Tutto o niente. Di Hector Silva Peralta

Pubblichiamo la prima di due puntante del racconto di Hector Silva Peralta, alpinista cileno vissuto per 9 anni in Italia, prima a Roma poi ad Arco, in Cile, Canada ed Alaska per inseguire il suo sogno: vivere per l’alpinismo.
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Hector Silva Peralta: Il mostro, Valle della Bestia, Cochamo, febbraio 2016.
archivio Hector Silva Peralta

"Ho cambiato la sicurezza di una casa per un divano qua e là " scrive il 36enne Hector Silva Peralta che in seguito ad un incidente in bici ha "iniziato un viaggio verso l’interno". Nel suo portafoglio conserva le foto tessere del Cerro Torre, Marmolada, Civetta… e Denali, dove alcune settima fa ha salito la celebre via Cassin.

Mi piacerebbe non dover sempre imparare le lezioni a cazzotti. Ero a Roma, mi sono svegliato rincoglionito in mezzo al mio sangue con la mascella rotta. Stavo tornando a casa da un concerto degli Inti-illimani, una band Cilena degli anni settanta, quando all’improvviso ho visto una macchina che veniva dritta verso di me. Ho fatto giusto in tempo a tuffarmi al lato della strada, atterrando di faccia dietro a un mucchio di spazzatura sulla Casilina.

"Che posto di merda per morire, ed io che pensavo che sarei morto in montagna." Ho sentito la mia voce che mi diceva queste parole da lontano. Mi sono messo a piangere, ho strisciato i piedi uno davanti all’altro fino ad arrivare a casa. Quasi finiva lì. La mia coinquilina Nepalese mi ha salvato, mi parlava dell’ Himalaya per portarmi via dal dolore. Ha funzionato. I suoi racconti mi portavano via da un senso di frustrazione che non era l’incidente in sé, lontano dalla metropoli verso un posto felice fatto di boschi, sassi, fiumi gelidi. Le mie giornate in città erano finite.

Ho voluto urlare "Ho trovato me stesso!" Volevo condividere la mia epifania. Purtroppo avevo la bocca chiusa con il fil di ferro e non ho potuto parlare con nessuno per più di due mesi. Ho iniziato un viaggio verso l’interno, ho pianificato la mia fuga verso le Alpi.

Ho stampato delle piccole immagini tipo foto tessera del Cerro Torre, Denali, Marmolada, della Civetta e le portavo nel mio portafoglio. Ogni tanto mentre ero sul tram le tiravo fuori e le guardavo come chi guarda un amore platonico o un’amante. Cercavo nella mia mente di costruire ogni dettaglio del giorno in cui ci saremmo visti faccia a faccia.

Questa relazione ha rovinato la relazione con la mia ragazza. Io ero sempre a guardare foto di montagne, a fare programmi per il weekend che non comprendevano il noi. Non uscivamo più insieme il venerdì sera. Un giorno lei tornava tardi verso le quattro del mattino mentre io preparavo il caffe e avevo lo zaino pronto per andare sul Gran Sasso. Abbiamo scambiato due chiacchiere scomode e sono partito. Quel giorno siamo andati al V pilastro di Intermesoli, un posto lontano, siamo ritornati verso le 10 di sera. Lei era di fronte allo specchio che si truccava, si è accesa una sigaretta, mi ha baciato sulla guancia ed è uscita.

Era la notte di capodanno quando finalmente ho sentito tutto il peso delle mie scelte, al di là delle montagne stavo rimanendo da solo.

Mi ha chiesto di andare via, mi sono sentito ferito ma anche finalmente libero. Si erano aperte le porte, volevo diventare un alpinista, era quello che volevo. Attenzione a ciò che si desidera, la vita ti dà quello che chiedi, ma a suo modo. Volevo arrampicare cinque giorni a settimana ed era il prezzo da pagare, ho fatto le valigie senza cura, veloce per dissimulare il dolore. Tutto quello che avevo entrava in due duffel bags ed una borsa di sci.

Mi sentivo orgoglioso di avere così poche cose, di viaggiare leggero, mi sono detto "Bravo!" Avevo molte emozioni contrapposte, avevo appena cambiato la sicurezza di una casa appena finita di ristrutturare per un divano qua e là. La mia scelta mi faceva sentire immaturo, mi faceva sentire che scalare era un gioco da ragazzini e non un lavoro come facevano tutti gli altri della mia età. Avevo appena finito la laurea in architettura e sarei dovuto entrare nel sistema. Ho provato a fare l’architetto, ma non avevo gli agganci per entrare nel cerchio, e non avevo nemmeno la voglia di farmi il culo per appartenere a un gruppo di artisti vanitosi che creano solo sulla carta e poche volte hanno a che fare con la realtà.

L’alpinismo mi sembrava più reale, gli agganci non valgono un cazzo, o fai la via o non la fai, e dopo averla fatta devi anche tornare a valle. Il tuo cognome, così come i titoli, non contano niente. Là fuori ci confrontiamo faccia a faccia con le nostre creazioni, ci si rende conto subito se siamo capaci o no di fare quello che ci siamo detti avremmo fatto. A volte può significare non mangiare per giorni, avere freddo, dormire all’aperto o non dormire affatto, sentirsi isolati, o dei falliti. Tutto ciò mette alla prova la forza di volontà, la stessa volontà che un giorno ti aiuterà ad uscire da una parete.

Avevo pochi soldi in tasca, potevo comprare un biglietto per tornare in Cile oppure andare sulle Alpi e trovare un lavoro. Tornare a casa dai miei mi sembrava una sconfitta, non sarei mai diventato un alpinista, dovevo rimanere, dovevo almeno provare. Riccardino, il coach alla palestra popolare di San Lorenzo, si era trasferito ad Arco di Trento. Era il mio miglior amico e partner in montagna, era dispiaciuto per la mia separazione e mi ha offerto un divano dove stare per un po’.

Erano giorni di pioggia ad Arco. Ho fatto il giro dei negozi e in due giorni ho trovato un lavoro. L’ho interpretato come un segno che diceva che stavo facendo la cosa giusta. A darmi lavoro era stato il Toni, che sarebbe diventato mio capo, e mio fratello. Mi aveva capito. Senza nemmeno chiedere mi aveva offerto una stanza nel magazzino del negozio, tra le scatole e pezzi di manichini. C’era un bagno e una cucina. Era perfetto.

Ad Arco c’erano tanti ragazzi come me, disadattati in città che avevano fatto la stessa scelta di vita, rinunciare ad un lavoro in ufficio per diventare guide, fare i commessi in un negozio di arrampicata part-time e scalare full-time. Ho imparato i trucchi del mestiere, ho visto quello che era possibile. Con Riccardino siamo andati in giro per le Dolomiti e le Alpi abbiamo scalato la Sud della Marmolada, le Tre Cime di Lavaredo, il Gran Capucin, la Nordest del Badile. Quando la stagione era finita andavo in Patagonia e tornavo ad Arco.

Un giorno mentre ero in Cile ho ricevuto una telefonata. Il Toni era morto in un incidente in montagna, scivolato giù da un sentiero. Di tutti quanti era quello che meno mi aspettavo. Lui non faceva le cose pericolose, era padre di 4 bimbi, appena sposato, con grandi progetti. Sono state le mie montagne questa volta a rompermi il cuore, mi sono sentito tradito. Ci ho messo un po’ a riprendermi, a trovare il senso della sua scomparsa. Ero un po’ intorpidito dalla paura e non riuscivo più a muovermi come prima. Mi faceva paura allontanarmi dalle protezioni, uno di noi era già abbastanza.

Nella mia solitudine ho urlato contro le montagne con tutta la mia forza, senza eco, senza risposta e ammutolito dall’aria sconfinata. Mi sono chiesto in profondità perché scalavo le montagne. Lo facevo perché la vita era troppo breve per non farlo. Mi sono rasato i capelli come un punk per rendere visibile la mia rabbia. Arrampicavo slegato, mi proteggevo poco. Il modo in cui facevo alpinismo era cambiato, ero molto più spinto e molto più libero di prima.

Ho conosciuto faccia a faccia coloro che portavo nelle mie piccole foto tessere. Sono la lista dei miei progetti o desideri, alcune già realizzate altre ancora da fare, avrei potuto fare di meglio ma senza sponsor è stato molto difficile.

Oggi dopo 8 anni ho scalato in Alaska una delle vie che portavo nel mio portafoglio, rappresenta per me un punto d’arrivo, ma soprattutto un punto di partenza. La Via Cassin sulla sud del Denali.

di Hector Silva Peralta

Link: FB Hector Silva Peralta, IG Hector Silva Peralta




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