dio, comunque, c’è l’uomo; e tra i due la morte, il suo mistero, la paura che genera. Così nella pratica alpinistica: la sofferenza e la fatica rientrano nel conto, ma la morte, Bonatti, era ugualmente un evento contemplato?
“Sì, ma a livello di imponderabile. Non sembri paradossale, ma io ho sempre preferito fare un passo indietro che uno troppo avanti. È chiaro che sottoponendo la mia attività a chi non ha mai sostenuto certe lotte, non posso che sentirmi dare del matto; ma in coscienza non credo di non aver mai calcolato il rischio. Naturalmente l’imponderabile è sempre presente, dal pendolo sul Dru (che, nel corso della prima ascensione del pilastro sud-ovest, nel 1955, gli avrebbe precluso ogni possibilità di discesa, ndr) all’incidente sul Pilone Centrale (nel 1961 il maltempo trasformò in tragedia il tentativo di prima salita, e Bonatti perse quattro compagni, portandone in salvo altri due, ndr), ma quando ho ritenuto di non essere psicologicamente maturo per certe prove, ho preferito rinunciarvi”.
Rinuncia, una parola che è quasi una lezione, detta dalla bocca di Bonatti. Il quale non ha tuttavia mai rinunciato a essere se stesso, “uomo contro”. Nel suo I giorni grandi, libro fondamentale dell’alpinismo del dopoguerra, lui steso scrisse che “la pace è innaturale all’uomo”. Spia di una irrequietezza, o forse di una coscienza dolorosa di cosa significhi essere uomo. E a quale prezzo si paga la via solitaria a se stessi?
“L’ho pagata cara e continuo a pagarla, in qualche modo. Non mi viene perdonato di essere come sono. In più ho avuto successo e anche questo mi viene addebitato. So comunque che questo fa parte della vita”.
A settanta e più anni, sì, lo si può ben dire. E infine, per tornare a dov’eravamo partiti: nel 1965, Bonatti mise fine alla sua carriera d’alpinista con una scalata colma di simbologia: una via nuova, solitaria e invernale sulla parete nord del Cervino, montagna simbolo dell’alpinismo fin dalla sua nascita. Come ricordarla?
“Dirò soltanto che per me si è trattato di un omaggio al Cervino, cioè all’alpinismo; e soprattutto un omaggio a Edward Whymper, il suo primo salitore cent’anni prima”.
Perché sapere da dove si arriva è forse la guida migliore per trovare un posto dove andare.
di Erminio Ferrari / intervista pubblicata su La Regione Ticino del 14 maggio 2005
WALTER BONATTI
di Erminio Ferrari (intervista apparsa su La Regione Ticino del 14 maggio 2005)
Chiedetelo a Walter Bonatti cos’è un dopoguerra, come si cresce mentre il mondo si infiamma, e si diventa uomini quando ancora fumano le macerie di un continente. Poi chiedetegli delle sue salite, del suo avventurarsi, solo perlopiù, dove nessuno aveva ancora osato, mentre altri uomini si preparavano a lanciarsi nell’inesplorato spazio. E capirete che la luna di Neil Armstrong aveva da spartire con il pilastro del Dru molto di più di quanto potrebbe apparire. “Sono stato fortunato”, dice un Bonatti che i suoi settantacinque anni li porta come un ragazzo; e bisogna conoscere un po' della sua vita per sapere che la fortuna di cui parla non è mai gratis. Bonatti lasciò l’alpinismo di vertice quarant’anni fa con una salita che fece epoca: la via nuova, aperta in solitaria invernale, sulla parete nord del Cervino. Coronamento di una carriera che da sola costituisce un capitolo della storia mondiale dall’alpinismo, e drammatica espressione di un inimitabile modo di essere. Nel suo Journal des 4000, Maurice Chappaz raccontava di un incontro ad alta quota con un giovane Bonatti nel cui sguardo “c’è l’avventura”. Occhi aperti su un cuore che “vedeva” prima di loro, e che ha portato Bonatti a tracciare vie storiche sulle Alpi negli anni 50/60, dal Grand Capucin, al Dru, ai Pilastri del Monte Bianco, dal Brouillard al Grand Pilier d’Angle; e a esprimersi ai vertici assoluti in Himalaya (dal K2, nel 1954, al Gasherbrum IV, una delle salite più impegnative a uno dei più difficili giganti del Karakorum, nel 1958). Non finì tuttavia sul Cervino l'avventura di Bonatti, che prese a girare il mondo con analogo stile. Foreste, deserti di sabbia e di ghiaccio, popolazioni sconosciute. Una vicenda alpinistica, esplorativa ma soprattutto umana, di un giovane uomo del Novecento messo alla prova in uguale misura dalla propria irrequieta voglia di avventura, e da un mondo di cui ha presto misurato la tragedia, la speranza e la miseria morale. Di volta in volta testimone di rivolgimenti storici traumatici, oggetto e preda di un’informazione senza scrupoli, pietra d’ingombro (e perciò da scartare) delle istituzioni alpinistiche ufficiali, Bonatti ha sempre cercato, praticato la via della coerenza. Qualità sospetta oggigiorno, e che gli vale la fama di persona “difficile”. Oggi lui sorride degli uomini facili. Tra bufalo e locomotiva, canta De Gregori, la differenza salta agli occhi: Bonatti non avrebbe mai scelto una strada già segnata. Il bufalo “può scartare di lato”, e cercarsi la propria, costi quel che costi. E la sua se l’è tracciata, come racconta in questo incontro, in un’epoca piena di aspettative, dopo l’esperienza tragica di una guerra devastante.
Si è mai sentito partecipe di questa ansia di rinascita?
“Assolutamente sì. Ho vissuto fino ai quindici anni tutto ciò che ti impongono un regime e una guerra. Poi, al crollo del fascismo, mi sono reso conto che tutti i valori che ci erano stati imposti erano stati spazzati via. Non sapevo più chi ero: a scuola ci facevano gridare viva il duce e viva il re, e ora vedevo l’epilogo di quella vicenda nell’otto settembre, nelle fucilazioni dei partigiani, nelle esecuzioni dei fascisti”.
Come in un romanzo di formazione, che però non si ha il tempo di leggere perché lo si sta vivendo...
“In un mondo disfatto, la mia sensibilità mi ha portato a crearmi una mia ragione d’essere, a cercare un riscatto attraverso la montagna. L’input mi è venuto fin dall’infanzia dalla mia grande curiosità, dalla fantasia, dal senso dell’avventura: gli elementi costitutivi del mio essere. Io sognavo, e il Po era l’oceano, la sabbia delle sue rive erano i deserti, i pioppeti erano le jungle. Mi aiutavano le letture, da Melville a London. Vi ho trovato princìpi e valori che un giorno avrebbero dato materia ai miei sogni, alle mie emozioni”.
L’alpinismo fu il primo passo in quel “sogno”, e dopo il primo vennero tutti gli altri, quelli che lo avrebbero fatto “diventare Bonatti”. Una figura che, come tutte le grandi figure della storia della musica o dell’arte, hanno portato a coronamento un periodo, anticipando la via di quello che sarebbe seguito. Una tensione tra classicità e modernità feconda di visioni e realizzazioni...
“Il mio è stato un alpinismo classico, ispirato alle salite degli anni '30. Quel periodo è stato il mio riferimento, il metro per misurare cosa sarei diventato. Sono sempre stato coerente con questa ispirazione, ho sempre combattuto l’alterazione introdotta da un uso smodato dei mezzi tecnici. Il senso storico, il sentimento del bello erano irrinunciabili per me e mi hanno formato come uomo prima che alpinista. Mi è toccato conoscere la tragedia della guerra, una esperienza che mi ha costruito. Ho capito in tempo che nulla è regalato e che tutto va conquistato. Anche per questo, il mio cuore è sempre stato avanti, e la mia fantasia mi ha sempre portato a concepire scalate che anticipavano i tempi. E bada che la cosa più impegnativa era concepirle, poi la realizzazione seguiva in maniera logica”.
Parliamo di un mondo che lanciava i primi uomini nello spazio mentre Bonatti saliva il Dru, il Gran Capucin, i Piloni del Bianco. Giorni e giorni appeso a una parete, con la vita sulla punta delle dita, lui; giorni in orbita, in una capsula, al di fuori della quale la vita è impossibile, Gagarin e poi tutti gli altri. Erano due forme di esplorazione incomparabili o parte di un comune desiderio di oltrepassare un limite?
“Erano, sono, entrambe espressione della stessa spinta, il mio alpinismo e l’avventura dello spazio, pur più composita e necessariamente non solitaria. Non è un caso, del resto, che i primi astronauti, i primi uomini sulla luna fossero della mia stessa generazione”.
Cresciuti, vuol dire, nella stessa storia, educati dallo stesso Novecento. Quando poi Bonatti smise con l’alpinismo, conscio dell’eredità “pesante” che una figura come la sua lasciava dietro di sé, indicò nelle altissime quote il terreno su cui un alpinismo altrettanto classico avrebbe potuto svilupparsi. Oggi però il suo è uno sguardo pieno di dubbi.
“Messner (il primo salitore di tutti i 14 Ottomila himalayani, ndr) è stato un grande, Kukuczka (il secondo) anche, ma dopo di loro si è tornati nella consuetudine, nei luoghi comuni e nel compromesso. O meglio: nella non considerazione dell’alterazione avvenuta dal profilo tecnico e psicologico nella pratica alpinistica. L’avventura è stata riposta in cose che avventurose non sono più. Siamo arrivati all’esasperazione della tecnica, tanto che spesso penso, forse ingenerosamente, che le cosiddette imprese non siano altro che il successo dei mezzi tecnici impiegati anziché dell’uomo”.
Non a caso, Bonatti ha sempre insistito, nei suoi testi e nelle sue conferenze, sulla necessità di “salvaguardare l’impossibile”. Si tratta di un riconoscimento della finitezza umana o non è piuttosto la rivendicazione di uno spazio per l’immaginazione?
“Le due cose insieme. L’impossibile, per avere un senso deve essere conquistato, non può essere demolito. Molte volte ho l’impressione che lo si demolisca, con la presunzione di averlo superato. Non è una cultura in cui mi riconosco”.
E d’altra parte Bonatti dell’alpinismo ha conosciuto l’esperienza più esaltante e il volto più meschino (basti accennare alla desolante vicenda del K2). Quale lezione trarne?
“L’alpinismo mi ha fatto maturare. Se non avessi praticato l’alpinismo a quel livello, e con quella concezione, non avrei mai potuto avventurarmi poi negli spazi vergini del mondo. È stato poco capito il fatto che io non ho lasciato una attività per un’altra: è stata una trasposizione della mia avventura alpinistica, con tutte le sue componenti psicologiche, al di fuori della verticale, in una dimensione nuova, forse meno spettacolare, ma ugualmente totalizzante. Solitudini di mesi e mesi, incontri con popolazioni mai avvicinate, nature da alba del mondo. Non avrei mai potuto affrontare certe prove estreme se non fossi venuto da quell’alpinismo. Per me si è trattato di una continuazione del tutto naturale, connaturata al mio essere. Alla fin fine, i veri spazi inesplorati sono quelli interiori. E, grazie a dio, questa ricerca sarà inesauribile: non riusciremo mai a conoscere del tutto il nostro io, a meno di ritenerci dio noi stessi. E non mi sembra il caso”.
Subito sotto dio, comunque, c’è l’uomo; e tra i due la morte, il suo mistero, la paura che genera. Così nella pratica alpinistica: la sofferenza e la fatica rientrano nel conto, ma la morte, Bonatti, era ugualmente un evento contemplato?
“Sì, ma a livello di imponderabile. Non sembri paradossale, ma io ho sempre preferito fare un passo indietro che uno troppo avanti. È chiaro che sottoponendo la mia attività a chi non ha mai sostenuto certe lotte, non posso che sentirmi dare del matto; ma in coscienza non credo di non aver mai calcolato il rischio. Naturalmente l’imponderabile è sempre presente, dal pendolo sul Dru (che, nel corso della prima ascensione del pilastro sud-ovest, nel 1955, gli avrebbe precluso ogni possibilità di discesa, ndr) all’incidente sul Pilone Centrale (nel 1961 il maltempo trasformò in tragedia il tentativo di prima salita, e Bonatti perse quattro compagni, portandone in salvo altri due, ndr), ma quando ho ritenuto di non essere psicologicamente maturo per certe prove, ho preferito rinunciarvi”.
Rinuncia, una parola che è quasi una lezione, detta dalla bocca di Bonatti. Il quale non ha tuttavia mai rinunciato a essere se stesso, “uomo contro”. Nel suo I giorni grandi, libro fondamentale dell’alpinismo del dopoguerra, lui steso scrisse che “la pace è innaturale all’uomo”. Spia di una irrequietezza, o forse di una coscienza dolorosa di cosa significhi essere uomo. E a quale prezzo si paga la via solitaria a se stessi?
“L’ho pagata cara e continuo a pagarla, in qualche modo. Non mi viene perdonato di essere come sono. In più ho avuto successo e anche questo mi viene addebitato. So comunque che questo fa parte della vita”.
A settanta e più anni, sì, lo si può ben dire. E infine, per tornare a dov’eravamo partiti: nel 1965, Bonatti mise fine alla sua carriera d’alpinista con una scalata colma di simbologia: una via nuova, solitaria e invernale sulla parete nord del Cervino, montagna simbolo dell’alpinismo fin dalla sua nascita. Come ricordarla?
“Dirò soltanto che per me si è trattato di un omaggio al Cervino, cioè all’alpinismo; e soprattutto un omaggio a Edward Whymper, il suo primo salitore cent’anni prima”.
Perché sapere da dove si arriva è forse la guida migliore per trovare un posto dove andare.
di Erminio Ferrari / intervista pubblicata su La Regione Ticino del 14 maggio 2005
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