L'orologio senza tempo, Punta Figari e il 50mo compleanno di Giova Massari
Lo scorso agosto Giovannino Massari e Paolo Seimandi hanno riattrezzato L'orologio senza tempo, la storica via aperta nel 1982 dallo stesso Massari insieme ad Andrea Parodi sulla Est della Punta Figari (Gruppo Castello - Provenzale). Il report di Paolo Seimandi.
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Giovanni Massari su Punta Figari negli anni '80
archivio G. Massari
Ho ripetuto L’orologio senza tempo nel 1984, ed è stata una delle mie prime arrampicate difficili. Come altrove, eravamo approdati alla Punta Figari grazie a 100 Nuovi Mattini, e a quella foto in cui era ritratto Sergio Savio alle prese con un passaggio di VII grado. Sergio era uno dei quei personaggi un po’ misteriosi e circondati da un alone di leggenda che spesso trovavi sulle pagine di 100 Nuovi Mattini: per quanto mi riguarda, la leggenda rimase tale, dato che non ebbi mai la fortuna di incontrarlo. Uguale reputazione godeva allora Giovanni Massari, detto “Giova”, che era un po’ “er Manolo de noialtri” del nord-ovest. Di lui si raccontava di difficili free solo, addirittura in apertura, al limite del 6c (che allora era un livello per noi stratosferico, dato che non lo salivamo nemmeno con gli spit), di cascate terribilmente pericolose, realizzate in totale sprezzo del pericolo. Tra noi si mormorava che Giova, affetto da una grave malattia, avesse deciso di vivere alla grande i suoi ultimi giorni, e non gli importasse proprio nulla dell’eventualità di morire in montagna durante una solitaria. Carattere schivo ma cordiale, secco, dita d’acciaio, stile sciolto ed elegante, “Giova” è stato (ed è tutt’ora) per noi piemontesi una leggenda, forse al pari di Marco Bernardi , ma nettamente meno conosciuto di quest’ultimo. Nei primi mesi del 1986 finalmente incontrai Giova nel suo regno di allora, la falesia di conglomerato di Bagnasco, dove si poteva permettere di salire e scendere tutte le vie, alcune persino slegato. In quei giorni il vento dell’arrampicata sportiva soffiava forte e da lì a poco Giova sarebbe stato protagonista discreto, insieme all’amico Andrea Gallo, dell’ottavo grado (leggi decimo) sulla Pietra di Finale. Parlammo di quella sua via, l’Orologio Senza Tempo, aperta nel gruppo Castello-Provenzale, uno dei luoghi che più amava. Gli scattai qualche foto, ma non gli dissi che, il giorno del mio ventesimo compleanno, forse spinto dall’emulazione del suo personaggio, me ne ero andato a festeggiare arrampicando slegato sulla Torre Castello, su una via nuova. Che, per me che facevo a malapena il VI grado, era più o meno come giocare alla roulette russa… Allora forse si aveva più pudore, ma certe cose non si dicevano, per cui non comunicai mai la mia apertura di quel giorno… se non a Giova stesso, anni dopo. Ugualmente, per comune senso del pudore, molte vie di Giova sono rimaste solo nei suoi ricordi; altre invece sono relativamente conosciute, conservando fama di difficoltà, grande libera e poche protezioni in loco. Oggi Giova ha cinquant’anni e anche lui ha deciso di festeggiare la ricorrenza sulle rocce che più ha amato. Insieme a Paolo, suo nuovo amico, ha rispolverato uno dei suoi gioielli più belli, proprio quell’Orologio Senza Tempo che me lo ha fatto conoscere. Oggi come ieri, Giova è un climber di grossa discrezione. E se non fosse per l’amico che abbiamo in comune, forse non ci saremmo ricordati di lui. Auguri grande “Giova”!
Maurizio Oviglia
L'OROLOGIO SENZA TEMPO RIVISITATO NEL 2012 di Paolo Seimandi
Il treno iniziò a rallentare ed in meno di tre minuti mi trovai sulla banchina della stazione di Mo i Rana, grigia cittadina industriale alle porte del circolo polare. La settimana precedente avevo appena fatto in tempo per un fugace saluto alle mie montagne e poi di corsa a casa, a stipare nello zaino jeans, guanti da lavoro e gusci anti-pioggia. Rischiavo davvero di eccedere il peso consentito dalla Norwegian Airlines, ma non volevo partire senza le mie Miura ed un po' di materiale: sarei stato a meno di 400 km dalle Lofoten e speravo che qualche artic-trucker potesse darmi uno strappo fin lassù, anche se di giorni liberi ne avrei avuti pochi e la mia forma sarebbe stata pessima.
Le settimane passavano, ma le uniche pareti con cui potevo cimentarmi erano quelle di legno dei rorbu, su e giù per scale di alluminio ondeggianti con latte di vernice rossa. A giugno lassù le giornate non finiscono mai ed erano spesso i deltoidi a suggerirmi quando era ora di chiudere il secchio, la sera. A volte però le braccia non erano così provate e potevo permettermi qualche trazione nel fienile della fattoria, forse più per nostalgia che per dedizione.
Arrivò la fine di luglio, dovevo aspettare per un lavoretto nello Småland, e ne approfittai per tornare a casa per un po'; ero impaziente di strizzare qualche tacca ma al tempo stesso mi sentivo male al solo pensiero di infilare le velcro 40.5. Pochi giorni dopo chiamai Giova, organizzammo un'uscita in falesia poi finimmo per parlare della Castello. Ci eravamo conosciuti per via di quella montagna ma non ci avevamo mai scalato assieme. Gli dissi: “Vorrei fare una via sulla Figari ma è da un po' che non scalo seriamente, finirei per vibrare ad ogni passo”. Giova replicò: “Ho un progetto cui tengo particolarmente, non è necessario essere in gran forma. Forse è l'occasione giusta!”.
Pochi giorni dopo eravamo alla base della Punta Figari, con l'intenzione di raggiungere la Cresta attraverso il Camino Est e calarci sull'Orologio senza tempo, via aperta da lui nell'estate dell'82, cercando di ripulirla un po' e renderla più appetibile in un'ottica moderna. Giova rinviò la prima sosta del Camino che non avevo ancora passato la corda nell'Atc... pazienza pensai, sarà III+. Il tiro successivo era facile, ripido, umido e spettava a me.
Giova esordì: “Metti pure qualcosa”, ed io non potei trattenere la risata: stavo forse dando l'impressione di voler semplicemente portare a spasso la corda per una quarantina di metri!? Raggiungemmo la Forcella Provenzale che si stava levando un vento forte e nuvoloni scuri minacciavano il nostro progetto. Certo non si trattava di realizzare alcuna impresa ma quella giornata era importante per noi e non avremmo potuto replicare per quella stagione.
Fortunatamente i tuoni roboanti in lontananza si risolsero in un bluff, i nuvoloni fecero capolino dietro allo Chambeyron e noi potemmo raggiungere il gendarme di roccia scura sulla Cresta, dove terminava la via. Piazzata la prima (ovvero ultima) sosta della via cominciammo a calarci; procedevo quasi meccanicamente, tagliando brandelli di fettucce, rimuovendo vecchi chiodi e spazzolando qua e là, ma poco alla volta, senza quasi rendermene conto, iniziai a prestare attenzione ai muri compatti, ai fessurini cechi ed a cercare di immaginarmi lì in mezzo nei primi anni '80, senza aver idea di dove passare, solo con “una serie di stoppers fino al n° 8”, come indicava candidamente Giova nella sua vecchia guida. Credo di essermi immedesimato di più nell'apritore calandomi su quella linea che in tante altre occasioni, durante scalate per me difficili, dove impegnato a risolvere i passaggi o a piazzare le protezioni non ho mai avuto il tempo di riflettere e comprendere.
Alla fine ci restò il tempo per scalare il primo tiro: bellissimo, ma sentivo che quel giorno non sarei stato in grado di scalare tutta la via da primo, in libera e con sufficiente tranquillità, e un po' mi dispiaceva. Ma Giova era lì, a festeggiare il suo 50° compleanno, a 30 anni esatti dall'apertura della via, probabilmente con lo stesso guizzo negli occhi che aveva in quell'estate di tanti anni fa. Quindi poco male, pensai, forse ho ancora un po' di tempo.
Paolo Seimandi
SCHEDA: L'orologio senza tempo
Maurizio Oviglia
L'OROLOGIO SENZA TEMPO RIVISITATO NEL 2012 di Paolo Seimandi
Il treno iniziò a rallentare ed in meno di tre minuti mi trovai sulla banchina della stazione di Mo i Rana, grigia cittadina industriale alle porte del circolo polare. La settimana precedente avevo appena fatto in tempo per un fugace saluto alle mie montagne e poi di corsa a casa, a stipare nello zaino jeans, guanti da lavoro e gusci anti-pioggia. Rischiavo davvero di eccedere il peso consentito dalla Norwegian Airlines, ma non volevo partire senza le mie Miura ed un po' di materiale: sarei stato a meno di 400 km dalle Lofoten e speravo che qualche artic-trucker potesse darmi uno strappo fin lassù, anche se di giorni liberi ne avrei avuti pochi e la mia forma sarebbe stata pessima.
Le settimane passavano, ma le uniche pareti con cui potevo cimentarmi erano quelle di legno dei rorbu, su e giù per scale di alluminio ondeggianti con latte di vernice rossa. A giugno lassù le giornate non finiscono mai ed erano spesso i deltoidi a suggerirmi quando era ora di chiudere il secchio, la sera. A volte però le braccia non erano così provate e potevo permettermi qualche trazione nel fienile della fattoria, forse più per nostalgia che per dedizione.
Arrivò la fine di luglio, dovevo aspettare per un lavoretto nello Småland, e ne approfittai per tornare a casa per un po'; ero impaziente di strizzare qualche tacca ma al tempo stesso mi sentivo male al solo pensiero di infilare le velcro 40.5. Pochi giorni dopo chiamai Giova, organizzammo un'uscita in falesia poi finimmo per parlare della Castello. Ci eravamo conosciuti per via di quella montagna ma non ci avevamo mai scalato assieme. Gli dissi: “Vorrei fare una via sulla Figari ma è da un po' che non scalo seriamente, finirei per vibrare ad ogni passo”. Giova replicò: “Ho un progetto cui tengo particolarmente, non è necessario essere in gran forma. Forse è l'occasione giusta!”.
Pochi giorni dopo eravamo alla base della Punta Figari, con l'intenzione di raggiungere la Cresta attraverso il Camino Est e calarci sull'Orologio senza tempo, via aperta da lui nell'estate dell'82, cercando di ripulirla un po' e renderla più appetibile in un'ottica moderna. Giova rinviò la prima sosta del Camino che non avevo ancora passato la corda nell'Atc... pazienza pensai, sarà III+. Il tiro successivo era facile, ripido, umido e spettava a me.
Giova esordì: “Metti pure qualcosa”, ed io non potei trattenere la risata: stavo forse dando l'impressione di voler semplicemente portare a spasso la corda per una quarantina di metri!? Raggiungemmo la Forcella Provenzale che si stava levando un vento forte e nuvoloni scuri minacciavano il nostro progetto. Certo non si trattava di realizzare alcuna impresa ma quella giornata era importante per noi e non avremmo potuto replicare per quella stagione.
Fortunatamente i tuoni roboanti in lontananza si risolsero in un bluff, i nuvoloni fecero capolino dietro allo Chambeyron e noi potemmo raggiungere il gendarme di roccia scura sulla Cresta, dove terminava la via. Piazzata la prima (ovvero ultima) sosta della via cominciammo a calarci; procedevo quasi meccanicamente, tagliando brandelli di fettucce, rimuovendo vecchi chiodi e spazzolando qua e là, ma poco alla volta, senza quasi rendermene conto, iniziai a prestare attenzione ai muri compatti, ai fessurini cechi ed a cercare di immaginarmi lì in mezzo nei primi anni '80, senza aver idea di dove passare, solo con “una serie di stoppers fino al n° 8”, come indicava candidamente Giova nella sua vecchia guida. Credo di essermi immedesimato di più nell'apritore calandomi su quella linea che in tante altre occasioni, durante scalate per me difficili, dove impegnato a risolvere i passaggi o a piazzare le protezioni non ho mai avuto il tempo di riflettere e comprendere.
Alla fine ci restò il tempo per scalare il primo tiro: bellissimo, ma sentivo che quel giorno non sarei stato in grado di scalare tutta la via da primo, in libera e con sufficiente tranquillità, e un po' mi dispiaceva. Ma Giova era lì, a festeggiare il suo 50° compleanno, a 30 anni esatti dall'apertura della via, probabilmente con lo stesso guizzo negli occhi che aveva in quell'estate di tanti anni fa. Quindi poco male, pensai, forse ho ancora un po' di tempo.
Paolo Seimandi
SCHEDA: L'orologio senza tempo
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