Monte Costone, prima salita in Piolet-traction del Camino a sinistra della Vetta
Cosa sono i sogni?
-Quelli che si fanno di notte!-
-Certamente si!-.
-Anche.- Aggiungerei io. Anche…
Quante volte vi è capitato, osservando una parete, di rimanere rapiti mentre occhi e mente viaggiano senza limiti di gravità tra le sue pieghe e le sue verticalità a leggere linee invisibili e immaginarie? In altre parole, appunto, di sognare alpinismo?
Tante, anzi, personalmente direi troppe! Il mio alpinismo è questo. E i compagni che scalano con me sognano e immaginano allo stesso modo. Spesso dopo una salita appena conclusa ne immaginiamo subito un’altra, poiché, di sogni e di linee, sin li solo immaginate, ne abbiamo tante. Anzi, ripeto, troppe.
E dire che quasi un decennio fa si diceva da più parti che l’alpinismo in Appennino era praticamente finito. Che l’alpinismo era ormai confinato nelle sole ripetizioni o nell’apertura di vie estreme, su pezzi di pareti di dubbia logicità alpinistica e su roccia marcia o oltremodo pericolosa. Tutto era stato fatto, o meglio, le grandi imprese erano tutte state fatte, al massimo rimaneva qualche spiraglio di qualche salita invernale su piccole e poco importanti pareti di scarso interesse o, di nuovo, oltremodo pericolose.
I nostri sogni non si ergono ad essere definiti imprese, non ci importa, o meglio, non è assolutamente tra le nostre priorità. Se la linea è bella, elegante, logica e che cerca il facile nel difficile come diceva un grande alpinista del passato, a noi basta.
Il ‘progetto’ sulla parete NNE del Costone Occidentale, o Vena Stellante a seconda dei casi, entrambi i toponimi sono esatti, ne entrava a far parte, anzi, era una delle priorità che ad ogni inverno degli ultimi anni, mettevo in cima alla lista.
Fine febbraio 2016, finalmente una serie di perturbazioni atlantiche porta la neve giusta per rimettere in cantiere i sogni di questa parete. Ma è ancora presto, dico ai compagni Luca e Stefano. Aspettiamo cosa combinano le due prossime perturbazioni previste per inizio marzo. Abbiamo bisogno di tanta neve che scivoli giù nel diedro, che tappi e ricopra di un sufficiente velo di neve pressa (o alpin ice) i punti più verticali e strapiombanti.
Le due perturbazioni fanno il loro dovere e metto in allerta i compagni. Appena fa due giorni di sole filato si parte. La parete del Costone è lontana molti km dalla strada e se partiamo, anche con le ciaspole, ma con la neve ancora troppo fresca, rischiamo di arrivare alla base esausti e, peggio, troppo tardi, con il sole alto a scaldare troppo rocce, neve e ghiaccio. Domenica 20 marzo è il giorno giusto. In quota lo zero termico non è troppo elevato e, se partiamo presto, all’alba, arriviamo alla parete prima che il sole faccia danni.
Nel 2013 ebbi il mio primo confronto invernale con questa parete. La mia prima visita invernale invece risale a molti anni addietro. Credo fine anni ‘90. Dunque mi ci son voluti oltre dieci anni di esperienze verticali per avere la consapevolezza che era possibile salirla d’inverno, in piolet-tracion. Fu un’esperienza notevole, trovai la salita quasi più facile del previsto e questo bastava per posare gli occhi, dunque i sogni, sul camino più a sinistra. E porsi la fatidica domanda: è possibile salire di lì? Quel giorno la risposta fu un secco no. Impossibile, se non utilizzando sotterfugi poco etici del tipo calarsi dall’alto, mettere qualche spit o cose simili.
Nei due inverni successivi spesso riguardavo quella foto e, più la guardavo e più mi convincevo che quel giorno sarebbe stata sicuramente possibile la salita e che, anzi, c’erano ottime condizioni! Evidentemente la mente avevo solo bisogno di metabolizzare, prendere atto, aver fiducia e consapevolezza per agire.
Torniamo a oggi, 20 marzo 2016. Sveglie mal impostate, colazioni fatte in cerca di bar aperti e partiamo che è già tardi. L’alba è passata da un pezzo e sono praticamente le 8:00 quando appare la parete sul fondo di una lunga e quasi piatta valle glaciale denominata Valle Leona. Saremo dovuti già essere all’attacco commento. Ma sono fiducioso, la neve è compatta e nonostante il poco allenamento di un inverno un po’ balordo dovremmo farcela ad attaccare prima delle 9:30.
Un’ora dopo la parete è di fronte a noi. Fa paura. E’ verticalissima e il diedro di attacco è senza neve, inoltre non si capisce come si possa scalare quel tratto su gradi di difficoltà ‘umani’. Io comincio nel dire che ho ancora i postumi di una febbre mal curata per cui non me la sento di tirare sin dall’inizio. Stefano fa il vago mentre Luca accetta la sfida di iniziare lui le danze.
La via da salire, il camino a sinistra della vetta, è misconosciuta a molti poiché descritta solamente sulle ingiallite pagine del rarissimo volume TCI Appennino Centrale vol. 1 edito negli anni ’50 e non più stampato.
E’ una via aperta il 22 luglio 1931 e forse non presenta neanche ripetizioni estive o al massimo una. In quegli anni i gradi erano strani. La via viene descritta come di secondo e terzo grado. Non danno informazioni in più se non aggettivi del tipo placche insormontabili, tetti inscalabili, diedri aggettanti e appigli minuscoli. Tutte parole che, a conti fatti, cozzano con quel misero 2° e 3° grado. Ma di questo avevo già avuto sentore sulla via a fianco fatta in estiva qualche anni prima (2012). Ma questa è un’altra storia.
Luca supera il conoide e ben presto arriva al tratto scoperto su roccia. Trova un chiodo. E’ chiaramente fabbricato a mano e, dalla ruggine, può anche essere di oltre 80 anni. Ma il buco è piccolo per ficcarci un rinvio moderno…forse un cordino. Data la posizione scomoda fa prima ad inserire un più sicuro chiodo nuovo. Presto si trova ad affrontare i tratto chiave, ovvero una parete apparentemente priva di appigli. Luca con diligenza con una piccozza sfrutta una piccola zolla d’erba, quindi con la punta del rampone fa leva e si alza alla ricerca di qualcosa per l’altra picca. Quindi un altro passo di puro equilibrio (M4/M4+) e una picca arriva su un labbro di ghiaccio già marcio dal sole ma che tiene quel tanto che basta. Poi prosegue brevemente su neve per poi entrare nell’enorme diedro e sparire dalla nostra vista. Qualche minuto e risuona il più classico sdeng sdeng del martello sul chiodo. Parto. Supero il tratto duro, entro nel diedro anche io e, al suo fondo, quasi incastrato, vedo Luca che mi dice che il diedro piscia acqua e si sta inzuppando. -Ma che fai lì?- Gli dico io! Dovevi fare sosta o sopra o sotto! Cavolo! Quand’anche arrivo io il gettito d’acqua che viene dalla parte destra dell’enorme diedro è continuo e ci cade proprio addosso. Il sole qui non c’è, ma in alto colpisce ancora parzialmente la parete.
Gli dico di continuare a recuperare Stefano almeno fin quando ha superato il tratto di misto, quindi di bloccarlo e di assicurarmi che sarei partito io per superare quel budello di ghiaccio che incombeva sulla nostra testa e che avrei fatto sosta appena possibile. Parto e mi accorgo subito che lo scolare incessante ha bagnato quasi totalmente anche me. Spero che almeno il ghiaccio abbia retto, il lato che debbo salire non pare subire scolamenti diretti . Ma appena pianto la picca mi rendo conto che non è come immaginavo. I qualche modo salgo (90°) la breve colata ed esco su un ballatoio non abbastanza ampio per tutti e tre, salgo ancora (80°) su ghiaccio pessimo e misto ad un secondo ballatoio. Anch’esso scomodo ma non posso andare oltre, sono già ad 8-10m da terra e son senza protezioni. Faccio sosta, recupero i compagni e rimaniamo appesi in tre in una scomoda posizione, dentro un diedro buio e profondo con ogni tanto scariche di neve che ci scorrono a pochi metri (il lato destro del diedro, evidentemente è ancora baciato dal sole). Si potrebbe scendere. Siamo zuppi. Io tremo, Stefano anche, ma il peggio messo sembra Luca che pare avere l’acqua anche dentro gli scarponi, visto che è stato lui, più di tutti, sotto il tiro della, anzi delle, pisciatine d’acqua. Davanti a noi il diedro prosegue verticale, in alto si nota quello che potrebbe essere il tetto insuperabile descritto dai primi salitori e la vicina placca priva d’appigli oggi ricoperta da un sottile strato di ghiaccio a tratti discreto e a tratti marcio. Comunico ai compagni che non voglio scendere. Scendere di qui significa andare di nuovo sotto il pisciatoio con il rischio di stare di nuovo a tiro di slavinette o pietre oltre a far intrecciare corde. Gli dico di voler arrivare una quindicina di metri più in alto, verso lo spigolo, ad un comodo ripiano da dove potersi calare senza rischi. Dai che il duro è fatto. Stefano non pare convinto ma io salgo lo stesso. Cambio guanti e sotto guanti, voglio quelli asciutti per questi pochi metri da affrontare. Tre chiodi dopo e tanta, tanta esperienza per superare quel tratto che è più difficile del previsto, quindi traverso la cengia e giungo allo spigolo. Wow! Dai che si sale, da qui in poi il ghiaccio è migliore! E poi il duro è fatto! Qui molla!
Luca parte, sale ma lo vedo soffrire e tirarsi sui chiodi. E’ evidente che sta messo male. Stefano borbotta qualcosa. Intuisco che non era d’accordo di fare anche quest’altro pezzo di parete. Anzi pochi metri dopo mi dice che lui scende. Giunto in sosta cerco di convincerlo ma lui, tremante e inzuppato dice che da imprenditore non può ammalarsi e, che, proseguire in quelle condizioni è da matti. Ci sleghiamo e buttiamo i capi delle corde giù. Stefano cala e ci saluta. Guardo negli occhi Luca. -Vuoi continuare seriamente o lo fai solo perché io me la sento di salire?- E ancora. – Guarda che se mi dici di calare non c’è problema! Oggettivamente siamo bagnati, infreddoliti, io cinque minuti fa ho pianto dal dolore per una bollita alle mani. Non c’è che dirlo non avere paura!. - E Lui, tremante mi dice: –Cri, ti ho già detto che voglio salire!.-
Ok. Allora andiamo.
A quasi cinque metri da terra capisco che il tratto chiave della via è ancora da fare. Il ghiaccio però è decisamente migliore anche se drammaticamente sottile. Nel cercare di piantare un chiodo sono costretto a rompere pezzi di quel poco ghiaccio che ricopre la roccia. Un pezzo più pesante cade e prende in pieno una piccozza di Luca che cade nel vuoto (*). Nulla, sotto quel vetro di ghiaccio di un paio di centimetri non c’era nulla. Salgo ancora mezzo metro ad una fessura orizzontale dove pongo un chiodo in equilibrio. Martello ed esso rimbalza e cade nel vuoto. Altro chiodo. Nulla da fare, non entra. I polpacci intanto chiedono pietà, sento l’acido lattico montare. Voglio scendere. Avviso Luca di aiutarmi a scendere, per lo meno ad indicarmi dove mettere le punte dei ramponi dei piedi poiché non vedo nulla e sto sulla verticale completa. Nel tentativo una piccozza fuoriesce dal brandello di ghiaccio e miracolosamente l’altra mi tiene ancora in parete. No, non si può scendere. Cadere da qui son cinque metri, direttamente sulla sosta (3 chiodi), quindi altri cinque prima che la corda si faccia tesa. Dieci metri in tutto. Mi faccio male. Ma se riesco a salire altri due metri vedo del ghiaccio migliore, più spesso. Tanto se cado –penso- o dieci o quattordici metri non son poi così tanto differenti. Con movimenti oserei dire felini raggiungo il pezzo di ghiaccio spesso. Ora sono a 8 metri da terra senza alcuna protezione. Dai Cristiano ancora un paio di metri e si può infilare un chiodo da ghiaccio! La tensione, la fisicità di quei passi così difficili mi hanno fatto dimenticare il freddo e le parti del corpo inzuppate, approfitto di ciò e proseguo di slancio sulla parete ghiacciata a monte. Sono caldo, anzi bollente, mi sto asciugando per il tanto calore che il mio corpo sta emanando per lo sforzo! Proseguo e faccio sosta 55m a monte, sull’unico punto dove i miei polpacci potevano riposarsi e piantare chiodi decenti. Sopra di me vedo la cornice di vetta. Un tiro e siamo fuori. Recupero Luca che con enormi difficoltà riesce a raggiungermi in sosta. E’ provato, stanco, ancora zuppo e tremante, ma il suo volto è raggiante. Ultimo tiro, ultimo tratto verticale (addirittura tre chiodi da ghiaccio) e sono sul pendio finale su neve improvvisamente soffice, ma a quasi 70° di pendenza. Salgo una decina di metri e sento la necessità di proteggermi. Con una mossa apparentemente illogica piego a destra, lungamente a destra alla ricerca di una roccia affiorante dove infilare un chiodo da roccia. Tranquillizzato da quel pezzo di metallo riprendo la mia salita verso la cornice sommitale. Poco sotto di essa sono costretto a scavare una trincea per rimanere in piedi, la neve è farina ma a 75°! Con le piccozze comincio a demolire la base della cornice che mi sta sopra la testa. Quindi guadagno pochi centimetri alla volta fino ad arrivare a buttare una piccozza sulla piatta superficie di vetta. Il chiodo è ormai a 20 metri, ma la piccozza finalmente aggancia qualcosa di più solido della farina e riesco a tirarmi su e uscire in vetta! Un urlo proviene dal basso. E’ Stefano che era rimasto ad osservarci per tutto il tempo. Alzo le picche al cielo e emetto un urlo anche io. Poi arriva Luca. Il suo urlo è animalesco. Ci abbracciamo, commossi, per almeno trenta secondi.
Un grazie va a Stefano e Luca per aver vissuto questa avventura e aver condiviso decisioni, gioie e dolori. Senza di voi i sogni rimangono tali.
Cristiano Iurisci 23 marzo 2016
(*) Stefano che era 55m più in basso, appena sceso, vede la scena e con un’asola riesce ad appendere una sua piccozza alle corde che sfioravano terra.
SCHEDA: Camino a sinistra della Vetta, Monte Costone parete NNE