Ricordo di Phurba, il nostro amico sherpa

Maurizio Oviglia ricorda l'amico Phurba Sherpa, deceduto l'anno scorso durante una spedizione militare indiana diretta al Lhotse.

Ora che è passato qualche mese, desidero scrivere qualche riga su un ragazzo conosciuto in Nepal e con cui ho avuto occasione di condividere una cima. Purtroppo, dopo che siamo divenuti amici ed abbiamo mantenuto i contatti anche dopo il nostro rientro in Italia, Phurba è rimasto vittima di una scarica di ghiaccio sulla seraccata del Khumbu, mentre preparava le corde fisse per una spedizione militare indiana diretta al Lhotse. Un laconico comunicato ne ha riportato la notizia ed il nome… “tra le vittime anche uno sherpa”. Phurba è un nome molto comune tra gli sherpa, si rischia di confonderli, così nel leggere quelle tre righe che solitamente vengono dedicate agli sherpa che muoiono in montagna, potremmo dire sul lavoro, segretamente speravamo davvero non fosse lui ma uno dei tanti omonimi. E invece…

Phurba aveva forse 18 anni, anche se lui ci disse che ne aveva 21, forse per paura che non lo giudicassimo all’altezza di accompagnarci… Era uno “sherpa di alta quota” e, nonostante la sua età aveva già salito diversi 8000, tra cui il Cho Oyu, l’Everest, il Makalu ed il Manaslu. Quando arrivai a Kathmandu il mio amico Chhongba, conosciuto anni fa al Dhaulagiri e impiegato al Rifugio Vittorio Emanuele al Gran Paradiso, mi disse che, a malincuore, non poteva venire con noi. La tragedia dell’Annapurna gli aveva lasciato ancora molti problemi da risolvere in città e non poteva spostarsi. Alcuni alpinisti occidentali avevano ottenuto il permesso tramite lui per salire una cima minore nel gruppo dell’Annapurna, ma poi avevano tentato la vetta. Il governo lo aveva scoperto, solo grazie all’emergenza data dalla tempesta, e rischiava di ritirargli la licenza ed arrestarlo. Da lì a due mesi il terremoto avrebbe devastato il Nepal, compreso il suo villaggio, ma tutto era apparentemente tranquillo e nessuno immaginava che una tragedia simile potesse abbattersi da lì a poco. Quanto a me, avevo intenzione di salire una cima nella Rolwaling Valley. Mi accompagnavano mia moglie e mia figlia e due cari amici: nessuno a parte me possedeva esperienza di montagna. Avevo bisogno di un aiuto, da solo non ce la potevo fare. Stai tranquillo, mi disse Chhongba, ti darò uno dei miei migliori sherpa di alta quota. Si legherà lui con i tuoi amici, e tu potrai pensare a tua moglie e tua figlia…

Durante tutta la marcia di avvicinamento Phurba parlava poco, anche se con noi si dimostrava sempre educato e gentile. La cosa che ci colpiva di più era il fatto che, appena arrivato ad un campo, si coricava sull’erba e dormiva per ore… mentre i tamang si davano un gran daffare. Ma questi sherpa, si svegliano solo in alta quota? Scherzavamo tra di noi… Verso i 4000 metri e con l’abbassarsi della temperatura, in effetti Phurba cominciò a dare qualche segno di vita. Anche se era vestito esattamente come 3000 metri più in basso! Era il più giovane tra gli sherpa e non tardò a conquistarsi la simpatia delle ragazze del nostro gruppo, con semplici gesti di gentilezza o amore verso gli animali che incontrava lungo il tragitto. La tempesta dell’Annapurna aveva lasciato molta neve sulle montagne e l’obiettivo che ci eravamo prefissati si profilava molto pericoloso. Non c’era nessuna pista da seguire e anzi, nessuno si avventurava oltre i 5000 metri. Erano appena morti due portatori nel tentativo di oltrepassare il colle che dà verso la Valle del Khumbu, ma la cosa sembrava un fatto del tutto normale. Gli sherpa non si esprimevano e la decisione di cosa fare era chiaramente in mano a me. Consultai le cartine e trovai un obiettivo alternativo: i nepalesi fornivano solo risposte vaghe e non davano impressione di conoscere bene il posto che non era una delle solite destinazioni che chiedono in agenzia. Raggiungemmo il campo avanzato in mezzo alla neve, mentre in condizioni normali c’era un bel lago. Il tempo era bello ma c’era molto freddo e stava per calare la notte. Dovendo affrontare il ghiacciaio il giorno dopo, nonostante il mal di testa, decidemmo di fare un breefing e ripassare alcune manovre per un eventuale recupero da un crepaccio. Marco, che era stato volontario nel soccorso alpino, fece da cicerone per tutti. Phurba era molto interessato e ci fece anche molte domande, non ponendosi mai nella posizione di chi ne sapeva di più… Non avevamo nessuna idea di che formazione potesse aver avuto, ma lo consideravamo un alpinista molto esperto diplomato sul campo…

Quella sera con noi c’erano alcuni ragazzi tamang che avevano aiutato a portare su i viveri ed uno di loro, non più di 15 anni, si sentì improvvisamente male. Tremava come una foglia e non aveva attrezzatura adeguata per coprirsi, ma solo una tuta di acetato, scarpe da ginnastica bagnate per la camminata nella neve. Cecilia, quale medico, lo visitò e gli fece un’iniezione di plasil per la nausea. Lo coprimmo con dei vestiti. Appena si riprese un poco i compagni lo spedirono a valle da solo, anche se stava per far notte. Ci sembrava una decisione avventata ma non ci fu modo di discutere. Diedi al ragazzo almeno i miei secondi guanti, sperando di rivederlo sano e salvo a valle…

Il giorno dopo, alle tre del mattino, partimmo per la vetta, noi quattro e Phurba. Oramai ci seguiva come un’ombra ed era uno di noi. Non conosceva il percorso, non riuscivo a capire se ci fosse già stato in passato o se semplicemente non ricordasse. In ogni caso non assunse mai una posizione di leader ma aspettava che fossi io a decidere dove andare e cosa fare. La lingua del ghiacciaio formava un pendio di ghiaccio a 70 gradi, era la prima difficoltà imprevista, di una vetta di cui non sapevamo nulla. Come era nei patti ci dividemmo i compiti ed io pensai a mia moglie e mia figlia, lui ai miei amici. Lo vidi salire con sicurezza sulle punte dei ramponi e capii che potevo forse fidarmi di quel ragazzo… Fissò un paletto e fece salire gli altri, intanto con la coda dell’occhio controllavo quel che stava facendo. La fatica si faceva sentire e in alto c’era molta neve fresca inconsistente, bisognava battere pista. Il pendio sotto la vetta era molto ripido e non avevamo previsto di affrontare queste difficoltà nella nostra piccola spedizione, che doveva essere una semplice camminata su ghiacciaio lungo una pista molto frequentata. Fortunatamente avevamo preso con noi dei lunghi picchetti di alluminio che si rivelarono utilissimi: fu l’unico modo di assicurarci su quello scivolo. Phurba naturalmente era tranquillo, stava benissimo e dava l’impressione di avere perfettamente in mano il controllo della situazione. Anzi, saliva avanti e indietro come i cani, aiutando gli ultimi. Mi chiedevo se fosse più prudente rinunciare dal momento che alcuni di noi erano spossati. Come avremmo fatto in discesa? Con le gambe stanche sarebbe bastato un solo passo in fallo per trascinare tutti giù! La decisione se continuare o tornare spettava solo a me. Molto lentamente arrancavamo nella neve fresca verso la vetta. Ognuno cominciò a concentrarsi su se stesso e sulle proprie forze, mentre Phurba rimase con gli ultimi di noi, cercando di aiutarli… Raggiungemmo la cima e mentre mi stavo chiedendo se non fosse il caso di gridargli di scendere, lo vidi spuntare sulla cresta sommitale. Ci abbracciammo piangendo di gioia, aveva fatto un gesto di immensa generosità a regalare la vetta anche a chi, ormai spossato, si era ormai arreso…

Come spesso accade in montagna, quel giorno la nostra amicizia si cementò in maniera indissolubile. Ci scrivevamo sovente attraverso facebook, ci raccontava delle sue spedizioni, dei suoi progetti. Quando ci fu il terremoto per diversi giorni non riuscimmo a sapere se fosse ancora vivo o fosse stato coinvolto in qualche crollo. Con sollievo ci disse che era impegnato nella ricostruzione del suo villaggio. Ma la sua vita ed il suo lavoro erano lassù, in alta quota. Una semplice pedina al servizio delle grandi spedizioni militari e commerciali. La sua scomparsa non ha destato alcuna attenzione nell’ambiente alpinistico, ma ha aperto una voragine nei nostri cuori. “Ti sembrerà strano” mi ha detto questa mattina Marco “ma mi manca moltissimo... Mi mancano le sue foto, i suoi progetti, le notizie che mi inviava dalle spedizioni in cui era coinvolto. Era contento, la vita gli stava andando bene e si riteneva fortunato”.

Le sue foto arrivano in sequenza con whats app, Marco non ha avuto il coraggio di eliminarle dal suo cellulare. Il suo profilo, è rimasto per un po’ su facebook, prima che qualcuno lo cancellasse. Di lui conserviamo qualche foto ed il ricordo di una grande umanità ed altruismo dimostrateci ad alta quota, nonostante non stesse facendo altro che il suo lavoro.

di Maurizio Oviglia

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