L'inviolata Sato Pyramide in Nepal salita da Silvia Loreggian e Stefano Ragazzo
Da molti anni sognavo di andare in Himalaya per una spedizione esplorativa, l’idea di mettermi in coda su una montagna commerciale non mi ha mai esaltato ed ho sempre avuto per la testa di trovare qualche posto dove ancora nessuno avesse messo piede.
Ho provato diverse volte a raccogliere informazioni da chi ci era già stato ma purtroppo gli alpinisti, si sa, fanno molta fatica a condividere i loro segreti e quindi l’idea di un viaggio in Nepal è sempre svanita sul nascere.
Per questo devo ringraziare moltissimo Emrik Favre il quale, pur non conoscendoci di persona, quando l’ho chiamato al telefono qualche mese fa mi ha dato molte informazioni da cui poter iniziare la mia ricerca, tra cui alcuni nomi di valli Himalayane dove poteva esserci qualcosa che faceva al caso nostro. Così, partendo dal mettere alcuni puntini sulla mappa, abbiamo iniziato la nostra ricerca sino ad approdare alla catena degli Sharphu: una catena di diversi 6000 nella valle del Kangchenjunga, nell’estremo nord est del Nepal, racchiusa al confine con il Tibet a nord e con l’India ad est.
Il nostro obiettivo iniziale era lo Sharphu III, una montagna di circa 6200 metri ancora inviolata. A qualche giorno dalla partenza però, l’agenzia nepalese ci ha comunicato che non si erano accorti che nel database per i permessi quella montagna risultava essere erroneamente di 6800 metri, facendo così schizzare il costo del nostro permesso. La foto in nostro possesso presa dall’Himalayan DataBase mostrava chiaramente l’intera catena degli Sharphu e lo Sharphu III non poteva raggiungere assolutamente quella quota, la nostra misera foto però non era sufficiente per cambiare i database nepalesi in una settimana Abbiamo deciso così di spostare la nostra attenzione su un secondo obiettivo: il Sato Peak, anch'esso con una quota di circa 6200 metri e geograficamente raggiungibile dalla stessa zona.
Dopo alcune ricerche e studi tra foto satellitari e carte topografiche abbiamo individuato la zona secondo noi migliore per approcciare la montagna scelta, avvicinandoci quindi dal lato est. Questo ha significato entrare all’interno del Kangchenjunga National Park, percorrendo una parte del trekking che porta all’omonimo campo base ed abbandonandolo a quota 4000 metri per salire una valle secondaria posta tra i piccoli villaggi di Ghunsa e Kambachen.
Per il trasporto del materiale durante l'avvicinamento lungo il trekking del Kanchenjunga e poi fino al campo base, ci siamo fatti aiutare da due yak guidati da un pastore locale. La nostra più grande fortuna è stata che, a detta dello yak man, nella valle che avevamo individuato per posizionare il campo base non ci entrava più nessuno da parecchi anni, ma molti anni addietro proprio alcuni pastori vi si erano addentrati fino a quota 4500. Quel pascolo in seguito era stato abbandonato ma il nostro fidato yak man, agli albori della sua carriera da pastore, faceva esattamente parte di quel gruppetto che era arrivato sino a lì e ricordava un piccolo corso d’acqua nelle vicinanze. In questo modo, guidati dai nostri sopralluoghi e dalla sua esperienza, riusciamo ad installare il campo nella zona prescelta. Raggiungerla non è stato facile in quanto non presentava sentieri o tracce ed in alcuni tratti ripidi e franosi gli yak hanno dovuto dare il meglio di loro per riuscire a passare.
Ad ogni modo, una volta posizionato il campo base ha avuto inizio la fase esplorativa per tracciare la via verso la base del Sato Peak. La montagna era già ben visibile sopra di noi, ma per raggiungerla c’erano diverse morene ed avvallamenti da attraversare, alcuni anche pericolosi per la caduta di pietre in cui dovevamo passare uno alla volta per evitare di innescare vere e proprie frane.
Abbiamo posizionato un ulteriore campo base avanzato a 5300 metri, appena sotto l’inizio del ghiacciaio ed abbiamo sfruttato i giorni successivi per l’acclimatamento, alternando giorni di riposo al campo base a salite al campo avanzato e perlustrazioni lungo il ghiacciaio ed i diversi versanti del Sato Peak.
La mia idea iniziale era di provare a scalare la parete Nord ma una volta lì ci siamo resi conto che sarebbe stato impossibile, in quanto non c’era traccia di ghiaccio o neve pressata ma solo di neve non trasformata, cristalli sfaccettati che avevano la consistenza di piccoli granelli di zucchero e che ci facevano sprofondare da mezzo metro ad un metro andando a toccare con i ramponi la roccia che stava sotto. Così dopo qualche tentativo decidiamo di riposare un paio di giorni e provare poi a salire lungo la cresta Sud Est, decisamente più rocciosa e forse per questo più sicura.
Il 31 ottobre lasciamo il nostro campo avanzato intorno alle 4.30 di mattina ed iniziamo la salita lungo il ghiacciaio. Anche qui, la neve ci fa dannare parecchio: per fare meno fatica cerchiamo di stare sempre nel suo lato sinistro dove affiora un po’ di ghiaccio, il che ci costringe a salire lungo tratti più ripidi ma con una progressione meno faticosa. È buio e fa molto freddo, non riusciamo a scaldarci e progrediamo lentamente, la temperatura si aggira intorno ai -20 Celsius ma sappiamo che dobbiamo resistere, tra qualche ora il sole sbucherà da dietro lo Jannu e porterà la temperatura a livelli più accettabili.
Raggiungiamo l’inizio della cresta rocciosa e dopo qualche tentativo di perlustrazione riusciamo a trovare un punto dove salire ed iniziare la scalata. Anche qui nei tratti più ripidi la neve non permette una salita agevole e quindi cerchiamo sempre dei punti dove, anche se di scarsa qualità, prevale la roccia. La salita alterna tratti di roccia appoggiata dove procedere in conserva, a tratti più ripidi dove è richiesta invece una progressione a tiri. In alcune sezioni siamo obbligati ad arrampicare senza guanti per riuscire ad avere più sensibilità sulle piccole tacche che ci offre lo gneiss.
Tentiamo ripetutamente di testare la tenuta della neve nel versante nord che ci consentirebbe una progressione molto più veloce, ma siamo sempre costretti a ricorrere alla roccia, dove riusciamo a piazzare qualche friend o spuntone per assicurarci durante la salita. L'arrampicata è varia e divertente, salvo qualche tratto di massi instabili e roccia marcia. Dopo sei ore di viaggio in cresta arriviamo sull'antecima del Sato Peak a quota 6100, il primo obiettivo che ci eravamo prefissati. Per raggiungere la cima principale, a 6200 metri, bisognerebbe scendere e reperire una cresta nevosa zigzagando tra alcuni seracchi. Purtroppo però le condizioni della neve sono sempre le medesime e decidiamo quindi di concludere la nostra salita su questa cima senza nome.
La discesa avviene lungo la linea di salita, scendiamo con molti tratti di arrampicata in discesa e qualche doppia nei tratti più ripidi. Nel tentativo di aggirare un torrione che in salita avevamo arrampicato, ci troviamo in piena parete sud su una sezione di pietre appoggiate l’una sopra l’altra che si muovono solo a guardarle. Perdiamo parecchio tempo per superare questa sezione, con un po’ di paura riusciamo a tornare in cresta e da lì giù sino al colle nevoso… Possiamo dirci in salvo! Scendiamo lungo il ghiacciaio con le ultime luci e ci godiamo un bellissimo tramonto sullo Jannu che come ogni giorno ci fa compagnia e ci guarda potente, a vedetta di questa valle immensa.
Arriviamo alla tenda che è già buio, la temperatura sta scendendo velocemente e noi siamo veramente stanchi. Ci togliamo gli scarponi e ci infiliamo nei sacchi a pelo così come siamo, prima di crollare troviamo appena un po’ di forza per sciogliere della neve e poter così condividere una busta di cibo liofilizzato che mangiamo con gli occhi chiusi e prendendo sonno mentre mastichiamo.
I giorni successivi li dedichiamo al riposo e al trasporto del materiale dal campo avanzato al campo base dove speriamo che lo yak man tornerà a prenderci nei giorni successivi. Abbiamo comunicato la data di rientro via messaggio tramite satellitare a cui non può rispondere.. Aspetteremo fiduciosi il suo arrivo!
Abbiamo molte emozioni addosso, alcune positive, altre negative, prevale sicuramente il rammarico per non essere riusciti a continuare e raggiungere anche la cima del Sato Peak.
Poi i giorni passano ed iniziamo a vedere con occhi diversi quello che abbiamo vissuto lassù durante le settimane precedenti. Avevamo bisogno di staccarci da una realtà che ci era quasi diventata normale per renderci conto invece della sua eccezionalità, e così della fortuna che abbiamo avuto nel viverla; forse anche parlarne con altre persone “esterne” ci ha permesso di valutare gli eventi filtrandoli con occhi e orecchie nuovi, curiosi di scoprire cosa avevamo trovato e vissuto lassù; e forse anche la semplice distanza geografica che ha significato tornare a temperature più confortevoli, sapori e pensieri diversi!
Quando siamo partiti per questa spedizione non sapevamo nemmeno se saremmo riusciti a trovare un modo per salire al campo base, se avremmo trovato dell’acqua o se la base della montagna che volevamo scalare era in qualche modo raggiungibile. Abbiamo camminato ed arrampicato in posti dove probabilmente nessun'altra persona aveva messo piede prima, in una spedizione totalmente auto organizzata, senza l’aiuto di sherpa e portatori, con tanti punti di domanda che hanno lasciato lo spazio all’avventura di crearsi giorno dopo giorno e farci vivere una vera esplorazione come da anni sognavamo di fare.
Decidiamo di chiamare la nostra cima Sato Pyramide e visto che durante la permanenza al campo base avevamo come unico intrattenimento l’Odissea che Silvia si era scaricata sull’e-book, chiamiamo la nostra nuova via Kalypso, sentendoci in qualche modo “prigionieri” anche noi dell’amore.. Non per la ninfa, ma per queste montagne che ci motivano ad insistere e inventare nuovi progetti!
di Stefano Ragazzo
Sato Pyramide (6100 metri)
Kalypso - 600 m. M4/V
31 ottobre 2022
Silvia Loreggian e Stefano Ragazzo ringraziano: SCARPA, Ferrino, Ande, Elbec, Grivel
Info: www.alpinevibes.it