Torre Innerkofler al Sassolungo, Dolomiti
I sognatori e i bambini sanno dare forma alle nuvole, prima che tutto si disperda nell’aria. Gli alpinisti intuiscono disegni ed ombre, spersi tra le pieghe d’immobili rocce.
“Domina Campitello e sembra sbocciare come un fiore sopra il ripido e incassato bosco della Val Duron, e la si distingue nettamente da Moena ad Alba. Sopra i verdi prati e le bianche ghiaie che la contornano essa si erge verticalissima ed elegante, costituita da due fiamme gialle di purissima dolomia, disposte a guisa di meravigliosa farfalla tesa verso il cielo” (da: “Sassolungo, le imprese e gli alpinisti” di Ivo Rabanser e Dante Colli – ed. Zanichelli). Così appariva la sud della Torre Innerkofler agli occhi di Graziano Maffei. E così il roveretano la descrive in una lettera scritta alla madre di Franco Gadiotti, l’alpinista a cui ha dedicato la Via del Calice aperta, con Giuliano Stenghel, tra le ali della farfalla. Era il 1977 quando i due si avventurarono per la “verticalissima nervatura di grigia roccia” che separa le gialle ali. Ci restarono due giorni, prima di portare a casa una delle vie più belle e difficili della Sud.
L’evocativa descrizione di Maffei, oltre che partenza ideale per la Innerkoffler, sembra l’inizio giusto anche per addentrarsi in questi 500 metri di vertigine gialla, o meglio tra quelle linee così diverse tra loro e così particolari che solo gli alpinisti, anzi solo alcuni di loro, sanno trovare. Se Maffei, infatti, aveva intuito il disegno di una linea certamente effimera e solo tratteggiata dai colori e dalle ombre della parete, molto tempo prima Luigi Rizzi s’era giustamente infilato nel ben più evidente e gigantesco camino-antro che incide tutta la parete. Non per questo però le incognite si potevano dire assenti: lo sa bene chi frequenta le Dolomiti, cacciarsi nel cuore della montagna riserva sempre molte sorprese.
Quel 18 agosto del 1908, Rizzi, insieme ai fratelli Guido e Max Mayer e alla guida Giuseppe Davarda, esplorò l’anima profonda della Sud lottando con il ghiaccio e i bui strapiombi dell’enorme fenditura. Alla fine, dopo quattordici ore, i quattro sbucarono sulla cima, dove li attendeva (bontà sua) la grandine e una notte all’addiaccio. Resta una via elogiata dai ripetitori (pochi), dei quali il primo fra tutti fu nientemeno che Paul Preuss. E resta quella inconfondibile incisione che fa da riferimento per le vie della parete. A destra, infatti, corre proprio la Via del Calice di Maffei e Stenghel. Sempre a destra c’è la via che il tedesco Dietrich Hasse e il bolzanino Sepp Schrott salirono in cinque giorni, nel 1959, seguendo quella gialla e strana esse strapiombante che ne caratterizza la parte iniziale. Poi, parallelo ai camini di Rizzi, sale anche il Diedro Prinoth, una via elegantemente risolta, nel 1958, da Norbert e Franz Prinoth del Gruppo dei Catores di Ortisei.
Un salto nel tempo ci riporta nel 1911, per un altro esempio di alpinismo dei pionieri. Protagonisti non casuali sono, ancora una volta, Luigi Rizzi e il suo partner ideale nonché insuperabile artista nel trovare le vie della roccia, Angelo Dibona. I due (legati ai fratelli Mayer) troveranno la più logica soluzione anche al rebus della poderosa parete Est della Torre. Un ritorno alla sud, invece, senza soffermarci più di tanto nel dire la Hasse-Schrott è nel segno del più puro spirito dell’arrampicata artificiale in voga all’epoca, ci serve per riportare una frase dello stesso Hasse, presa sempre dal già citato libro di Rabanser e Colli: “Devo pensare agli esperti, che così volentieri parlano di vie appianate dai chiodi. Ah, ah miei cari. Provare per credere!”. Come si vede nulla è più immobile dell’alpinismo quando ci si mette a discutere sull’uso dei chiodi - per non scomodare poi l’etica. Ma alla fine, anche in questo campo, le scelte restano sempre personali, e sono tanto più valide quanto più si ha conoscenza delle diversità e delle scelte possibili. Certo occorre saper vedere. Ci vuole cultura anche per scegliere come per trovare le vie. E questo è un compito riservato agli uomini. Le montagne seguono altre strade, sempre spiazzanti, come quella del versante nord ovest della Innerkofler: lì d’inverno le linee di salita si trasformano in splendide cascate ghiacciate per i patiti della piolet traction. Ora però, dopo le aver parlato delle diversità e degli scherzi del versante più severo del Sassolungo, è tempo di lasciare anche la Torre Innekofler per i suoi vicini: il Dente e il Sassopiatto, una coppia che neanche a farlo apposta più diversa di com’è non potrebbe essere.
di Vinicio Stefanello
pubblicato su Alp Grandi Montagne #31 Sassolungo
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L'ALTRO SASSOLUNGO
Capitolo 1: Introduzione
Capitolo 2: Punta delle cinque dita
Capitolo 3: Punta Grohmann
Capitolo 4: Torre Innerkofler
Capitolo 5: Dente e Sassopiatto