Ritorno nella Valle della Luna: l'arrampicata a Wadi Rum in Giordania

Dopo un primo viaggio nel 2013, Marcello Sanguineti racconta un intenso tour di 5 giorni d'arrampicata a Wadi Rum in Giordania, questa volta assieme a Manrico Dell'Agnola.
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Al Maghrar - Desert Rats in the Shade
archivio Manrico Dell'Agnola Marcello Sanguineti
A distanza di un anno dal mio primo viaggio di scalata in Giordania, ritorno nel magico deserto di Wadi Rum, nota anche come "La Valle della Luna". Questa volta, sono in compagnia di Manrico Dell'Agnola (CAAI).

Memore degli estenuanti controlli ai quali occorre sottostare passando il confine tra Israele e Giordania, questa volta, invece di volare su Eilat (nell’estremo sud di Israele), per poi entrare in Giordania attraverso il Rabin’s Pass, decido di volare direttamente su Amman. Da qui, per raggiungere Wadi Rum occorrono quasi quattro ore di jeep, invece dell’ora e un quarto circa che separa il villaggio beduino dal confine israelo-giordano, ma le pratiche si riducono a un semplice visto, che si fa direttamente in aeroporto.

L’imperturbabile Mohamed, un simpatico beduino che ci aspetta all’aeroporto di Amman, ci porta a Wadi Rum con un viaggio notturno in jeep, intervallato da innumerevoli soste durante le quali fa il pieno di tè, che gli consente di stare sveglio. Dice di non bere caffè perché gli fa male. In compenso, fuma una sigaretta dopo l’altra - tenendo aperto il finestrino dell’auto, il che provoca a Manrico un mal di gola che lo accompagnerà per tutta la vacanza. Nei giorni successivi arriverà a Mohamed una serie infinita di accidenti, che il mio socio gli invierà quotidianamente ("Incredibile: per colpa di quel beduino di un beduino, mi sono beccato il mal di gola nel deserto!!").

Nel villaggio di Wadi Rum alloggiamo ospiti della famiglia di Alì e di sua moglie Aliya, una coppia con solo quattro figli (per il momento): un’anomalia, visto che la media per le famiglie di Wadi Rum è di otto-nove pargoli, con il record di ventisette detenuto da un audace, che ha raggiunto questo livello prestazionale con tre mogli. La sistemazione è spartana, ma sufficientemente comoda: ci viene riservata una dépendance della casa di Alì, con ingresso, gabinetto essenziale e camera "da letto", con due materassi distesi sul pavimento. C’è persino la doccia con l’acqua calda, anche se la quantità d’acqua che esce fa dubitare che il termine "doccia" sia appropriato. Appena preso possesso della suite, facciamo il punto della situazione. A causa di impegni di lavoro, io ho a disposizione solo cinque giornate: alle nove di sera del quinto giorno dovrò partire alla volta dell’aeroporto di Amman, dove un volo notturno mi riporterà a Genova via Istanbul. Quindi, nonostante siamo un po’ cotti dal viaggio, decidiamo di dare inizio ai giochi già l’indomani mattina.

Sveglia e colazione sotto il pergolato: pita (pane piatto lievitato, rotondo, a base di farina di grano), miele, marmellata, yogurt, tè e caffè. Ancora abbondantemente assonnati, partiamo direttamente dalla casa di Alì alla volta dei NE Domes di Jebel Rum, dove scaliamo King Hussein, un gustoso antipasto in vista dei giorni successivi. Singolari i commenti che si trovano su questa salita: variano dal giudizio "una delle nostre migliori vie a Wadi Rum" dato dagli apritori, i fratelli Remy, a "via stupenda, ma con roccia di cattiva qualità nei tiri superiori", fino a "terrificante scalata su sabbia verticale"… Come spesso accade, la verità sta nel mezzo: alle lunghezze su roccia buona se ne alternano alcune che richiedono di stare bene all’occhio. Nel complesso, comunque, una via meravigliosa, lungo un gigantesco camino che incide la parete E dei NE Domes di Jebel Rum. Al rientro, ecco i problemi di orientamento che non abbiamo avuto per raggiungere l’attacco della via: le case del villaggio ci sembrano tutte uguali e fatichiamo non poco a ritrovare quella del nostro ospite!

L’indomani ci facciamo portare in jeep, da Alì, nel Barrah Canyon: un angolo di deserto "da urlo", dove l’anno scorso avevo salito, insieme a Gian Luca Cavalli e Marco Scagnetto, The Star of Abu Judaidah. Era rimasta indietro la mitica Merlin’s Wand, sul Gendarme nord di Abu Judaidah; questa seconda visita a Wadi Rum è l’occasione per portarsela a casa! Nota come la "Supercrack of Rum", rivaleggia a distanza con la Supercrack of the Desert, in Utah. Di difficoltà paragonabile a quest’ultima, è, però, molto più lunga. I tiri in fessura sono elegantissimi e tecnicamente molto piacevoli, anche se mai difficili. Il contesto è di una tale bellezza che, mentre scaliamo, non capiamo più nulla e non sappiamo se guardare le incredibili lavorazioni della roccia ai lati della fessura o le infinite tonalità delle pareti del canyon, le piste carovaniere disegnate sulla sabbia oppure l’orizzonte, popolato da una miriade di strutture rocciose. Mentre scendiamo in doppia, notiamo, alla base della parete, un nutrito gruppo di beduini, con il naso all’insù. Dall’ultima calata, li sentiamo commentare animatamente le nostre manovre. Quando tocchiamo terra, riservano a ciascuno di noi un fragoroso applauso. Quale occasione migliore per fare un po’ di foto e riprese con i local?! Spieghiamo ai beduini l’uso del materiale e di quegli strani oggetti, i friend, che più di ogni altra cosa hanno attirato la loro attenzione. Poi, facciamo provare a Khalid - uno dei numerosissimi bambini presenti - l‘emozione di mezzo tiro, con la corda dall’altro. La performance rischia di essere interrotta dalla preoccupazione delle mamme, sbucate all’improvviso da una macchia di grossi arbusti in lontananza, dietro i quali erano state relegate dai mariti. Le loro animate proteste sono prontamente messe a tacere dagli uomini, che le apostrofano senza troppi complimenti e le rispediscono indietro - cosa che le donne fanno all’istante, senza fiatare. Quando arriva la jeep di Alì, prima di riportarci al villaggio il nostro amico ci propone di farci visitare gli accampamenti che lui e suo fratello hanno allestito nel deserto, per ospitare i turisti: la pubblicità è l’anima del commercio… Insomma, ci fa fare il giro dei "possedimenti di famiglia", con l’obiettivo di farsi nuovi clienti… Nel suo Sunrise Camp, in meravigliosa posizione ai piedi del massiccio del Khazali, l’ineffabile Jamaal fuma la shisha (uno strumento fatto da un contenitore d'acqua profumata, al cui interno passa una spirale che consente al fumo di raffreddarsi, prima di giungere alla bocca attraverso un tubicino). Mi invita a provarla e mi assicura che il fumo è prodotto da un insieme di foglie di tabacco impregnato di una sorta di melassa, ma non mi convince: i suoi occhi, persi nell’infinità del deserto di Wadi, raccontano qualcosa di leggermente diverso…

Il terzo giorno è la volta delle Abu Aina Towers. Per colazione ho chiesto ad Aliya di prepararci hummus (salsa a base di pasta di ceci e pasta di semi di sesamo, aromatizzata con olio di oliva e semi di cumino in polvere) e tahina (farina di semi di sesamo tostati e triturati, allungata con olio di sesamo). Io ne sono ghiotto e a Manrico descrivo il piatto come una prelibatezza, ma il mio socio non gradisce affatto e mi cede anche la sua porzione. "Meglio così!" - penso fra di me, divorando il contenuto della ciotola con mugolii di piacere. Poi, Alì ci dà un passaggio fino alla base delle Abu Aina Towers. Ci lascia nel bel mezzo di un paesaggio surreale: ci troviamo accanto a un gigantesco e verdissimo albero nato "in the middle of nothing", ai piedi di lavoratissime pareti alte centinaia di metri, separate dal deserto da zoccoli detritici. Un’oretta di avvicinamento ci fa raggiungere una sorta di valletta sospesa, invisibile dal basso, dalla quale una cengia nascosta conduce all’attacco della via che abbiamo scelto: Lionheart. Gli apritori, R. e M. Edwards, la descrivono come "one of the best new routes we have ever done, with superb crack and groove climbing". Non possiamo dar loro torto: la salita si svolge lungo un sistema di diedri, camini e fessure che incidono una parete altrimenti inscalabile. Offre un’alternanza di tiri atletici e tecnici, con un’inaspettata con uscita in placca. Unico neo: la partenza del camino della terza lunghezza, con roccia di qualità molto discutibile. Il resto della via, però, compensa largamente questo dettaglio! Il rientro, al tramonto, offre un panorama mozzafiato, che contempliamo a lungo, attardandoci nella discesa. Questa volta non c’è Alì a prenderci con la jeep, quindi percorriamo a piedi il tratto di pista che separa le Abu Aina Towers dal villaggio. Complice la poca luce, girovaghiamo a lungo nel paese, alla ricerca della casa di Alì. Appena arrivati, ci "buttiamo" voracemente sul "fiero pasto": un piatto di riso con pollo, una banana, il solito tè e caffè. Poi di corsa a nanna, per recuperare in vista dell’obiettivo dell’indomani.

Il quarto giorno di scalata inizia con un secondo, lungo trasferimento in jeep. Questa volta ci dirigiamo verso SO, alla volta dell’Al Maghrar. La sua parete NE nasconde un gioiello del deserto di Wadi: Desert Rats in the Shade, lungo il diedro che la incide perentoriamente. Alì ci lascia a una quarantina di minuti dall’attacco. L’avvicinamento si svolge attraverso un piccolo canyon, che sbuca in una valletta alla base della parete. Tutt’intorno sono disseminate rocce di infinita varietà, capaci di fare la gioia dei geologi più esigenti e curiosi. La via offre fessure di tutte le misure, sul fondo dell’enorme diedro che sbuca su una sorta di terrazza rocciosa sospesa sul deserto, sormontata da una serie di placche apparentemente insuperabili.

Il giorno successivo chiudiamo i giochi sugli Hammad’s Domes di Jebel Rum. Scegliamo di salire Le Grec, via dedicata dai fratelli Remy a Georges Livanos, sul pilastro omonimo. Nonostante il Pilastro Livanos sia relativamente vicino al villaggio, si trova in un anfiteatro appartato che dà una sensazione di totale isolamento. La linea è esteticissima: tre tiri sulla fessura di fondo di un diedro, che finisce improvvisamente nell’immensità della parete sud della torre a sinistra del Pilastro della Saggezza. Proprio a quel punto, quando sembra di trovarsi in una sorta di vicolo cieco, sulla destra si materializza una cengia che conduce sopra un grande tetto, dal quale una serie di camini e fessure strapiombanti conduce in cima alla torre. Sul penultimo tiro, molto ingenuamente, perdo il discensore. Spesso ne ho uno di riserva, che non mi è mai servito; questa volta ne avrei bisogno, ma non l’ho portato. Mentre lancio un’imprecazione, penso rassegnato che si tratti di una delle tante manifestazioni del "principio di conservazione della sfiga". Pazienza: le molte doppie per rientrare alla base della parete sono una buona occasione per ripassare il freno moschettone… Durante le calate, ecco che fa capolino un’altra istanza del principio sopra citato: visto che ho fretta di rientrare al villaggio, dove mi aspetta Mohamed per il rientro in aeroporto, s’incastra una doppia. Insomma: arriviamo in paese in ritardo, con le ultime luci, e per la terza volta girovaghiamo alla ricerca della casa di Alì. Ormai, i beduini di Wadi Rum devono essersi abituati a una coppia di scalatori che si aggira disorientata fra le abitazioni...

Ho giusto il tempo di trangugiare un po’ di riso con pita e hummus. Fra un boccone e l’altro, ripercorro con Manrico i cinque intensi giorni di scalata: pochi, ma sufficienti per portare a casa un ricco bottino di vie sulle pareti di questo tempio dell’arrampicata su arenaria, tutte rigorosamente in stile trad. Saluto Aliya, i suoi quattro bambini e Alì, che mi abbraccia e mi lascia con il classico "Inshallah!". Poi salto a bordo della jeep, con la quale Mohamed copre a tempo di record i circa 300 chilometri che ci separano dall’aeroporto di Amman. Check-in in zona Cesarini e corsa verso il gate, per rientrare nottetempo: fra non molte ore mi aspetta una riunione di lavoro. Manrico, invece, resta in Giordania un’altra decina di giorni e si gode la seconda parte della vacanza: da vero turista, in pieno relax….

Thanks
Marcello Sanguineti (CAAI)

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